Lo sciopero generale indetto da Cgil e Uil ha visto fiorire sulla stampa nazionale critiche e censure. Si legge di tutto, dal dubbio pensoso all’anatema. Questo giornale ha scelto la strada opposta. E Landini, su Repubblica dell’8 dicembre, ribatte punto per punto a critici e detrattori. Una risposta da condividere.
Era prevedibile che la partita sul Quirinale e quel che segue facesse aggio su tutto. Draghi al Colle o a Palazzo Chigi? Quale poltrona per chi? I partiti si orientano in base alle proprie convenienze. Le motivazioni ufficiali della necessaria stabilità del governo o del ruolo europeo dell’Italia contano assai poco. Entrano in gioco le voglie quirinalizie di Berlusconi, le pulsioni di protagonismo renziano, le turbolenze in vista di assemblaggi elettorali, il timore di molti per una morte politica prematura dopo il taglio dei parlamentari, Conte che rifiuta – diversamente da Letta – la porta di servizio di un seggio parlamentare lasciato libero, e da ultimo la Cartabia che fa con la Meloni uno spot sullo sfondo del Colle. Mentre sulla legge di Bilancio tutti vorrebbero piantare bandierine, e si rompe il filo già sottile del dialogo tra sindacati e governo.
Se a tutto questo aggiungiamo il tormentone dal green pass rafforzato all’obbligo vaccinale e dintorni, la domanda è: che fine fanno gli interessi del mondo del lavoro, che in ultima analisi è – e rimane – la spina dorsale del paese? E lo è non solo in principio, per l’art. 1 della Costituzione che definisce l’Italia una Repubblica democratica fondata sul lavoro. Lo è anche di fatto, perché – come ricorda Landini – lavoratori e pensionati pagano il 90% dell’Irpef. Avrebbero diritto a un ascolto attento e privilegiato dei sindacati, che li rappresentano direttamente. Ascolto che invece non c’è stato e – almeno finora — non c’è da parte del governo.
In ultima analisi, è un problema di rappresentanza: chi parla per chi? Letta si propone per una ricerca di unità. Ma il Pd di oggi – dicono studi e sondaggi – rappresenta poco il mondo del lavoro. Letta mediatore somiglia a un notaio che sollecita parti in conflitto a cercare un accordo bonario. Non è un leader che spiega al suo mondo, traendone legittimazione, le ragioni di una scelta o di un indirizzo politico. Questo dovrebbe suggerire a Letta che il Pd ha un percorso da fare. Anche come notaio le sue prospettive sono grame, visto che la maggioranza ha respinto una ipotesi di mediazione avanzata dallo stesso Draghi. Alla sinistra di Letta, poi, manca la massa critica che sarebbe necessaria. E dunque la rappresentanza del mondo del lavoro oggi essenzialmente cade in modo diretto sul sindacato.
Il governo ritiene lo sciopero immotivato e ingiustificato. Potrebbe mai dire altro? Già sapevamo di avere un paese fragile, diviso territorialmente, socialmente, economicamente, poco e male rappresentato da un parlamento debole. Già sapevamo che il mantra di Draghi santo subito non poteva durare in eterno. Siamo al dunque. Non è dubbio che il paese e il mondo del lavoro in specie hanno bisogno di più eguaglianza tra persone e territori, più diritti, più equità e giustizia sociale, più tutela dei deboli a partire da donne e giovani. La legge di Bilancio non dà risposte soddisfacenti. Per dirne una, non basta che sette miliardi su otto siano destinati ai lavoratori, se i criteri del riparto negano la progressività sancita in Costituzione.
Dunque lo sciopero generale è strumento di partecipazione e rappresentanza di un mondo essenziale per il paese, e tuttavia non ascoltato. Possiamo dire che il sindacato sopperisce a un deficit del sistema politico. È una versione odierna del pansindacalismo degli anni ’70 del secolo scorso, anni in cui – giova ricordarlo – la Corte riconobbe la conformità dello sciopero politico all’art. 40 della Costituzione. Tale è quello indetto da Cgil e Uil, con cui il sindacato non usurpa il ruolo di altri, ma se mai ne riprende uno proprio. Va sostenuto, senza se e senza ma.
Spiace che sul Mattino dell’8 dicembre Sbarra, segretario Cisl, definisca «un grave errore la decisione di proclamare uno sciopero generale e di radicalizzare il conflitto in un momento tanto delicato per il Paese». Spiace ancor più che la Cisl abbia inteso sottolineare il distacco con una manifestazione «responsabile». Ma l’unità sindacale non può tradursi in veti e bavagli. Alla fine, è un problema della Cisl, e non di chi indice lo sciopero.
Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto il 10 dicembre 2021