Terra e dittatura in America Latina

di Gli Asini /
11 Ottobre 2025 /

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[Dalla redazione de Gli Asini Rivista:] Abbiamo incontrato Anna Recalde Miranda, regista italo-paraguayana, per discutere del documentario Green is the new red (2024, 106 minuti), girato tra Paraguay e Brasile e che esce in sala dal 22 settembre 2025, distribuito da OpenDDB. Il documentario si compone di due parti. La prima racconta del Plan Condor e della repressione brutale operata dalla dittatura in quel paese, in connessione con le altre dittature latinoamericane degli anni Settanta e Ottanta. Dopo un’interruzione quasi due anni, dovuta anche alla morte, in circostanze poco chiare, del giornalista e attivista statunitense con cui la regista stava collaborando, le riprese ricominciano, si muovono tra Paraguay e Brasile e si concentrano sulla “Repubblica della Soia”, sull’agribusiness, sulla questione ecologica e della terra, sulla repressione violenta dei movimenti contadini e degli indigeni. La tesi forte di questo film è che vi sia una continuità – ideologica e organizzativa – tra la violenza e la repressione di ieri e quelle di oggi o, con le parole di Martín Almada, uno degli interlocutori centrali del documentario, tra “ un Plan Condor 1 e un Plan Condor 2”.

Vi era già chiaro sin dall’inizio delle riprese il rapporto tra queste due questioni – la repressione nelle dittature degli anni Settanta-Ottanta e la violenza di oggi legata ai conflitti attorno alla terra e all’ecologia – che riguardano l’America Latina e il nostro mondo?

Sì, questo rapporto ci era già chiaro dall’inizio e l’obiettivo del film era riuscire a renderlo visibile, come visibile questo nesso è nella storia recente del Paraguay. Questo documentario è il terzo capitolo di una trilogia, iniziata nel 2008 quando è stato eletto Fernando Lugo, il primo presidente progressista nella storia del Paraguay, dopo la dittatura del generale Alfredo Stroessner (1954-1989) e dopo altri 19 anni di vittorie nelle elezioni “democratiche” dello stesso partito del dittatore, il Partito Colorado.
Lugo era un vescovo della Teologia della liberazione, quella corrente della Chiesa cattolica che ha un’importanza storica enorme in Sud America. Nel primo film, La tierra sin mal (2008), avevo seguito Fernando Lugo nella sua campagna elettorale fino alla vittoria a sorpresa alle elezioni. Durante quel lavoro ho conosciuto Martín Almada, che aveva circa 70 anni ed era un sostenitore della candidatura di Lugo.
È lui che ha scoperto gli Archivi del Terrore, 5 tonnellate di documenti della dittatura Stroessnista dove sono state trovate le prove dell’esistenza del plan Condor,  il coordinamento – promosso e sostenuto dagli Stati Uniti tramite la CIA – tra le intelligence militari delle dittature di Cile, Argentina, Paraguay, Uruguay, Bolivia, Perù, Brasile che portò all’uccisione, scomparsa e tortura di decine di migliaia di persone. Nel secondo film, Potere e Impotenza, un dramma in 3 atti (2014), ho invece seguito i quattro anni di agonia del governo Lugo, che è durato dal 2008 al 2012 ed è finito con un colpo di stato parlamentare (impeachment), dopo ben 24 tentativi. Sin dall’inizio l’argomento principale della candidatura di Lugo era la riforma agraria e la denuncia delle tierras malhabidas, ovvero terre accaparrate in modo illegittimo durante la dittatura.
Secondo la Commissione per la Verità e la Giustizia (CVJ) istituita in Paraguay nel 2003, la dittatura fu un regime totalitario che perpetrò attacchi sistematici e diffusi contro la popolazione civile per imporre un modello basato sull’appropriazione delle risorse: il sistema di corruzione per l’assegnazione illecita di terreni rurali statali alle autorità politiche, giudiziarie, militari e di polizia, e ai loro collaboratori, fu fondamentale per la costruzione delle reti di complicità economica della dittatura.
Con il passaggio alla democrazia queste terre non sono mai state restituite e spesso sono state occupate senza documenti di proprietà. Si dice che nel momento del passaggio dalla dittatura alla democrazia, nel 1989 quando Stroessner è caduto, quelli che hanno più lavorato quella notte siano stati i notai, che hanno prodotto falsi titoli di proprietà per importanti esponenti della dittatura per legalizzare l’enorme furto di terre che era stato realizzato.
Questa situazione è nota da tempo a tutti i paraguaiani ma non è semplice sistemare anche perché c’è un’enorme confusione sui titoli di proprietà della terra in Paraguay, una confusione dettata dalla corruzione.
Nel 2008 Lugo ha incarnato la volontà di realizzare una riforma agraria, in uno dei paesi con le disuguaglianze sociali ed economiche più alte del mondo. Sin dall’inizio la dittatura, la repressione e il Plan Condor erano anche finalizzati al furto di ricchezze e di risorse naturali: non si trattava solo di repressione politica degli oppositori, ma anche di uno schema economico di accumulazione per via militare. 

