di Giuseppe Scandurra
In “A chi esita” Bertolt Brecht scrive:
Dici: per noi va male. Il buio cresce. Le forze scemano.
Dopo che si è lavorato tanti anni noi siamo ora in una condizione più difficile di quando si era cominciato.
E il nemico ci sta innanzi più potente che mai.
Sembra gli siano cresciute le forze. Ha preso un’apparenza invincibile.
E noi abbiamo commesso degli errori, non si può negarlo.
Siamo sempre di meno. Le nostre parole d’ordine sono confuse. Una parte delle nostre parole le ha stravolte il nemico fino a renderle irriconoscibili.
Lo confesso. Sono ancora in piena elaborazione del lutto post-elettorale. Non si tratta certo di una cosa nuova per me, ma questa volta mi riesce più difficile elaborare. La differenza con le altre volte è che mi sento più solo nella sconfitta (eppure di esperienza credevo di averne, visto che, fino ad ora, ho perso ogni singola competizione elettorale).
Conoscevo tante persone come me prima del lutto. Andando a votare le ho immaginate fare tutte la stessa strada, assieme. A testa bassa si rifletteva tutti sull’impossibilità di votare Ingroia (“Che schifo!”). Si borbottava dell’assoluta lontananza da quella “cosa” che ora si chiama Pd e prima assumeva nomi altrettanto esotici e defamiliarizzanti (“Quando direte delle cose di sinistra?”). Prima di prendere la scheda li ho visti imbarazzati, poiché era evidente a tutti noi come non ci sentissimo a casa nel partito leggero e postmoderno di Sel, convinti da comunisti che mai avremmo votato un partito personale, carismatico, evocativo, desideroso del solo dissolversi.
“Ma che votiamo allora?”, ci siamo detti dentro la cabina elettorale. Ecco, là dentro li ho persi di vista. Poi mi sono svegliato. Non ero stato solo sconfitto (c’ero abituato, come detto), mi sentivo più solo che mai.
Dopo lo spoglio elettorale tante tra quelle persone, tanti ex “noi”, (ah quanto li capisco!) nonostante la sconfitta hanno provato a vedere il bicchiere mezzo pieno proiettando la loro necessità di sopravvivere in un’analisi politica a dir poco naif. Se “noi” comprende anche il quotidiano nazionale “Il Manifesto” (ho sempre più dubbi visto l’attuale redazione), proprio sul sito del giornale ho letto un articolo dal titolo “Grillo uno di noi”.
Alcuni, tra loro, hanno cominciato a sparare sulla croce rossa per impedire a loro stessi di fare la cosa che più sarebbe stata naturale, ovvero suicidarsi. Tutt’ora li sento nella strada (io sono barricato in casa dal 25 febbraio e non sono più uscito da allora) dire che non poteva essere altro visto Prodi, Vetroni, Bersani etc. Li vedo con invidia là fuori, che si felicitano della morte di quello che adesso sembra essere stato da sempre il loro principale nemico (buffo come non riflettano sul 30% di consensi a Berlusconi… ma anche di quello sarà responsabile la classe dirigente del PD?).
Ma dov’è questo bicchiere mezzo pieno? Non voglio entrare nello specifico del non-programma del Movimento Cinque Stelle (o devo dire dei grillini?, non si capisce ancora). Altri, tra queste persone che vorrebbero aiutarmi a uscire da casa (che carini!), mi rispondono “Non preoccuparti. Una cosa è la base, una cosa è il leader. Appena entrano dentro si sganceranno e non avranno più bisogno della maschera del comico”. Mi rassicurano dicendo “Ma dai, impareranno anche loro, avranno bisogno di un po’ di tempo, almeno adesso non sappiamo come andrà, mentre se avessero vinto i nemici – ovvero il Pd – sapevamo già come sarebbe andata a finire”). Ma davanti allo specchio non posso non vedere come le loro parole non mi rassicurino.
Faccio il professore da tanti anni (ne ho 37, ma, come detto, mi sento molto più vecchio). La prima volta che ho lottato per avere un dottorando nella mia disciplina, l’Antropologia, ricordo ancora l’emozione per la vittoria. Fare un dottorato significa avere tre anni per fare ricerca, libera, rigorosa, autonoma (forse per questo ora vogliono chiuderli tutti). Ricordo ancora come scelsi il candidato.
Non volevo certo che fosse uno sconosciuto, volevo il migliore. Altro che meritocrazia, l’opposto. Pensai a tutte le persone con cui dialogavo bene, a quella che più di altre sarebbe stata capace di fare una ricerca che avrebbe migliorato le conoscenze scientifiche su quel determinato oggetto di ricerca, poi la chiamai. Le chiesi di partecipare, la obbligai quasi e lottai dentro il mio dipartimento per lei. Se non avesse sbagliato esame ce l’avrebbe fatta. E così fu.
