Non ho mai avuto molta dimestichezza con le strategie elettorali: mi è sempre sembrato che un partito, quando esistevano, dovesse fondare i propri voti sulla base delle scelte che aveva compiuto nel corso della sua attività, quindi della soddisfazione degli interessi rappresentati, e non su calcoli tattici basati su sondaggi, posizionamenti strumentali, equilibrismi di corto respiro. Per questo non mi hanno mai convinto i movimentisti che si collocano come foglie al vento, sull’onda dei fenomeni contingenti. Eppure al contrario, purtroppo, la politica in generale e non solo in Italia sembra sempre più condizionata da queste tendenze eclettiche.
Così in questa cupa stagione della destra-destra al governo, frutto delle sciagurate scelte precedenti, di un centrosinistra in balia di gruppi dirigenti senza idee e senza autonomia, ci appropinquiamo alle prossime elezioni europee con una bussola impazzita che non trova la direzione di marcia e ondeggia tra conflitti latenti o evidenti tra i due maggiori partiti/movimenti che dovrebbero essere alleati per cercare di contrastare la prepotenza di una maggioranza pronta ad assestare il “colpo di grazia” ad un’opposizione che invece sembra rifugiarsi nell’autodifesa dei propri rispettivi acquartieramenti.
Non m’interessa personalmente, e credo non sia utile in assoluto, cercare le maggiori responsabilità di questa situazione nei Cinquestelle di Conte o nel Pd di Schlein; mi limito a evidenziare che la tattica su cui si muovono entrambi è precisamente capovolta rispetto a quella della destra che litiga su tutto ma riafferma la solidità strategica della sua alleanza. Fratelli d’Italia e la Lega si menano continuano fendenti e si scontrano all’arma bianca, ma non sognerebbero per alcuna ragione di mettersi in minoranza e quindi appaiono sempre solidi. Questa è la loro forza, in cui certo non c’è coerenza ma molta molta scaltrezza politica.
Al contrario, aiutati da una stampa e da media ovviamente male intenzionati, i due partiti di opposizione mostrano soprattutto la difficoltà, per non dire l’improbabilità di un’alleanza strategica, l’assenza di una visione comune. Certo ci sono differenze di comportamento personali dei due leader: Elly Schlein appare più propensa a cercare un accordo, senonché ci pensano le componenti “moderate” interne al partito a riportare a zero il gioco dell’oca, per cui non perdono occasione a sottolineare l’impossibilità che “questo matrimonio non s’ha da fare”.
Nell’altro campo, Giuseppe Conte e i Cinquestelle sono alla ricerca di un risultato elettorale che non li penalizzi e per questo sentono il bisogno di rimarcare le differenze dal potenziale alleato, perché ritengono che il bacino elettorale contiguo li metta a rischio di fagocitazione, dimenticando che esiste una vasta area di astensione che dovrebbe invece essere il principale target di entrambi i partiti.
Le elezioni europee sono di tipo proporzionale e quindi ogni partito conta i suoi voti e sulla base di quelli si può dichiarare vincitore o sconfitto. Ma – ed è il quesito – quale si pensa sarebbe il quadro politico all’indomani delle elezioni se la somma dei voti dei due partiti alla fine risultasse in calo (contando anche gli altri potenziali alleati minori, ovvero verdi-sinistra e in parte Azione, mentre Italia viva non fa parte di questo schieramento) e inferiore a quella della destra? Se pure uno dei due partiti di opposizione raggiungesse un risultato soddisfacente, semplicemente come travaso di voti dagli alleati, e la somma di tutti i voti registrasse una tendenza stagnante o peggio regressiva, allora anche il singolo risultato positivo sarebbe fortemente ridimensionato, e se pure il leader di uno dei due partiti tirasse un sospiro di sollievo sarebbe comunque in una condizione in cui il vero vincitore resterebbero Meloni e tutta l’allegra brigata al governo.
Diversamente, se anche le percentuali dei due partiti oscillassero a favore dell’uno o dell’altro ma in una dimensione di crescita complessiva dell’opposizione, ciò significherebbe che forse si può intravedere la fine della tendenza alla sconfitta e ci si può preparare ad una futura rimonta. Senza dimenticare che trattandosi di elezioni europee molto delicate, in cui si gioca il posizionamento dell’Italia in un quadro di forte crisi e incertezza sul piano dei rapporti internazionali, sarebbe ancor più importante che i due maggiori partiti dell’area progressista (se proprio non la vogliamo chiamare sinistra) mostrassero di avere più punti in comune di quanti non ne abbiano le destre xenofobe e populiste che sono al governo.
Ecco perché, a parer mio, l’attuale gestione dei rapporti nel centrosinistra è di corto respiro: sarebbe necessario, e qui uso ancora il condizionale purtroppo, che i due gruppi dirigenti si guardassero allo specchio e si facessero un esame di coscienza prima che sia troppo tardi e che non diventi l’ennesimo “mea culpa”.
Questo articolo è stato pubblicato su Il Fatto Quotidiano il 9 febbraio 2024