di Angela Barbanente
La centralità assunta dalla rigenerazione urbana nel discorso politico e nell’opinione pubblica, negli scenari programmatici e negli strumenti operativi promossi da regioni ed enti locali, non può che essere valutata positivamente quando posta in opposizione alle pratiche tradizionali di trasformazione del territorio fondate sull’espansione urbana e il dissennato spreco di suolo. Tuttavia, essa comporta dei rischi dei quali bisogna essere consapevoli.
Si tratta di rischi che si corrono quando, occupandosi di sistemi complessi, i concetti perdono la capacità di cogliere le relazioni con i processi in atto e i contesti d’azione concreti, e diventano parole d’ordine utili ad acquisire facile consenso, di volta in volta intorno a una politica, a una norma, a un programma prospettati come risolutivi di un ‘problema chiave’. A me pare che questi rischi siano oggi legati ad alcune modalità di interpretazioni della “rigenerazione urbana” in rapporto all’obiettivo del contenimento del consumo del suolo.
Un esempio particolarmente efficace di tali rischi è proprio nel progetto di legge della giunta dell’Emilia Romagna recante “Disciplina regionale sulla tutela e l’uso del territorio”. La rigenerazione urbana, com’è noto, è diventata da qualche tempo anche in Italia una nozione ombrello sotto la quale trovano copertura interventi e pratiche molto diversi. Da demolizione e ricostruzione di singoli edifici a programmi messi a punto per interi quartieri, da interventi che riguardano aree dismesse e abbandonate a iniziative che investono parti di città dove si concentrano degrado fisico e disagio sociale, dai centri storici alle periferie recenti, e non manca l’atteggiamento fideistico di chi ritiene la rigenerazione urbana capace di «rimettere in moto l’edilizia», e persino di «far ripartire il Paese».
Ugualmente diverse possono essere le finalità che si intende perseguire mediante la rigenerazione urbana. Nel progetto di legge in questione la rigenerazione delle aree edificate è finalizzata ad aumentarne l’attrattività attraverso la riqualificazione dell’ambiente costruito secondo criteri di sostenibilità, e ad accrescerne la vivibilità con la qualificazione e l’ampliamento dei servizi e delle funzioni strategiche ivi insediati” [1].
Di fronte a tali esplicite finalità della norma, sembra importante chiedersi: rigenerazione urbana per chi? Non è scontato, infatti, che interventi di riqualificazione orientati ad attirare investimenti, consumatori, nuovi city users o visitatori, possano migliorare la qualità della vita di chi abita nei quartieri interessati da tali interventi. Peraltro, fra le finalità della rigenerazione urbana individuate dal progetto di legge, non vi è alcun accenno alle condizioni abitative delle popolazioni urbane svantaggiate, emarginate o a rischio di esclusione sociale. E questo accade in una fase nella quale vi è crescente consapevolezza dell’aggravarsi delle disuguaglianze sociali nelle città e del contributo che il progetto urbanistico, spesso proprio in nome dell’innalzamento dell’attrattività e competitività territoriale, ha fornito alle dinamiche di esclusione sociale nello spazio urbano.
