Quando nulla è facile, ma niente è impossibile. La “normalità “degli scatti di cura

di Silvia Napoli /
22 Novembre 2025 /

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Quanto è difficile, infatti, ma al tempo stesso quanto necessario, prendersi un tempo, una pausa per guardare e ragionare su e di questo volume, titolato in cover Storie di quotidiana cura: un book fotografico agile e ricchissimo che alterna sapientemente bianco e nero, foto a colori, parti scritte ben argomentate e distribuite nelle quattro sezioni di cui si compone, in maniera del tutto naturale. Cosa non scontata dal momento che ci sono argomenti di cui un po’ si blatera, più che averne nozione, oppure che ci attraversano troppo pesantemente per poterne parlare e specialmente in pubblico, con agio e spontaneità. 

Sono tantissime le cose che colpiscono e meritano un affondo a partire dalla genesi del volume, cominciando dunque dal chi, tra istituzioni e associazionismo lo ha voluto e promosso, lo ha fatto crescere e infine presentare in una sede pubblica prestigiosa quale la biblioteca Gentili di istituzione Minguzzi nel pomeriggio del 21 ottobre scorso. Ma già solo voltando un poco le pagine e rendendosi conto del fatto che la titolazione vera dell’intero concept sarebbe Scatti di cura, si ha la percezione di trovarsi davanti un oggetto appunto del quotidiano, che non tratta oggettivazioni ma ricerca soggettività là dove la patologia, lo stigma, la routine snervante delle pratiche terapeutiche, la stanchezza, la demotivazione indotta dalla disperazione per il cambiamento, il senso di impotenza e ingiustizia, la frustrazione sembrerebbero far di tutto per annichilirle, sia nei pazienti che nei portatori di cura.  

Questo è un libro che ritrae persone che sono speciali nel riaffermare la loro voglia di vita buona, degna a dispetto delle condizioni, anzi, la rappresentano questa determinazione delicata, senza mostrarsi in quanto eroine o supereroi da ambo le part i della situazione di curati e curanti. Significativo il fatto che il nostro vocabolario sia così limitato per indicare chi presta cura oltre l’ambito clinico e specialistico. Si usa il termine anglofono caregiver se si intende comunemente una figura familiare o al massimo amicale e il riduttivo e umiliante badante se intendiamo persone salariate per svolgere determinati compiti che coprono una gamma vasta e indefinita di bisogni.  

Ed è ancor più curioso, per non dire inquietante che questo paradigma della cura costante, assidua che si deve spesso ad anziani, pazienti cronici di varia gravità, persone disabilitate, sia pensato per lo più alle due estremità della istituzionalizzazione oppure come affare privato, di famiglia, tanto intimo da non dover disturbare nessun altro e da provocare quasi vergogna per chi c’è dentro in qualunque dei due ruoli. Ruoli che va detto, spesso in situazioni di estrema solitudine e povertà culturale relazionale o anche economica, sia dell’istituzione sanitaria, che della famiglia finiscono per sfumare, quasi sovrapporsi, elidersi in un indistinto di sofferenza ineluttabile.  

I dati statistici parlano chiaro infatti sulle condizioni di esposizione e vulnerabilità cui è soggetto chi presta in maniera continuativa e semiesclusiva assistenza e supporto ad un congiunto stretto: quanto esponenzialmente aumenti il rischio di vedere indebolito complessivamente il proprio sistema immunitario, quanto sia facile cadere preda di tipologie plurime di patologia, quanto diventi altra la probabilità di sviluppare insonnia e sintomatologie depressive. 

I dati demografici sono inoltre chiari nell’indicare come a medio e lungo termine, data l’attuale disinvestimento nelle politiche e misure di welfare l’intero nostro sistema sociale a fronte di denatalità, migrazione dei nostri giovani, invecchiamento e impoverimento progressivo della popolazione ai trends attuali, severo aumento dei disturbi mentali e cognitivi e di malattie invalidanti, rischi un collasso, stante gli imperanti standards performativi e produttivistico-sviluppisti che ci conformano. Occorre ripensare il nostro servizio sanitario sotto diversi aspetti organizzativi e di allogamento di risorse, ma soprattutto dal punto di vista della famosa integrazione sociosanitaria e del regionalismo che rischia come sappiamo di diventare una minaccia per la sostenibilità del servizio più che una opportunità di decentramento e prossimità.  

