Chi vi scrive ha ben presente tutta la difficolta, la fatica e insieme la pregnanza del raccontare il nostro passato prossimo storicizzandolo, ovvero mettendolo in una prospettiva ed anche di contestualizzarlo sotto diversi punti di vista, che potrebbero essere anche ampiamente geopoliticamente estesi pur muovendo da esperienze locali e circoscritte
I famosi anni 70, che in realtà muovono da cicli di pensiero, di costruzione istituzionale e di corpi intermedi piuttosto antecedenti sono un esempio perfetto di cul de sac narrativo ponendosi contemporaneamente come punto di fuga, di inizio e fine di tante esperienze fortemente connotate, non necessariamente allo stesso modo, un po’ per tanti.
In un periodo storico e di costume come questo, in cui lo stato di grazia di un’epoca suppostamente forever young, sembra sparito sotto i colpi di un conformismo dilagante e subdolo perché spesso non dichiarato, ma imposto secondo modalità di attraversamento che dovrebbero appartenere a tutt’altro storytelling, ecco che cominciano ad uscire lavori editoriali che parlano indubbiamente al cuore di una generazione di boomers di area bolognese ben connotata, ma probabilmente con una malcelata ambizione di costituire un” a futura memoria “utile in qualche modo per forme di attivismo a venire.
Prendiamo ad esempio due recenti uscite, che forse avremmo immaginato a parti editoriali invertite o giù di lì fino a poco tempo fa e invece suonano così: Lo sgherru dell’autunno caldo di Monteventi, per i tipi di Derive Approdi e lo sbarazzino Se vi va bene, bene, senno seghe, di Valerio Minnella per le edizioni Porto Alegre, collana Quinto tipo diretta da Roberto Bui di Collettivo Wu Ming.
Praticamente i nostri eroi sono coetanei, ma le loro fatiche sono interessanti da mettere l’una accanto all’altra, attenzione, non confrontare, beninteso, che sarebbe del tutto fuori luogo per molte intuibili ragioni, non soltanto perché in qualche modo ci offrono spaccati complementari di una certa porzione e temperie degli anni ’70, che ancora interroga gli storici e che non trova una sua propria conclusione, ma solo una certa epochè, per così dire.
Infatti, il profondo motivo di interesse di questi lavori, sta anche nelle complesse questioni attinenti un ambito liminare tra storia e letteratura che riguarda tutto un discorso di autorialità, autofiction, possibile passaggio auspicabile o implicito da un io narrante ad un noi che infine più che venir citato o raccontato riesca ad autorappresentarsi in modalità di linguaggio sia accessibili che appetibili. Ovvero fuori da un certo ermetismo volutamente depistante, ma dentro un progetto di efficacia sganciato da tutti i logotipi di sistema, sempre molto potenti tra noi come le vicende di femminicidio, per esempio, ci stanno ampiamente dimostrando, non da ultimo nei dibattiti di opinione a seguire. Una efficacia rispetto a sogni, bisogni e desideri che ci appaiono frammentati e dunque se l’io dei narranti in questione non è poi così diviso, ma anzi, estremamente compattato, non altrettanto si può dire delle molteplici soggettività che compongono un antagonismo se non una antitesi, una alterità, se non una alternativa, allo stato di cose presente.