La rigenerazione urbana, inoltre, nella prospettiva assunta dal progetto di legge comprende unicamente interventi fisici, e prevalentemente interventi pesanti. Gli “interventi di riuso e rigenerazione urbana” includono “le seguenti tipologie di trasformazioni edilizie e urbanistiche dei tessuti urbani esistenti” [2]:
- gli interventi di “qualificazione edilizia”, diretti a realizzare la demolizione e ricostruzione di uno o più fabbricati che presentino una scarsa qualità edilizia, non soddisfacendo i requisiti minimi di efficienza energetica, sicurezza sismica, abbattimento delle barriere architettoniche, igienico-sanitari e di sicurezza degli impianti, previsti dalla normativa vigente (…);
- gli interventi di “Ristrutturazione urbanistica”, comprensivi degli interventi di costruzione e successiva demolizione (…);
- gli interventi di “Addensamento e sostituzione urbana”, consistenti nei processi di riqualificazione anche incrementali, che, con particolare riferimento ad aree strategiche della città ovvero ad aree degradate, marginali, dismesse o di scarsa utilizzazione edificatoria, prevedono una loro significativa trasformazione che può comportare, in via esemplificativa: la modificazione del disegno dei lotti, degli isolati, degli spazi aperti e della rete stradale, la delocalizzazione degli immobili collocati in aree soggette a rischio ambientale e industriale, l’inserimento di nuove funzioni e la realizzazione o adeguamento delle dotazioni territoriali, delle infrastrutture e dei servizi pubblici nonché l’attuazione di interventi di edilizia residenziale sociale [2].
Il progetto di legge agevola la realizzazione degli interventi sopra elencati prevedendone l’attuazione, rispettivamente, attraverso l’intervento diretto (fatti salvi gli eventuali limiti e condizioni stabiliti dal PUG e ferma restando l’osservanza della disciplina di tutela del centro storico e degli edifici di valore storico, artistico e testimoniale), il permesso di costruire convenzionato, gli accordi operativi o i piani attuativi di iniziativa pubblica.
Tale approccio alla rigenerazione urbana pone diversi problemi. Innanzi tutto, è un approccio tutt’altro che innovativo. Per alcuni versi esso si colloca sulla scia della tradizione italiana dei cosiddetti programmi complessi, per altri versi ricalca la stagione dell’urban renewal anglo-americano. Un approccio incrementale e frammentato, nel quale le diverse iniziative, prive di qualsivoglia inquadramento strategico, sono state spesso considerate quali occasioni per forzare le rigidità degli strumenti urbanistici comunali; un approccio incentrato sulla dimensione fisica della riqualificazione urbana, che ha trasformato radicalmente parti di città affidando un ruolo centrale al settore privato e mancando di governarne gli impatti sociali e sul più vasto sistema urbano.
Proprio alla luce degli effetti perversi prodotti dagli approcci in ultimo citati, dovrebbe essere d’obbligo porsi alcune domande: gli interventi di rigenerazione incentivati dalla legge sono in favore dell’area o degli abitanti? quali conseguenze sociali può comportare il miglioramento delle condizioni fisiche delle parti di città interessate dagli interventi di riuso e riqualificazione urbana? la rigenerazione urbana, nella forma prevista dalla legge, è probabile che riduca o che aggravi le disuguaglianze sociali nelle città?
Alcune norme contenute nel progetto di legge fanno ritenere che non ci si sia posti queste domande. Su un dispositivo merita soffermarsi in particolare. L’articolo 5, comma 3, prevede che “il consumo di suolo non è comunque consentito per nuove edificazioni residenziali, ad eccezione di quelle necessarie: a) per attivare interventi di rigenerazione di parti del territorio urbanizzato a prevalente destinazione residenziale; b) per realizzare interventi di edilizia residenziale sociale, comprensivi unicamente della quota di edilizia libera indispensabile per assicurare la fattibilità economico-finanziaria dell’intervento.”
Se è probabile che l’interesse degli operatori immobiliari si concentri nelle aree centrali più profondamente degradate, ove è possibile ottenere incrementi dei valori immobiliari più cospicui, queste norme comportano il rischio di espellere la popolazione più disagiata attraverso gli incentivi previsti per la rigenerazione e di spingerla nelle parti più periferiche della città mediante le deroghe disposte per l’edilizia residenziale sociale. Con l’evidente conseguenza non solo di provocare il consumo suolo inedificato, ma anche di aggravare le diseguaglianze spaziali.