La transizione alla democrazia non ha però significato la fine dell’impunità: non si è riusciti a far riconoscere le responsabilità di chi era compromesso con la dittatura né per gli omicidi politici e i desaparecidos, né per il furto di terre. Il tentativo di Lugo era quello di affrontare finalmente la questione partendo dalla terra.

Anche nella dittatura cominciata in Brasile nel 1964, direttamente legata agli interessi degli Stati Uniti, la questione della terra e della sua gestione è stata cruciale. Il regime dei gorillas aveva implementato la politica agricola della “rivoluzione verde”, una politica cioè di stravolgimento dell’agricoltura tradizionale in mano ai contadini attraverso l’applicazione dell’industria chimica e meccanica ai campi e all’imposizione della monocoltura e della schiavitù di fertilizzanti e pesticidi.
Questo processo è stato realizzato attraverso le sovvenzioni della Banca Mondiale, e, a partire dagli anni Novanta con il governo neoliberista di Cardoso, si è approfondito, con una fase di finanziarizzazione e industrializzazione più rapida dell’agricoltura. La zona di frontiera tra Paraguay e Brasile è stata un luogo strategico di sperimentazione di questo processo.

Quando ho seguito il governo Lugo, mi sono accorta che sul tema della restituzione delle terre aveva un potere d’azione molto limitato. Era come un cancro che aveva mangiato gran parte del paese in modo illegale. Quando il governo Lugo ha veramente cercato di applicare delle misure legate alla terra, é stato immediatamente deposto, a seguito di una campagna mediatica e di pretesti con cui i suoi avversari hanno montato un colpo di stato di fatto. Ho avuto esperienza diretta di tutto questo tutto questo perché per quattro anni ho girato il mio secondo documentario proprio dietro le quinte del potere, seguendo 3 personaggi: il presidente della repubblica, il primo ministro e un senatore.

Il tuo ultimo lavoro «Green is the new red» ha anche un obiettivo pedagogico, può davvero essere utile per presentare a persone giovani quei meccanismi sociali, politici ed economici che stavano dietro le dittature latinoamericane e, più in generale, come si costruiscono la rapina e lo stato di devastazione del mondo che c’è adesso. Che modelli di cinema militante avete avuto? Pensiamo per esempio al Cine Liberación in Argentina e al Cinema Novo in Brasile.