Riguardo Valerio Monteventi, il compagno rugbista, metalmeccanico a disdoro paterno, laureato senza alcuna velleità meritocratica da ascensore sociale, degno erede di una schiatta di sovversivi anzolesi puntigliosamente schedata nel fondo del Gabinetto di Questura in quanto persone pericolose per la sicurezza dello Stato, avverso alle derive securitarie come tentazione di governance delle diversità che a volte seduce la Sinistra istituzionale ( vedi giunta Cofferati), nello stesso tempo egregio negoziatore a tutto campo, colonna portante in senso quasi letterale del Vag, ovvero Centro sociale Francesco Lorusso, centro di documentazione Carlo Giuliani, potremmo dire di sapere quasi tutto. La sua vita, financo nei risvolti carcerari è sempre stata spesa in pubblico e soprattutto, da qualche tempo il nostro Ciano, chiusa come impegno in prima persona la fase calda delle occupazioni in città che comunque continua a seguire con attenzione, lontano dalla competizione per le liste, ma tutt’altro che appartato dalle lotte che contano(leggi GKN), messa al momento in standby l’epopea storiografica della Cirenaica, ha scoperto sempre più dentro di sé due cose: l’amore per la narrativa e la vocazione pedagogica che del resto esplica sia nel lavoro molto particolare con i carcerati della Dozza, sia incontrando i ragazzi nelle Scuole e partecipando come nel caso Laura Bassi ad esperienze di video fiction a tema storico.
Ammontano ormai ad una decina le opere a firma Monteventi e non nutro dubbio alcuno sul fatto che tutta la dinastia di birocciai e muratori alle sue spalle applaudirebbe alla grandissima questa sua dedizione alla parola scritta. Definire appunto il genere letterario nella varietà dei toni, degli accenti e delle intenzioni di Valerio che anche quando parla di ieri e l’altro ieri, in realtà sta seguendo sempre impulsi e istanze ben correlati alla fase del momento, non è in realtà facilissimo. Certo è che le sue ibridazioni che dall’impostazioni pamphlettistico-didascalica iniziale slittano sempre più verso la fiction e forse una inconsapevole autofiction sembrano indicarci un sempre più intenzionale approdo a quella che viene definita letteratura working class e che ha avuto una straordinaria celebrazione di spessore nella cornice del festival tematico organizzato a Campi Bisenzio pochi mesi orsono da quei visionari del collettivo di fabbrica GKN.
Certo è che Monteventi cerca di scansare, specialmente in questo Lo sgherru dell’autunno caldo, le antipatiche derive autobiografiche intinte nel cinismo benaltrista così come quelle agiografiche celebranti tempi e talenti perduti, mettendo in scena un se stesso tra le righe e tra le quinte, osservatore e apprendista agitatore più che testimone diretto. Non è lui il protagonista, bensì lo è uno stolido e zelante poliziotto del Sud arruolato inconsapevolmente in una sorta di braccio clandestino della polizia politica, ma lo è anche una sorta di spirito dei tempi, se non neutrale, comunque obiettivo nel suo ironico orientarsi che si esprime nella terza persona che conduce i giochi e le trame del libro.
Libro debitore a molteplici suggestioni e passioni di Valerio, compresa quella filmica pensando in controluce alla Classe operaia va in Paradiso e soprattutto, senza troppo spoilerare anche A indagine sul cittadino al di sopra di ogni sospetto, suggestione che frutta un personaggio deuteragonista e presunto deus ex machina, detentore di tutte le forme possibili e immaginabili di mansplaining, quale quello del Commissario.
In realtà la prima vera passione di Valerio e la causa che più lo coinvolge è quella della custodia e valorizzazione della memoria storica: non per caso il Vag, con il suo centro di documentazione è baluardo di carte inerenti il caso 7 aprile e i fatti di Genova.
Come si può trasmettere in maniera equilibrata, ma nello stesso tempo appunto orientata, l’esperienza storica di anni tanto particolari e cruciali per la storia del nostro territorio, ma anche d’Italia certamente, quale quella degli anni 70?
E quale portato, delle tanto dense ricche e sfaccettate eredità di quegli anni, scegliere di valorizzare?
