Riprendiamo qui – in una versione un poco più distesa – un articolo uscito sul Manifesto il 27 febbraio 2023, dove il ragionamento approda a una domanda che sarebbe da rivolgere alle forze politiche che si candidano alle prossime elezioni europee: cosa farete per tutti i cittadini che chiedono all’Unione europea di ritroivare il senso della sua vocazione istitutiva: di contribuire “alla pace, alla sicurezza, allo sviluppo sostenibile della terra, alla solidarietà e al mutuo rispetto tra i popoli”? Cosa farete per la pace?
“L’ombra delle bombe” è una zona da indagare, il non detto, il dissimulato. Ma che succede in quel cono d’ombra? Quali sono le conseguenze, i riflessi, le ripercussioni della “guerra mondiale a pezzi” sul piano sociale, economico, ambientale, spirituale, culturale? Proiettare luce dentro al cono d’ombra per esaminare la realtà, interpretarla, poi pensare di cambiarla“. Una nuova associazione, Il coraggio della pace disarma, che ha avuto il 24 e il 25 febbraio il suo convegno di fondazione, ha provato a farlo, nello splendore del Convento di san Domenico Maggiore a Napoli, nei grandi porticati e chiostri dove ancora aleggia l’ombra di due spiriti magni, Tommaso d’Aquino e Giordano Bruno.
C’è molto da imparare dove si parla di guerra e di pace provando a sollevare il velo della rimozione – che è forse l’atteggiamento mentale più diffuso nelle società europee oggi. La Sala del Capitolo era gremita, relatori delle più diverse provenienze si alternavano sul palco o sullo schermo. Impossibile dar conto della molteplicità di prospettive e di temi, che convocavano tutte le scienze sociali e tutto lo sconcerto morale della nostra ragione a illuminare un solo fatto, insieme incontestabile e oscuro. Che nel mondo e in particolare in quello delle democrazie occidentali i pochi prosperino, i moltissimi soffrano, le disuguaglianze diventino sempre più abissali, non in virtù di un destino storico ma in virtù di decisioni ovunque favorevoli alla riconversione in atto dell’economia, delle agende politiche, del linguaggio pubblico, alla guerra.
E’ la normalizzazione dell’indicibile: perché l’affare che arricchisce temporaneamente ai pochi e toglie welfare, speranza, slancio creativo e ideale a tutti ha come prezzo i fiumi di sangue presenti e quelli venturi. Il sangue delle due immani carneficine senza fine e senza orizzonte politico (o con un orizzonte che catastrofico) che abbiamo sotto i nostri occhi semichiusi: un’intera generazione sacrificata sui due fronti della guerra russo-ucraina, un’eliminazione ormai proclamata delle aspirazioni di un popolo a determinarsi come stato sulla sua terra, in Palestina. Il tutto – ed è la parte più amara – sotto le bandiere dei cosiddetti “nostri valori”, ossimoro per riferirsi a ciò che è dovuto agli umani come tali e non soltanto “a noi”, la dignità, la libertà, l’eguaglianza, la solidarietà, la cittadinanza e la giustizia.
I valori che l’Unione Europea premette alla sua Carta dei Diritti, quelli che animavano l’immenso “mai più” iscritto nella Carta dell’ONU, nella Dichiarazione Universale del’48, e via via nelle istituzioni universalistiche che la cognizione del dolore aveva fatto nascere nel secondo dopoguerra. Con la speranza di realizzare infine in terra un costituzionalismo globale, che due sole cose proibiva: la guerra e la violazione dei diritti umani. Un ordine cosmopolitico vero, che un “ordine” geopolitico chiamato pace, e fautore di guerre e deserti fuori delle oasi statunitense ed europea, armato fino ai denti ai suoi (s)confini, svuotava lentamente di senso dalla base. La base: cioè il polo della forza che insieme a quello della luce (o dell’idealità) sempre alimenta il vivente paradosso del diritto. Il quale vige solo per mezzo della forza che regola e vincola. Il diritto, questa grandiosa invenzione umana a metà strada fra la violenza e la giustizia, questo vincolo della civiltà che, sciolto, la rovescia nella guerra. E che si scioglie non appena il veleno della rimozione, della menzogna, della censura, della polarizzazione, della disumanizzazione spegne la luce delle ragioni, strozza l’ansia di verità nel dibattito pubblico, riduce il linguaggio a un’orwelliana amministrazione di conformismi e tabù: e decapita il polo dell’idealità, ghigliottinando la mente sociale. Allora al diritto non resta che appiattirsi del tutto sulla forza, e morire.
Eppure da tutte le vie per le quali giungevano a questa amara verità, i relatori intravedevano – tutti, senza eccezioni – un punto di convergenza fatto di buio e di luce: l’Europa. L’Unione europea che tace come Pietro per tre volte per non smentire il sanguinario veto atlantico al cessate il fuoco in Palestina. Che dimentica la sua stessa ragione di esistenza, iscritta nel suo trattato istitutivo: “Nelle sue relazioni con il resto del mondo, l’Unione (…) contribuirà alla pace, alla sicurezza, allo sviluppo sostenibile della terra, alla solidarietà e al mutuo rispetto tra i popoli”. E danza al tamburo di Stoltenberg, e lascia “i tempi lunghi della pace” per correre “ai ritmi veloci della guerra”, e usa la sua Facility for Peace e i suoi fondi PNRR per finanziare le industrie belliche nazionali al posto della riconversione ecologica. E che, invece, ancora potrebbe tornare in sé, e ricordare il coraggio della pace che la fece nascere. Siamo noi, che possiamo rifare l’Unione, votando alle elezioni europee, e votando per chi, volendo la pace, prepara la pace.
Questo articolo è stato pubblicato su Phenomenology Lab il 28 febbraio 2024