Io e Nicola Grignani – che firma la fotografia del documentario – veniamo dal mediattivismo.
Ci reputiamo più attivisti che artisti. Io mi sono ritrovata, per la mia storia personale, in questo legame con il Paraguay, un paese che è stato molto poco rappresentato e le cui vicende sono poco conosciute. Anche all’interno del Paraguay c’è poca memoria su ciò che è accaduto.
Io ho sempre avuto una tendenza “pedagogica”, soprattutto quando si trattano questioni importanti ma poco conosciute. Questo forse non è di moda nel cinema e nel documentario di oggi.
Abito in Francia da 25 anni e se faccio questo lavoro è anche grazie al fatto che qui si riescono a trovare delle risorse, però i due documentari precedenti – che trattavano di temi fortemente politici, ma con un tono personale – sono andati a finire nei circuiti del reportage, della televisione, non sono stati visti come documentari d’autore. La tierra sin mal e Potere e Impotenza si possono trovare, nella loro versione francese, sulla piattaforma “Les mutins de Pangée”.

Stilisticamente ci ha colpito l’insistenza sui volti delle singole persone. Ci sono tre generazioni: quelli che sono passati attraverso la tortura, la dittatura, gli anni ‘70; le figure di attivisti come Paul Z. Simons, che è morto durante le riprese del documentario in circostanze poco chiare; e poi le giovani attiviste ricercatrici, una del Paraguay e una del Brasile. Vediamo meno i movimenti sociali: è perché in Paraguay non ci sono?

In Paraguay le organizzazioni di opposizione sono molto deboli. Ci sono i sindacati, ma sono minoritari e storicamente legati al Partito Colorado. L’eredità del Paraguay è 35 anni di dittatura e poi 19 di democrazia in cui lo stesso partito della dittatura ha sempre vinto le elezioni, fino a Lugo. Non esiste praticamente nulla fuori dal partito, se non i contadini e gli indigeni, che si organizzano come possono e vengono ignorati o repressi.
Il governo Lugo ha fatto molto: ha creato un servizio televisivo pubblico, che prima non esisteva, e  ha potenziato la sanità pubblica, che era solo embrionale. In quel periodo i movimenti sociali sono stati importantissimi, però poi, dopo il colpo di stato, hanno prevalso le divisioni e le accuse reciproche e si è persa un’occasione storica.

Per quanto riguarda i volti, credo sia sempre importante soprattutto in un lavoro a vocazione «politica», mettere al centro l’umanità delle persone, perché è quella che sostiene le loro lotte, i loro ideali, non abbiamo filmato dei “portavoce” di organizzazioni, ma degli attivisti e le loro esperienze.
Quando, nel 2017, ho scritto le prime versioni del progetto per chiedere per chiedere finanziamenti per questo film, è stato molto difficile perché era prima di Greta Thunberg, prima di Bolsonaro, prima degli incendi dell’Amazzonia. Quando ho presentato per la prima volta l’idea di base del film, la risposta che ho avuto dai potenziali finanziatori è stata che volevo fare un film complottista.
Questo perché lavoravamo sull’evoluzione dell’idea di nemico interno, dal periodo dell’operazione Condor fino ad ora: come si é passati dal nemico “comunista” al nemico “eco-terrorista”. Per questo mi sono basata sul lavoro di Pierre Abramovici sull’evoluzione dell’internazionale nera attraverso la storia della Lega mondiale anticomunista (WACL), attore importante del Condor, e sulla tesi di Martin Almada sulla continuità tra Condor 1 e Condor 2. Con Condor 1 intendeva la cooperazione nella repressione durante il periodo delle dittature, finalizzato all’imposizione del sistema neoliberale, con Condor 2, il mantenimento di tale schema durante il ritorno alla democrazia, con l’aggravante che la sostanziale continuità con il modello economico da loro imposto e i gruppi di interesse che le avevano sostenute si basa su un accaparramento illecito di terra, l’estrattivismo, la prolifelazione dell’agrobusiness. Oggi, quasi 8 anni dopo questa intuizione embrionale, la realtà dei fatti ci da ragione, purtroppo non si trattava di un complotto.


A livello di storiografia non è un dato acquisito il 
Plan Condor, oggi?