Il nostro autore non ha dubbi: appellandosi alle carte e che carte, non essendo affatto in questo caso quelle di movimento o di partitino, qui sta la grande sorpresa del romanzo, ma quelle, udite udite, di controparte, quelle ufficiali dei poteri inquisitori, riesce a ricostruire un clima decisamente frizzante e foriero di prospettive, non già pregno di senso di sconfitta ed esalta la cultura della classe operaia:, soprattutto oltre a quella dei saperi di mestiere che si vede benissimo per esempio nel documentario di Vendemmiati di qualche anno fa, quella inventiva inerente le forme di lotta. L’aspetto più originale del libro è la trasformazione in quasi vittime dei loro stessi poteri, persino blandite in qualche momento da una umana pietas per un destino tutto sommato da poveracci, degli inquisitori, utilizzando in pratica il loro armamentario investigativo e pregiudiziale come un boomerang. Questo fa si che dalle pagine del libro non sprizzino veleni, complottismi retrospettivi, anche se le citazioni dei grandi fatti tragici e stragistici che sconvolsero il nostro angolo di mondo ci sono tutti enunciati quasi a mo’ di manuale, ma emerga una rivalutazione di un mondo troppo presto dato per crepuscolare o residuale. Due sono gli elementi che aiutano Valerio in questa operazione : l’aver scelto un punto di vista interstiziale, quale quello dei primi anni 70, fuori forse da grandi anniversari, ma ben piantato nel crescendo rossiniano delle vertenze, l’inserire anche come elemento fondante il tema della partecipazione studentesca, necessaria come viene acutamente notato per svecchiare la stessa cultura operaia pur cosi blasonata, per inserire valenze antiautoritarie nelle rivendicazioni, per riverniciare di cosmopolitismo e giovanilismo le sobrie periferie rosse, per dare corpo a discorsi che possano allargarsi a macchia d’olio nella società e conquistare diritti. Insomma, l’unione pur così difficoltosa, non solo fa la forza, ma allarga lo spettro contenutistico, apre la strada ad una stagione di diritti, come sappiamo. Nel momento in cui il grande tema che abbiamo davanti è quello della coniugazione in modo universalistico ma nello stesso soggettivizzante, di diritti di cittadinanza e diritti di uguaglianza socioeconomica, in filigrana una risposta sembra arrivare da quello che noi oggi potremmo leggere come gli albori della prassi di convergenza. Il libro di Valerio meriterebbe di essere letto come un manuale, poiché le sue fonti inserite doviziosamente in ogni capitolo sono inoppugnabili in quanto c provenienti da fondi dell’Archivio di Stato di Bologna, dove compaiono tanti sovversivi tuttora in pista, ma apprezzato anche perché nonostante la seriosità e ampollosità delle fonti stesse, dribbla le tonalità troppo alte e ci consegna anche aspetti di una Italietta farsesca: persino le escursioni al sud in chiave tutt’altro che turistica fanno parte del vissuto dell’autore, che si ritrae da cucciolo come si diceva, ma, pur sempre sornione, sovrintende a tutti gli snodi del libro. Ora, dobbiamo dire che a questo punto ci si sarebbe aspettati forse un più deciso esito romanzesco, che un plot fosse fatto esplodere più nettamente, in un senso o nell’altro, certo azzardando e sbilanciando. Poiché questo è ciò che infine i romanzieri, gli artisti fanno, prendendosi moltissimi rischi, questo va detto. Ecco forse potremmo dire che il Valerio testa dura che fisicamente ha sempre saputo assumersi molti accolli, non si sia sentito di essere scorretto in nessuna direzione e ci lasci dunque con un senso di sospensione sugli anni seguenti a venire che va benissimo sotto un certo profilo di suspence didascalica, ma abbandona un po’ i personaggi al loro destino senza quasi farcene più partecipi.
Diverso è l’io collettivo, o intelletto generale messo in scena invece nel libro parimenti densissimo, una sorta di compendio di varie esistenze riassunta in una, dell’altro Valerio in questione: Minnella per ascendenza siciliana, ma bolognesissimo invece per componente matrilineare e attitudine militante e libertaria della stessa. Anche qui da un lato assume grande rilevanza quella che ormai si può tranquillamente definire subcultura giovanile insieme all’antimilitarismo che traduce verso l’esterno quella critica alla famiglia esemplificata dalla filmografia di Bellocchio, ma scarsamente curiosamente presente nel memoir conto terzi di Minnella.