In Europa e in Italia da tempo il termine rigenerazione urbana è associato ad azioni finalizzate ad affrontare in maniera integrata il circolo vizioso fra degrado fisico ed esclusione sociale che è alla base dell’aggravarsi delle disuguaglianze nella città contemporanea. L’accezione di rigenerazione urbana fatta propria dal progetto di legge sembra ignorarle.
In tali azioni, le dimensioni sociale ed economica della rigenerazione assumono una valenza essenziale, in una duplice prospettiva. Quella che induce a prevedere misure specificamente orientate a tutelare gli abitanti che vivono nelle aree interessate da programmi di riqualificazione per evitarne l’allontanamento, a contrastarne i processi di esclusione ed emarginazione mediante misure a sostegno della formazione e dell’occupazione, a migliorarne le condizioni abitative mediante interventi di riqualificazione del patrimonio a destinazione residenziale e la realizzazione di servizi e infrastrutture. Quella che induce ad attribuire agli abitanti un ruolo cruciale nella messa a punto e attuazione degli interventi di rigenerazione.
In quest’ultima prospettiva, la partecipazione non è solo esercizio di democrazia ma fattore essenziale per garantire l’efficacia dei programmi di rigenerazione. Il progetto di legge ignora anche questo aspetto. La partecipazione è prevista solo come possibilità per i Comuni. Una previsione, questa, che sembra avere valore puramente simbolico, giacché è difficile immaginare un provvedimento che possa negare a un ente locale la possibilità di promuovere la partecipazione civica. Le norme indicano specificamente i concorsi di architettura e la progettazione partecipata, rimarcando, ancora una volta, l’enfasi posta sulla dimensione fisica della rigenerazione [4].
Riconoscere il legame fra condizioni di degrado fisico e disagio sociale è essenziale perché la rigenerazione urbana non si risolva nel migliorare lo stato di parti di città peggiorando nel contempo le condizioni di vita degli abitanti più svantaggiati e generando altre aree di degrado e disagio. Intendere la rigenerazione urbana come processo mirato non solo alla riqualificazione fisica (urbanistica ed edilizia), ma anche alla rinascita culturale e alla inclusione sociale implica la mobilitazione di risorse umane e finanziarie diverse rispetto a quelle utilizzate per attuare la gran parte degli interventi di riqualificazione urbana promossi nell’ormai numerosa serie di politiche per progetti e programmi complessi. E, soprattutto, la rigenerazione urbana richiede che gli abitanti si riapproprino della città come bene pubblico e se ne prendano cura. Di tutto questo non c’è traccia nell’articolato del progetto di legge.
Note
- [1] Articolo 7, comma 1, del progetto di legge, intitolato “Disciplina favorevole al riuso e alla rigenerazione urbana”. Si noti che nel testo licenziato dalla Commissione consiliare competente la parola vivibilità ha sostituito la parola competitività senza che però siano stati modificati altri contenuti della norma.
- [2] Si veda l’articolo 7, comma 3, del progetto di legge.
- [3] Il testo licenziato dalla commissione ha aggiunto fra gli interventi di “Addensamento e sostituzione urbana” la demolizione senza ricostruzione di edifici collocati in areali caratterizzati da un’eccessiva concentrazione insediativa, con l’eventuale trasferimento delle quantità edificatorie secondo le indicazioni del Piano urbanistico generale (PUG).
- [4] Si veda l’articolo 17 del progetto di legge, intitolato “Concorsi di architettura e progettazione partecipata”, che prevede che per elevare la qualità dei progetti urbani i Comuni possano promuovere il ricorso al concorso di progettazione e al concorso di idee nonché ai processi di progettazione partecipata per la definizione dei processi di rigenerazione urbana, nonché in sede di elaborazione degli indirizzi strategici e degli obiettivi del PUG e dei contenuti degli accordi operativi e dei permessi di costruire convenzionati.
Relazione al convegno Privatizzare l’urbanistica?, Bologna, 15 novembre 2017
Questo articolo è stato pubblicato da Eddyburg il 3 dicembre 2017