Educazione, teoria e maestri: una mappa di resistenza pratica

24 Novembre 2016 /

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di Luca Mozzachiodi
Come si fa quando l’evoluzione materiale della società, nel suo complesso, pare sopravanzare le nostre capacità di previsione? Abbiamo in fondo degli strumenti aggiornati per proporre pratiche politiche e sociali attente alla totalità e efficaci? Queste domande si impongono, o più realisticamente e tristemente, si dovrebbero imporre alla mente di chiunque tenti di svolgere la sua azione politica in quel campo variegato di posizioni che impropriamente diciamo sinistra, ma massimamente a chi, giovane, è cresciuto e si è formato in un tempo in cui i processi di acculturazione, anche quelli che ci riguardano personalmente, sono saldamente nelle mani degli avversari.
Da qui il problema fondamentale dell’educazione che per quel che ci riguarda non può che essere una, magari inconsapevole, battaglia contro l’attuale assetto di forze ideologiche e politiche. Come si formano politici di classe anziché una classe di politici? Ammesso e tutt’altro che concesso che tale classe esista, ma qui parliamo di categorie dell’immaginario culturale. Compiere una simile operazione significa rimettere la politica con i piedi per terra e la testa in alto.
Certo si dirà che abbiamo le nostre analisi, che la ragione è dalla nostra parte e che le elaborazioni non mancano ed è così, tuttavia troppo spesso ci dimentichiamo che dovremmo essere noi dalla parte della ragione perché sia un reale motivo di forza, dato che le possibilità sono nelle situazioni e non negli individui.

Molta parte del pensiero di autori che tentano una conciliazione di teoria e pratica in senso progressista non è altro ormai che una scolastica, una tradizione di accademismo fondata su premesse marxiane e su una serie di elaborazioni novecentesche, una filosofia da montare a casa come i mobili dell’Ikea, secondo l’azzeccata immagine di un bel saggio di Barbara Carnevali sull’Italian Theory, magari con la segreta ambizione di distinguersi dal volgo. “Oh almeno io ho capito”. Adesso ne parliamo tra quelli che capiscono, poi ve lo spiego, intanto per favore, non votate Tizio, state attenti a Caio e sulla scheda poi scrivete questo e quello”.
Che ci piaccia o no non c’è più nessun partito di cui valga la pena, in senso letterale, essere dirigenti o consiglieri e darsi il tormento di costituirlo senza aver capito che il livello della lotta non è mai quello dell’individuo cosciente ma quello del livello di coscienza complessiva è solo dimostrare quanto, nei fatti, il proprio livello di coscienza sia assai basso.
Avere alle spalle molte esperienze ha però i suoi lati positivi e lo dico soprattutto pensando alla mia generazione che deve di necessità sperimentare molto in politica e dare poco per acquisito dalla scuola degli avversari. Ci si trova di fronte alla scelta di strumenti e tradizioni, strumenti che in massima parte devono essere forgiati di nuovo, tradizioni che devono essere pazientemente ricostruite anche con il rischio dell’errore.
L’esperienza della gigantesca rimozione culturale compiuta nell’ultimo quarto di secolo rispetto alle pratiche politiche e al pensiero di molti militanti delle generazioni passate ci dovrebbe dare qualche indicazione: molti più che in soffitta sono stati messi a tacere in qualche università, dove notoriamente si chiacchiera molto purché non si lavori mai a ridiscutere i processi di organizzazione della cultura, o sono stati completamente fagocitati dall’industria e ridotti a pochi schematici tratti di un volto stravolto e comunque inoffensivo, per la nostra Bologna Pasolini è un esempio emblematico.
Altre, più rare, volte capita di vedere giovani scoprire un nome, un fatto, un’esperienza sconosciuta e allora più abbondano le espressioni di stupore, più qualcuno si meraviglia che non gliene abbiano mai parlato, più si può star certi che il capitale ha molti scheletri nell’armadio della storia e che probabilmente qualche vecchia spada taglia ancora.
Non si tratta qui di fare un elenco di maestri e di pensatori dannati, ognuno deve farlo insieme ai propri compagni e non c’è altra strada, quanto di rilevare come spesso è ciò che non ci viene detto ad essere rilevante e quando ci fanno giocare con la teoria nel salone riscaldato di qualche biblioteca deve venirci il sospetto di star maneggiando armi spuntate.
Solo accumulando una cultura collettiva che si traduca in prassi e riscoprendo il potenziale politico proprio là dove più si conclama l’inattualità possiamo tentare quella pratica di cospirazione in pieno giorno fatta di confronto e collaborazione, sapendo che le periferie, interiori ed esteriori, restano, per definizione, più rivoluzionarie dei grandi centri di cultura e di potere, che sono sempre l’una conseguenza dell’altro.

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