Diciamolo, la famiglia Minnella pur tra distanze e differenze, rimane comunque allineata nel supporto all’irrequieto Valerio, che in una prima fase della sua vita si situa in un attivismo pacifista debitore di molte istanze rimescolate che appartengono sia alla cultura cattolica che a quella della tradizione libertaria. Si parla poi certo di compagni, ma come si ammetterà ad un certo punto del libro tirando le somme di un famoso convegno contro la repressione rappresentato, inscenato, è il caso di dirlo, a Bologna nel settembre 1977, noi si era già oltre, forse maodadaisti, ma non certo comunque continuatori ed interpreti di una stagione comunista, ormai post in tutti i sensi, peraltro.
Il libro della vera colonna portante, anche in questo caso parliamo dunque di ruoli fondativi, di quella straordinaria celeberrima emittente che fu Radio Alice, portabandiera di un certo modo di intendere la libertà nelle forme espressive e comunicative dei tardi anni 70,legata tragicamente per sempre alla morte di Francesco Lorusso, è peculiare sotto diversi aspetti nella sua costruzione. Non soltanto perché ci i restituisce una figura assolutamente protagonista avulsa tuttavia dal cliché del leader ideologo e istigatore, ma perché in qualche modo, una narrazione stratificata, spalmata su diversi decenni tutti diversamente connotati nelle caratteristiche storiche e biografiche, risulta a sua volta assolutamente polifonica nel suo dipanarsi.
La formula scelta per raccontare un’esistenza multipla e tutt’altro che esaurita è infatti quella di una intervista a quattro mani per così dire, condotta da quello che comunemente viene conosciuto come Wu Ming 1 che forse ormai non necessita né di definizioni né tantomeno di spiegazioni e da Filomena Sottile, bibliotecaria, cantastorie, custode di memorie dall’approccio punk, sbobinatrice seriale e compulsiva, addetta ai montaggi che non t’aspetti. Una intervista eccessiva, quantitativamente importante svolta nell’arco di tre lunghi anni attraversati dall’incubo pandemico e dalle macerie emotive ed esistenziali che ci ha lasciato, ma che fortunatamente non ha eroso la verve assertiva, tutto sommato ottimistica di Valerio Minnella tra le menti più tecnologicamente orientate di anni in cui ancora non si usava il cellulare. Un boomer, dunque anomalo per diversi aspetti, tuttavia pienamente inserito sempre e comunque nei suoi tempi, sia rispetto ad una certa spinta ideale ed etica evidentissima nella prima parte di una vita spesa sull’obiezione di coscienza e le pratiche non violente che in seguito nel pragmatismo inventivo autoimprenditoriale dei tempi recenti. Fino all’oltre rappresentato plasticamente da una sorta di riappropriazione marxiana del proprio tempo di vita e realizzazione tra campagna, dopo tanta vita urbana e barca a vela, alla conquista in questo caso, dopo tanta vita spesa collettivamente, di una intimità nel rapporto con l’elemento naturale che non fa sconti e non perdona errori, leggerezze, distrazioni.
Valerio Minnella, in fondo figura sociale e politicamente inclassificabile, difficile da incasellare nelle classi d’appartenenza allora conosciute o ammissibili per tornare all’altro Valerio ovvero, né operaio infatti, o con contatti in quel mondo di riferimento per sua stessa ammissione, né studente, non essendo mai stato universitario ha in fondo sempre costruito la propria personale visione di militanza su una sorta di esaltazione dello sbuzzo, come si dice a Bologna, di un do it yourself punk, connotato tuttavia in senso tutt’altro che distruttivo e autodistruttivo.