E se immaginassimo una società diversa da questa, in cui si ampli l’attenzione davvero alla prevenzione sempre invocata e alla promozione del bene comune Salute ? se uscissimo dalla individuazione esasperata che ci fa sentire soli e spaventati sia di fronte alla malattia che alla cura,, se provassimo a immaginarci come tante comunità porose le une alle altre, che prestano ascolto e attenzione ai bisogni e ai sogni dentro e fuori di loro, se immaginassimo che curare si fa da vicino ma anche condividendo perché entrano comunque in gioco tante attitudini e competenze trasversali e tante risorse umane e organizzative da comporre come una piccola opera d’arte, se provassimo a immaginarci tutti in spazi della vita pubblica safe, segnati dalla sicurezza e dall’agio per la nostra incolumità e da una grande facilità di accesso per ogni età, ogni corpo, ogni difficoltà, ogni alterità, che siano di lavoro, di svago, di commercio o aggregazione? Se principiassimo ad aprire oltre i sacrosanti gruppi di affini in relazione di mutuo auto aiuto anche spazi di dialogo vero tra mondo dei sani, mondo dei malati, mondo degli operatori, mondo dei familiari di?  

Tutto questo si può provare a fare con pazienza, passione, determinazione, ma alla condizione di non essere i soli, i pochi, gli isolati a farlo. 

Proprio per queste ragioni ed anche qualcuna in più, merita rendere conto di chi ha reso possibile la realizzazione di un photo book che cerca l’esplicitazione dell’immagine a fronte del racconto emotivo di parola: senza alzare i toni, senza strillare o rivendicare platealmente e al contempo senza studiati minimalismi o riduzionismi di convenienza. Affrontando di petto il tema appunto di una ordinarietà ormai molto, forse sin troppo diffusa di pratiche di cura probabilmente in un certo modo effettivamente affettivamente insostituibili rispetto all’operare medio di qualunque sistema o servizio anche efficiente. Quanto di realmente affrontabile con strumenti di management sociale e quanto viceversa di ineludibile per l’esperienza individuale, singolare, sta in questa storia complessa come un affresco, ma semplice nella destinazione emotiva di ciascuno?  

La necessità e la virtù, tutto sta indispensabilmente insieme, nella ispirazione di Rossana Di Renzo, anima di Cittadinanzattiva Emilia- Romagna, che poi ha curato il progetto insieme ad Anna Baldini e Marilena Vimercati. Progetto complessivo, di raccogliere per immagini e immaginari i tanti volti della cura, che appunto sono gli scatti effettivi e metaforici, che poi diventano un book fotografico, storie di ordinaria cura, che ha catalizzato diverse collaborazioni: Martina Belluto, di città metropolitana di Bologna, Giovanna Cosenza di Dipartimento delle Arti, Unibo, Rossana di Renzo, naturalmente, Fulvio Lonati di Aprire, Elisabetta Mandrioli di istituzione Minguzzi, Luca Negrogno, parimenti(e siamo sempre in territorio Città metropolitana, infine Vimercati di cui sopra si diceva. Il progetto grafico si deve a Belluto e Mandrioli. la copertina è costituita dalla riproduzione di una foto in bianco e nero di Alice, associazione Lotta all’Ictus Cerebrale, odv. Apre il volume una delicatissima poesia di Claudia Camedda, infermiera di famiglia e comunità, dedicata alla fragilità di chi cura.  

La campagna scatti di cura, che ha raccolto un numero enorme di fotografie e che appunto aveva per sotto titolo, la cura non è un affare di famiglia, ha chiaramente intersecato le dimensioni sia private che collettive di cui si diceva, e naturalmente si è venuta costituendo come un ventaglio di esperienze tenere, ludiche, drammatiche. Il team di progetto si è impegnato in una difficilissima selezione per individuare quattro macro-sezioni di interesse. la prima, scatti d’autore che ha raccolto le fotografie per così dire più pensate, dedicate alla memoria, all’atto del reciproco sostenersi e accompagnarsi, come funzione assoluta dell’umano. Atti di cura è la fedele testimonianza di quello che è nella prassi quotidiana la relazione affettiva del caregiving nei suoi aspetti anche intergenerazionali. Scatti vitali è una sezione dedicata all’attività e all’attivismo nelle molteplici accezioni di questi due termini, applicati ad un mondo difficile, fuori e oltre la comunemente intesa normalità. Autoscatti di cura sono i pur preziosi selfies e autoritratti con il loro fondante apporto auto rappresentativo.  