Sì, e lo è grazie a Martín Almada. Perché i documenti che provano l’esistenza del Plan Condor sono stati trovati nell’“archivio del terrore” in Paraguay da Martín Almada nel 1992. Però un’analisi globale dell’impatto politico, sociale e economico del Plan Condor per il continente sudamericano non c’è ancora: per fare questo c’è bisogno di lavorare lungamente sull’insieme dei documenti e degli archivi.
Purtroppo questo accesso e questo lavoro è ancora parziale e frammentato. Negli anni ’90 e 2000 c’è stato un risveglio democratico ed è iniziato un processo di ricostruzione della memoria e di rivendicazione di giustizia, ma erano necessari giudici disposti ad aprire processi contro militari che molto spesso sono ancora al potere; per fare questo ci vuole molto tempo e in molti paesi questo processo non è neanche iniziato.
Il paese faro è stata l’Argentina, e anche il Cile, mentre in Brasile il lavoro di memoria e giustizia è stato minimo. Anche in Paraguay siamo a zero. Insomma: ogni paese ha avuto la sua storia, ma manca una storia condivisa. E questa storia non c’è anche perché non ci sono finanziamenti o borse di studio per la ricerca su questi temi. Quando Bolsonaro è arrivato al potere ha chiuso le facoltà di Lettere. Con Milei in Argentina e l’amnistia in Peru, si stanno facendo enormi passi indietro, capite?


Nel documentario una delle organizzazioni che emergono di più, oltre al Movimento dei Sem Terra, è quello del 
Conselho Indigenista Missionario (CIMI). Che ruolo hanno, come li hai incrociati?

La prima volta che sono andata in America Latina avevo 27 anni, ero anticlericale. Lì mi sono resa conto che, tra quelli che si “bagnano la camicia”, come si dice in Francia, che si impegnano in lotte e questioni importanti dal punto di vista politico, spesso c’è stata la Chiesa o, meglio, una parte della Chiesa, quella militante influenzata dalla Teologia della liberazione.
Quando in America Latina c’è da arrivare al profondo delle cose spesso sono loro che ti aiutano. Anche Lugo veniva dalla Teologia della liberazione. Non è un caso che ci sia un’esplosione delle chiese evangeliche: anche l’infiltrazione di queste chiese è stata una strategia politica a partire dagli anni Ottanta. Già con Reagan le chiese evangeliche sono state inondate di soldi e hanno diviso le comunità più povere dicendo “se ascolterai quel prete comunista finirai all’inferno” o a volte anche distruggendo con violenza le case di leader spirituali indigeni, che cercano di recuperare la loro cultura.

Il CIMI è tra le poche organizzazioni in Brasile che alzano la voce sui crimini, che raccolgono dati, laddove lo stato non fa inchiesta, dove non c’è giornalismo e non c’è giustizia. Se ci sono dei morti ammazzati e nessuno li rileva, quella cosa è come se non fosse successa. Il CIMI fa questo lavoro. Sono rispettatissimi da tutti i movimenti di sinistra. Vengono dagli anni ’70, quando alcuni vescovi si rifiutarono di obbedire alle politiche feroci della dittatura brasiliana sugli indigeni.

