Urbanistica in Emilia Romagna: licenza politica di demolire tutto

11 Dicembre 2017 /

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di Salvatore Settis
La neo-tutela all’italiana fa passi da gigante. Presto solo sparuti gruppuscoli di gufi intoneranno le solite giaculatorie sull’Italia patria della tutela del patrimonio storico-artistico, sull’articolo 9 della Costituzione, sul rispetto delle leggi vigenti, e simili anticaglie.
La nuova frontiera della tutela sta per essere fissata, e la neo-regola sarà questa: se volete distruggere un edificio vincolato, fate pure i vostri comodi, purché ne ricostruiate da qualche parte un pezzettino. Così, tanto per gradire. Questo è quanto sta per accadere all’ippodromo di Tor di Valle. Tutelare l’esistente non è importante, se si tratta di costruire qualcosa di “produttivo”. E i precedenti non mancano.
A Torino, la prescrizione-base per le nuove architetture sarebbe di non superare l’altezza massima della Mole Antonelliana (167,5 metri). Norma rispettata fino a quando un progetto (di Renzo Piano) previde un grattacielo alto quasi 200 metri. Di fronte alle polemiche, l’altezza fu ridotta a 167,25 metri: 25 centimetri meno della Mole, irrisoria differenza che pare uno sberleffo. Naturalmente il prossimo grattacielo (progettato da Fuksas) dovrebbe arrivare a 209 metri, 40 in più della Mole.

Viene così ignorato il significato che la Mole ebbe nell’architettura del suo tempo: per Nietzsche essa era “la costruzione più geniale che sia mai stata fatta”, “un impulso assoluto verso l’alto”, il segno del “fatale destino dell’altezza, il nostro fatale destino”, in quanto coeva ai primi grattacieli, come il Wainwright Building di Louis Sullivan a St Louis, Missouri.
In Emilia, dopo il terremoto del 2012, anziché consolidare e restaurare i campanili parzialmente crollati (come nella stessa Regione si era fatto con successo dopo il terremoto del 1996), si è deciso di abbatterli con la dinamite, per giunta lanciando alla fiera di Bologna una sorta di concorso di idee per campanili new style. Si videro allora disegni di improbabili campanili costituiti da una pila di grandi forme di parmigiano (per rispettare la gastronomia locale), o decorati da grandi bocche femminili. “Provocazioni” o “scherzi”, si è detto a chi protestava: ma dopo un terremoto è proprio il caso di scherzare? Certo non scherzava l’assessore provinciale di Mantova secondo cui, per dar lavoro ad architetti e imprese, sarebbe giusto abbattere quartieri o centri storici onde creare (dice lui) “una nuova socialità”. Tipo quella, per intenderci, delle berlusconiane new town che assediano la martoriata città dell’Aquila lasciandone per decenni in rovina il centro storico.
In Toscana, uno scavo archeologico a San Casciano in Val di Pesa ha identificato un insediamento etrusco-romano, che aveva il torto di essersi sviluppato in un’area che duemila anni dopo sarebbe stata destinata a capannoni industriali. E si è deliberato che il capannone, in quanto “produttivo”, deve sfrattare l’improduttiva archeologia; via libera al fabbricato, dunque, smantellando i resti archeologici e ricostruendoli da un’altra parte. Un falso storico (“archeopatacca”, scrissero allora i comitati locali). Il nuovo che avanza.
A Roma, mentre si discuteva la complicatissima questione del nuovo Stadio, la Soprintendenza di Stato vietò la distruzione anche parziale dell’ippodromo di Tor di Valle, “opera di grande innovazione costruttiva degli architetti Lafuente e Rebecchini” (1960). Inoltre, quattro Comitati tecnico-scientifici del ministero dei Beni Culturali (quelli per l’archeologia, il paesaggio, le belle arti e l’architettura contemporanea), riuniti in seduta congiunta, si espressero contro quel progetto, e in favore del vincolo sull’ippodromo. Ma ora, in una versione edulcorata del progetto iniziale, in cui le cubature degli edifici previsti intorno allo Stadio sono state significativamente ridotte, si è deciso di distruggere l’ippodromo, ma inventando un meccanismo compensativo: verrà costruita in quei paraggi la copia di una “fetta” dell’edificio, destinata a perpetuarne la memoria.
Idea davvero interessante, che – possiamo supporre – verrà presto imitata altrove. Se, puta caso, un convento medievale intralcia il percorso di un’autostrada o dà fastidio alla costruzione di un condominio, ecco fatto. Si distrugge il convento, se ne ricostruisce una porzione, e la modernità avanza senza intoppi. Altri sviluppi sono in vista: per esempio, potremmo approntare copie in formato ridotto di interi centri storici (come nei parchi dell'”Italia in miniatura”), metterle in museo, e abbattere i relativi quartieri, secondo la visione profetica dell’assessore mantovano, al fine di ricostruirli in perfetto “stile periferia”, la grande invenzione degli architetti italiani nel Novecento.
Quanto all’ippodromo di Tor di Valle, delle due l’una: o gli organi del ministero avevano ragione, e dunque l’edificio, in quanto vincolato, va tutelato, restaurato, riusato. Oppure l’ippodromo non è poi così importante, e dunque gli organi ministeriali devono fare marcia indietro, e il vincolo va tolto. Ciascuna di queste alternative ha una sua logica (ovviamente soggetta a discussione). La bizzarra ipotesi di una copia parziale, invece, ottiene un solo effetto: denuncia la riluttanza delle autorità preposte a prendersi fino in fondo la propria responsabilità, e la loro tendenza a rifugiarsi in una soluzione furbesca, figlia dell’eterna vocazione italiana al compromesso, all’inciucio dove tutto finisce a tarallucci e vino. Ma la legalità (the rule of law, se per esser presi sul serio dobbiamo dirlo in inglese) non è fatta di compromessi e di astuzie. È fatta di rispetto delle norme.
Questo articolo è stato pubblicato dal FattoQuotidiano.it il 10 dicembre 2017

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