Un altro lato della verità dunque fondato sull’esaltazione dell’inventiva e dello spirito creativo
di un’epoca, di un individuo, ma anche di una di un popolo giovanile che per primo sperimento in forme inedite un attraversamento ed un uso anche urbanistico diverso della città
il cross over di sovrapposizioni di piani di lettura e interpretazione dato dalla strutturazione particolare dell’intervista a domande aperte, rende il libro per quanto fedele consegnatario di testimonianze e di un’epoca, per quanto ricco di dettagli tutti autentici e non almeno intenzionalmente inventati, tuttavia indefinibile o meglio, una sorta di enigma tutt’ora irrisolto a livello storiografico, in cui affermazione di diritti universalistici importanti si accompagna tuttavia a manifestazioni di decadimento e disperazione generazionale, spinte insomma al cupio dissolvi o alla coltivazione de l proprio orto : a livello soggettivo nulla di questo sembra intaccare lo sbuzzo proverbiale e l’attaccamento alla vita di Valerio Minnella, che dopo tante vicende carcerarie, narrate sempre con garbo e leggerezza o quantomeno, restituiteci cosi, dopo tante fasi esaltanti compresa quella delle televisioni di quartiere fuori dai monopoli, dopo tanto sperimentare, dopo aver conosciuto tante figure esemplari della politica e del pensiero dai tratti irripetibili, una su tutti il Presidente Sandro Pertini, ad oggi lancia una nuova utopica sfida riguardo una possibile gestione in favore di comunità dei big data e scopre di contro ai no future vecchi e nuovi, la voglia di trasmissione di esperienza che fu la cosa che forse più latito in una certa generazione : per eccesso di presunzione di vittoria e apparente fluidità e facilità dello stare insieme, che non rendeva necessaria la pianificazione di un poi, per riflusso e dispersione nel privato quando le cose cominciarono ad andare male
Una generazione di zingari felici dentro una città Bologna, che era stata ancora una volta reinventata ed assurgeva a mito quasi inossidabile contro ed oltre ogni volontà dichiarata e che dovette però scegliere in fretta e suo malgrado, una volta persa l’innocenza, se invecchiare o morire, come per esempio ci racconta l’esemplare parabola di Andrea Pazienza. In tutto questo, alla fine, anche il libro di Valerio Minnella costruito su memorie e ricordi personali, nato da una neghittosità del protagonista a raccontare e autorappresentarsi, tale da costringerlo dentro una costruzione come abbiamo visto, estremamente mediata, diviene una sorta di breviario di storia recente, un manuale ancora di controinformazione in questo caso, anche se Valerio nega di aver mai voluto farla. O propugnarla. Ma questo è il destino dei i libri che vanno molto oltre le loro stesse intenzioni, in quanto portatori sani di verità altrimenti inattingibili nel nostro vasto mondo di stigmi e pregiudizi e di realtà ormai parallele o ancor peggio di catene di comando algoritmiche. Libri peraltro godibili per la loro capacità irriverente e giocosa di farci tornare indietro ad un mondo in cui era ancora possibile sfidare il potere e giocare brutti scherzi ai potenti, a loro volta ancora passibili di una identità umana, di nome e cognome e relativa riconoscibilità.
Restano poi sul campo della ricerca storiografica tutti gli interrogativi sulle fonti, la loro raccolta, il loro ordinamento, la loro rielaborazione che un volume come questo suscita senza volerci dare risposte conclusive, nato com’è in fondo dalla necessità di assecondare le inclinazioni del protagonista che si definisce non un intellettuale, non un teorico, non un giornalista, ma un tecnico con diritto di parola.
Le presentazioni finora sono state numerose e partecipate e chissà che non si siano inaugurati nuovi metodi e filoni di divulgazione di storia del presente con questi due anomali elaborati, fuori dai cliché del memoir, di cui abbiamo voluto darvi conto.