Ho contattato il CIMI dopo aver letto che uno di loro, Roberto Liebegott, attivo nel Mato Grosso del Sul, era stato incriminato come terrorista nel periodo di Michel Temer, quando si preparava il terreno per l’arrivo di Bolsonaro, in cui furono distrutte le istituzioni che si occupavano della riforma agraria e della distribuzione delle terre agli indigeni. Allora ho preso contatto con lui e ci ha aiutato molto: ha riconosciuto l’utilità e l’originalità del nostro lavoro, l’appropriatezza dell’angolo di analisi, anche da un punto di vista internazionalista, e ci ha portato a vedere delle situazioni molto toccanti.
Lì ho capito, sul terreno, che cos’è la “Repubblica della Soia”, in quel territorio, il Mato Grosso do Sul, tra Paraguay e Brasile. Un posto devastato, dove non c’è più niente, dove comunità contadine e indigene cercano di coltivare con una temperatura di 50 gradi, mentre intorno c’è solo soia e le squadre paramilitari li ammazzano con armi di precisione o con i pesticidi.
Non ci sono più insetti, non c’é più vita, non c’é più niente. E i grandi coltivatori cercano di accaparrarsi sempre più terra, più terra, più terra, perché man mano la distruggono, diventa secca e non serve più. Per questo la soia si sta spostando verso Nord, verso l’Amazzonia, mentre a Sud resta un cimitero. La storia drammatica dei Guaranì Kaiowà, il popolo con il più alto tasso di suicidi al mondo, è una conseguenza di questa devastazione e violenza.


Il documentario si muove tra due stati diversi, tra contesti militanti differenti, ricercatori, indigeni, 
campesinos, avvocati: è stato utile per tessere legami? Lo hai proiettato? Come verrà accolto lì, al di là della conoscenza che porti su questi temi in Europa?

Il film uscirà in Paraguay nel febbraio 2026. Le persone coinvolte che l’hanno visto ne sono state tutte molto toccate. Spero che sarà accolto bene, anche se non nego di essere un po’ preoccupata. Lì ci sono registi che fanno cinema anche su temi legati alla dittatura, che è la storia del loro paese, ma con un altro stile. Sull’eredità di Lugo non c’è quasi nulla. I miei due documentari precedenti verranno proiettati in queste settimane ed è come rispolverare una memoria recente che è stata resa invisibile. 


Questo film rischia di essere disperante: parla di un sacrificio enorme, di persecuzioni, assassini, violenza, rapina, mostra un potere invincibile, fino al saccheggio e alla desertificazione della terra e alla sovversione della parola democrazia. Si esce senza speranza?

No, la mia volontà non era togliere la speranza. L’obbiettivo é proporre una lettura sulla genealogia della crisi climatica e politica attuale, basandosi su una storia concreta e documentata e ispirandosi all’esempio di persone e lotte che hanno attraversato periodi storici violenti e difficili restando in piedi, con dignità, nella lotta. Non è il film che è duro, è la realtà che è dura.
Il film, a detta del pubblico (è uscito nelle sale in Francia nel mese di marzo 2025 con il titolo De la guerre froide à la guerre verte e con lo stesso titolo in francese al Biografilm Film Festival di Bologna ha vinto il premio manifesto e il premio del pubblico) è piuttosto illuminante, perché permette appunto di fare connessioni e capire.
Fare questo film è anche stato un percorso intimo e personale durante il quale ho capito l’importanza di non restare soli e di cercare alleati. Nel momento in cui lo giravamo, ero carica di una enorme tristezza per questo mondo che va a rotoli. Non voglio dire che non c’è speranza.
Al contrario, volevo far vedere che cosa può essere il mondo se continua così.

La condizione degli indigeni guaranì, accerchiati nelle loro terre sempre più esigue da robot che spargono pesticidi e avvelenano anche i loro raccolti, la terra in mano a fazenderos che ammazzano la gente, che non rispettano né diritti, né l’umanità: questo è il mondo che hanno in mente e che è destinato anche a noi.
Nei due documentari precedenti sul Paraguay mostro come ci sia stato un momento di opportunità politica in cui c’era la speranza di cambiare delle cose. Poi hanno prevalso le divisioni. I partiti politici e i movimenti sociali non sono riusciti a lavorare insieme, a crescere, al contrario, si sono divisi e indeboliti. I fatti hanno delle conseguenze e quel colpo di stato contro Lugo ha avuto conseguenze pesanti. Questi tre film vogliono dire che la storia non è scritta da prima: la storia si fa e la fa ognuno di noi, anche in modo molto semplice, restando decente e cercando di resistere. 

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