Prima di arrivare a dire anche dei contributi scritti e della straordinaria presentazione pubblica del volume, vorrei spendere due parole su questa evocativa espressione: Scatti di cura che, nella sua valenza dinamica, decisionista persino, così contigua del resto al kairos fotografico, si fa complemento di tanti fermo-immagine contenuti nel book. Come a dire che solerzia, prontezza, e dilatazione dei tempi e financo degli spazi sono parte di un unico processo nel quale tutti possiamo e forse dovremmo essere coinvolti a vario titolo. 

Ma non è solo questo, naturalmente. La prima cosa che è venuta in mente a me, in merito a questo è stato lo slancio, si qualcosa di simile all’elan vital, che comporta il prendersi cura di qualcosa o qualcuno e, d’altro canto, anche da parte di chi accetta di essere curato, perché, non dobbiamo nascondercelo, cura vuol dire anche dipendenza nei suoi molteplici aspetti e la terapeutica può essere sacrificio e sofferenza aggiuntivi che non tutti hanno voglia e tempra di infliggersi. Lo scatto, dunque, è un patto fiduciario, un guardarsi negli occhi che viene a stabilirsi come un sugello ed è naturalmente anche qualcosa di istintivo come un balzo e qualcosa di concentrato come quando si è ai blocchi di partenza. Essere presi in carico emotivo e assistenziale, portare cura materiale e morale, sono tutti aspetti anche di training, di duro lavoro di allenamento e adattamento che si condensa poi nei momenti sinergici della ripresa e della promessa rinnovata.  

Il pomeriggio altrettanto intenso che ha sancito la presentazione, ha visto in prima battuta snodarsi le testimonianze sobrie, commosse, di un percorso di lavoro da parte dei curatori  

Mandrioli e Belluto, appassionate fotografe per prime, estimatrici del mezzo espressivo in assoluto, con accenti diversi, hanno sottolineato il crinale difficile tra propensione estetica personale, valore tecnico espressivo tout court delle foto e grana emotiva, significanza sociale del materiale pervenuto da selezionare. È occorso un indubbio accordo sui valori, su come protocolli e paradigmi possano essere rappresentati, su quanta soggettività ci voglia per raggiungere un livello di oggettivazione accettabile per la realizzazione di un libro tanto prezioso. Ben più di una parola andrebbe poi spesa per il ruolo che Cittadinanza attiva svolge in seno alle nostre comunità, ma ci saranno altre sedi e momenti per questo, stante il notorio understatement di Di Renzo, orientata a valorizzare al massimo i protagonisti della situazione in generale e del libro in particolare piuttosto che le funzioni e prerogative di ruolo, A fronte di un attesissimo e cruciale collegamento con Chiara Saraceno da Torino, che ha lanciato considerazioni di allarme e vigilanza importanti sulle proiezioni demografiche e i conseguenti aspetti legislativo- burocratici, un momento assai alto del pomeriggio per verità e poesia, è stato quello costituito dall’intervento di Maria Cristina Dieci, presidente ASBI. Una narrazione in presa diretta della sua esperienza di madre di una bimba, ora giovane donna presente in sala, portatrice di spina bifida alla nascita. Niente fiere dei miracoli qui, se non il vissuto profondo di una esperienza che ha forzatamente segnato la vita di una intera famiglia in una direzione certo inaspettata, non scelta e tuttavia accolta e rivelatasi alla fine grande opportunità di dono e crescita reciproca. Perché non ci si può sottrarre a certe sfide, ma possono essere vissuta in modalità ben diverse, anche distruttive se non ci si dota di una cassetta degli attrezzi emotiva e consapevolmente orientata. Una cassetta di attrezzi e risorse necessariamente anche collettivamente condivisa e che può comportare una certa dimensione conflittuale, o quantomeno di richiesta, di esigibilità di diritti. La grande capacità resiliente, la dimensione di lotta esercitata su molti fronti, da quello per così dire interno, a quello sociale e istituzionale dalle persone che vivono condizioni oggettivamente diverse, in cui il finale della storia non è scritto allo stesso modo per tutti evidentemente, sono sottolineate senza alcuna enfasi sia dal racconto di esperienza dal vivo che dalle immagini del volume, in una circolarità di forza creativa e bellezza che invita ad una riflessione sottile e interstiziale riguardo il discorso del social prescribing, oggi così in voga. Un discorso molto evoluto in diversi paesi europei, che per essere applicato appieno necessità di una sua rete di sostenibilità e supporto nel nostro paese ad oggi latitante in gran parte del territorio nazionale e che comunque chiama in causa per questa categoria di cronicità e disabilitazione e i loro caregivers, se vogliamo andare oltre il sollievo, pur così necessario, un grande tema di accessibilità a tutti i livelli.  