Non fraintendetemi. Non ho mai sopportato i colleghi che hanno lottato per far vincere il dottorato a un parente, oppure a una persona usata come soldo per saldare vecchi debiti baronali. Anche l’Università, come il Transatlantico, assume le sembianze di un Palazzo, spesso. Questi colleghi, chiusi in una realtà così autoreferenziale, sono capaci anche di giustificare tali scelte (vedi D’Alema che vorrebbe Berlusconi e Grillo come seconda e terza carica dello Stato). Ecco, non fraintendetemi, io non giustifico ciò.
La seconda volta che lottai per un posto di dottorato non riuscii a cooptare nessuno. Così si presentarono diversi candidati nella mia disciplina. Ricordo ancora l’imbarazzo di dover scegliere, la confusione, la mia incapacità. Un esame di quindici minuti non mi bastava per decidere a chi affidare un ruolo così importante. Avrei voluto parlare con ognuno di loro, chiedergli della loro storia, del loro passato, cosa pensassero di quell’autore, di quel paradigma, anche che partito votassero, perché no?
“La politica è una cosa semplice”. “Anche Qui, Quo, Qua saprebbero fare meglio”. Dalla fine dell’anno scorso ne ho sentite tante di frasi come queste da parte dell’elettorato del Movimento Cinque Stelle. Non si tratta della tanto evocata fine della democrazia rappresentativa. Queste frasi mi fanno male più di quanto tutti i miei vecchi compagni immaginano. Faccio il professore e sono comunista perché sono rigoroso, competente, perché credo in un senso di giustizia (altro che merito) basato sulla professionalità. Ecco, provate a immaginare uno come me e provate a pensarlo dentro il Nuovo Mondo che è sorto.
Questa mattina mi sono fatto portare i giornali a casa. Non amo certo gli editorialisti dei più venduti quotidiani nazionali (“Ma dove sono le loro capacità analitiche?”). Era evidente che se avessi voluto capire di più ciò che stava succedendo questi giornali non servivano. Avrei dovuto visitare Facebook, navigare sui social network, vedere in streaming la riunione del Movimento Cinque Stelle (“Mi chiamo Francesca, ho tre figli, mi occupo della loro salute e dell’economia domestica e per questo mi propongo per lavorare al nuovo Ministero della Famiglia”) Ma come si fa? Come faccio a pensare a un mondo senza editoriali contro cui abbattersi? Come non fermarmi sugli errori grammaticali nelle pagine web dei loro siti? Come è possibile che in tutto queste tempo non mi sia accorto come “per” si possa scrivere “x” anche in un documento politico?
“Voteremo questo e quello in base a ciò che evince da quella proposta”, dicono. Ma come si fa a votare “questo e quello” al di là di un pensiero ideologico. Che cosa è la “cittadinanza” per questo Movimento? Un reddito o un diritto che si ha solo in quanto nati in un paese? Che cosa è lo “Stato” nel momento in cui per Francesca e i suoi colleghi vanno aboliti i finanziamenti pubblici all’editoria e ai partiti (Non è un caso che ora il quotidiano “Il Manifesto” cerchi un padrone-imprenditore) e allo stesso tempo invocano la necessità di avere un sistema pubblico di welfare più “pubblico”? Io ho lottato un’intera vita per costruirmi un’ideologia per arrivare a una definizione politica di “cittadinanza”, di Stato” e dopo tanti anni ho costruito in questo modo un intero vocabolario. Sceglierei mai un dottorando al di là del mio e del suo pensiero ideologico circa la disciplina che da anni insegno?
Non è il loro “cosa” (“Quanti punti condivisibili nel loro programma, riconoscilo!”, mi dicono) che mi sta uccidendo. Ma non è una cosa anche il “come”, ciò che nella mia disciplina chiamo “metodologia di ricerca”? Posso affidarmi a una moltitudine (che brutta parola) di persone tra le quali non c’è nemmeno uno o una che sberleffa il proprio leader?
Non auguro, come ho visto fare ad alcuni compagni morenti come me, la disgregazione di questo Movimento (anche questa parola mi hanno sottratto). Non posso negarlo, il futuro appartiene a loro, il loro è il Nuovo Mondo che verrà e dove cresceranno i miei figli. Un mondo nuovo senza giornali (con altri mezzi di informazione), senza ideologia (“pragmatismo” urlano), senza conflitto gerarchico (così declinano la parola Movimento).
Io sono morto. Non ho nemmeno più uno a cui dire “Di’ qualcosa di sinistra!”, anche se (lo ammetto) ero sempre più consapevole che non l’avrebbe più detta. Non posso far più male, non ho nemmeno più il piacere di insegnare la mia disciplina a un movimento (rieccolo) di studenti che vogliono sempre più lezioni a distanza e registrate via web (la nuova università). Guardo i miei due figli a casa e non posso non augurargli di trovarcisi bene in questo Nuovo Mondo. Ma non è più il mio. Lasciatemi resistere, barricato.
Che cosa è errato ora, falso, di quel che abbiamo detto?
Qualcosa o tutto?
Su chi contiamo ancora?
Siamo dei sopravvissuti, respinti
via dalla corrente? Resteremo indietro, senza
comprendere più nessuno e da nessuno compresi.
O contare sulla buona sorte?
Questo tu chiedi. Non aspettarti
nessuna risposta oltre la tua. (Bertolt Brecht)