Il tema dell’accessibilità dei luoghi pubblici, il tema che essi non si pongano come ghetti o anche gabbie dorate, il tema della rigenerazione e conquista fisica degli spazi, il tema del loro essere sicuri e accoglienti, il tema della gratuita dei servizi di accompagnamento ad essi, della disposizione di strumenti di fruibilità a bassa soglia, ci riguarda a ben vedere tutte e tutti e trova dei referenti e testimoni importanti in chi vive situazioni di patologie invalidanti in presa diretta da qualsivoglia prospettiva. E dunque oltre ad una prescrizione di bellezza, questo è il caso di una produzione di bellezza, accessibile per i diretti interessati, ma rivolta ad operatori, attivisti e cittadini, a tutti noi come comunità e società nel suo complesso. A me sembra uno spostamento in avanti del discorso molto molto significativo e che va nell’indirizzo di una capacitazione e valorizzazione di intelletto generale e capitale sociale fuori dalle logiche mercantili. Come sempre, come fu a suo tempo nella Salute mentale, dai bordi, da ciò che si vuole periferico, ma in realtà è così centrale o potrebbe facilmente diventarlo in un attimo nelle vite di ciascuno di noi, si attivano forme di resistenza creativa e di trasformazione impensata, ma tutte nell’alveo del possibile. Come abbiamo già detto, non si tratta affatto di esaltare la performatività onnipotente che vorrebbe conformarci: sono storie di ordinaria eccezione, “scritte”, vissute, rappresentate da dodici tra cittadini e cittadine e altrettante associazioni di riferimento. I commenti nella parte testuale oltre alla doverosa intro di cittadinanza attiva e alla contribuzione della già citata Saraceno, comprendono interventi di Vincenzo Manigrasso, dell’ordine dei fisioterapisti, di Maria Giulia Marini dell’Area Sanità e Salute Istud, di Massimiliano Marinelli di centro studi Società italiana di Medicina narrativa e infine del sociologo Luca Negrogno, per Istituzione Minguzzi- Città Metropolitana.  

Vorrei chiudere il cerchio di questo ragionamento sul tema delle possibilità di cambiamento, dello scatto che occorre e si prospetta da una postura differente proprio citando la sua contribuzione, particolarmente densa e significativa per la fitta rete di riferimenti storici e interdisciplinari messi in campo.  

Tutti gli ambiti di cura, in buona sostanza, non cessano di essere politici, ovvero assoggettati alle regole, ai dettami dei rapporti di potere e di forza e di essere dunque dispositivi a loro volta normativi se non divengono luoghi di ricognizione critica, anche oltre il paradigma istituzional reclusorio. Nell’articolo, a buon diritto, non si traccia soltanto una genealogia di saperi storicizzati che transita dai coniugi Basaglia, passando per Nancy Fraser e naturalmente l’imprescindibile Foucault, ma si fa riferimento ai disability studies e al pensiero queer. Perché è naturale che in una fase storica di declino dei servizi pubblici, peraltro mai integratesi tra loro, la casa, la famiglia, anche per chi li abbia, rischiano di diventare già indipendentemente da particolari condizioni di disagio o patologia luoghi dove si scarica in massimo grado la violenza disfunzionale e segregante. Insomma, vigiliamo sui nostri dispositivi di cura e prossimità, non sottraiamoli allo sguardo collettivo e soprattutto operiamo anche per una nuova riforma del diritto di famiglia. Citando direttamente l’autore: “Le case, i luoghi elettivi della domiciliarità, non sono contesti neutri ma dispositivi messi in forma della distribuzione ineguale dei costi della riproduzione sociale, dalle forze espulsive e concorrenziali del mercato dalle capacità programmatorie e dalle scelte relative ai settori del welfare, dell’urbanistica, delle politiche produttive e redistributive. Affrontare in modo radicale, con uno scatto questo nodo di contraddizioni richiede di assumere profondamente i posizionamenti critici sulla natura stessa della distinzione tra pubblico e privato e a partire da questa soglia ricostruire sguardi e pratiche collettive “. Insomma, oltre la retorica dei buoni sentimenti che potrebbe facilmente offuscare la responsabilità sociale e invisibilizzare aggiungo, l’enorme lavoro per lo più femminile, come sappiamo non retribuito o mal retribuito e i cui costi in termini di disagio mentale non sono mai abbastanza valutati, esiste la possibilità di un approccio neo-materialista al cambiamento che declini al meglio delle potenzialità i codici espressi dalle diversità e divergenze.  

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