Come è possibile oggi, prendere parola su quelli che vengono definiti comunemente servizi sociosanitari, o sulla dislocazione tutta ambientale delle tematiche di salute mentale senza essere addetti ai lavori di settore o, al più, caregivers associati o ingaggiati dalle istituzioni stesse nell’ottica partecipativa “governata” così in auge? In generale è possibile una presa di posizione pubblica non specialistica orientata che non venga sussunta nell’ambito definitorio economicista, funzionalista, altresì pervasivo dei cosiddetti stake holders? Se pensiamo per esempio, ai gruppi omogenei di fabbrica negli anni 70, possiamo considerarli alla stregua di portatori d’interesse? Dobbiamo assumere queste piccole entità collettive come parte di un afflato e di più, di un esito comunque universalista? Rovesciando il quesito, cosa potremmo noi dire di un universalismo costituito, a patto che questa condizione sia verificata, dalla comprensione di tutti i portatori di interesse?
Proprio per questo assume grande importanza, il dichiararsi rispetto alla propria posizione /postazione di osservatori e commentatori, reclamando contemporaneamente un diritto di cittadinanza all’ascolto, alla presa in carico di rilievi ed istanze anche e soprattutto laddove non provengano dalle corporazioni d’interessi e /o professionalità specifiche o ancora, dalle competenze d’accademia, ma da parte di quei saperi diffusi che si misurano con il duplice scacco di essere fuori formato rispetto al perimetro delle techne e fuori fuoco rispetto ad un classico impianto di classe. Da quando “fare esperienza” nella propria situazione di bios e contesto, è diventata una condizione quasi antitetica a quella dell’esperto?
Da quando siamo caduti in soggezione e dunque ci siamo di fatto assoggettati al potere di un discorso ordinativo e classificatorio che tutto, in questo senso universalmente comprende, senza attraversamenti e dunque accumula tutti i discorsi possibili sui corpi, sulle diversità e divergenze, lasciando alle soggettività un balbettio afasico, una profonda diffidenza verso le forme dell’universalismo esistente, un rifugiarsi verso narrazioni gentistico-complottiste, di fatto inerti rispetto ai poteri discriminatori e di controllo sociale soggiacenti alle pratiche sanitarie correnti?
Emanciparsi dalla nostra impotenza critica, sarà il primo passaggio verso una riappropriazione di strumenti costituenti, costituenti di un nuovo orizzonte in cui collocare un’idea altra di Salute perché nutrita di intelligenze collettive e non necessariamente specialistiche, una pratica di cura che esca da parametri vuoi standardizzati vuoi definiti in base a logiche individualistico- sacrificali, una medicina rispettosa delle differenze e dignità differenti, una Sanità pubblica perché comunitaria e tesa alla consapevolezza e ad una possibile gestione delle asimmetrie di potere che sottendono la pratica riparativa dei corpi e delle menti.
Dichiaro dunque anzitutto la mia idiosincrasia all’isolamento delle competenze, al verticismo e alla gerarchizzazione delle medesime, la mia attitudine operativa ed attivistica verso l’ibridazione, soprattutto rispetto alle metodologie e agli strumenti e un approccio culturale che mi deriva dalla familiarità con pratiche di espressione narrativa e performativa laboratoriale e dallo studio storico del welfare nella sua duplice natura sia di dispositivo di servizi che di elaborazione di bisogni collettivi di tutela e supporto provenienti dal corpo sociale, come significativamente infatti diciamo. Un approccio meglio definito dalla mia attenzione alle questioni inerenti i generi e dal mio dichiararmi femminista.
Tutto questo naturalmente non è bastante a intercettare nuovi bisogni e nuove criticità che si innestano, per il procedere particolare delle politiche di protezione sociale nel nostro paese, con annose questioni irrisolte, relative anche alla difficoltà dei processi sociali di farsi Storia e dunque conoscenza condivisa, dei costanti appetiti partitici e burocratici in grado subito dopo che si erano prodotti compromessi di alto livello e patti fiduciari con la cittadinanza, di erodere l’incisività di risorse e interventi che agissero in direzione di stabilire relazioni sedimentate e virtuose tra ambiti di salute e inclusività sociale A tutto questo, sopraggiunge la liberalizzazione mercantile che assottiglia ancora lo spessore pubblico degli interventi favorendo la proliferazione di settori sempre più consistenti di privato sociale, l’invadenza di interessi potenti da parte di centri di ricerca farmaceutica a valenza multinazionale, l’affacciarsi di tecnologie sempre più sofisticate nella gestione sanitaria, la separatezza tra modi e luoghi di cura, tutto sembra congiurare per allontanare l’idea di sanità pubblica come diritto inalienabile degli individui, terreno riconoscibile di confronto e scontro se non in termini legali personali (leggasi cause di malasanità), spazio di contrattualità per eccellenza tra ascolto e narrazione dei fruitori del servizio e prestazione erogata. Il tutto si avvita dunque in una sorta di stracciarsi le vesti invocando la fuoriuscita dall’universo prestazionale e una generica attenzione alla persona, contribuendo ad aggravare la confusione e il senso di deriva. Non si vuol comprendere infine, che si ha bisogno e diritto di richiedere prestazioni e che siano accurate e tempestive badando bene di creare tra operatori e utenti un patto per l’efficacia al posto dell’efficienza che è un parametro economico organizzativo aziendale, in quanto tale avulso dall’attenzione alle esigenze sia dei singoli che di determinate categorie. O quantomeno uno spazio di intermediazione e di propositività che si svolga biunivocamente. Dobbiamo chiederci di nuovo, come storicamente fecero i padri fondatori di Medicina democratica e Psichiatria democratica, quale fosse il terreno su cui più forte poteva incidere la capacità auto-formativa, organizzativa e conoscitiva popolare, la sola in grado di proporre attraversamenti e traiettorie intersezionali e financo convergenti ante litteram tra questioni di genere, ambiente e contesto: queste straordinarie figure anticipatrici, di concerto con i movimenti esistenti lo individuarono nella Prevenzione, non per caso oggi grande assente come assunto politico da qualsivoglia discorso razionalizzatore. Prevenzione significa lotta autentica alla dissipazione di risorse, agli abusi ambientali, al collasso del sistema dei servizi pubblici nonché redistribuzione vera di poteri. Prevenzione significa capacità di intervento dei movimenti, dei gruppi sociali, organizzati, mettendo di nuovo al centro le Persone in una logica di collettività, ridando senso all’universalismo non come conformazione ad uno standard di cittadinanza, ma come motore di uguaglianza tra umani. Ma tornando agli strumenti di ottica storica che possano aiutarci a mettere in fila, dopo averli disvelati, tutti i meccanismi che intrecciano indissolubilmente saperi e poteri, nella prospettiva di incunearci con i nostri vissuti, il nostro divergere, il nostro richiedere, tra gli ingranaggi, dobbiamo anche necessariamente chiederci da dove proveniva quella chiarezza nel cogliere la possibilità di intervento dal basso su epidemiologia e prevenzione, che oggi sembra così sfumata e sfuggente. Certo oggi noi utilizziamo molte competenze in più e possiamo anche essere bravi ad inventarci inediti coinvolgimenti, pratiche, strumenti e nuovi servizi, questo si vede in certi territori rispetto alla elaborazione psico, per esempio, senza tuttavia ne vengano intaccati in profondità nodi di potere.
Gli ottimi e pur indispensabili studi sui determinanti sociali, non costituiscono di per sé una pratica di redistribuzione di poteri e di presa di parola sui discorsi della salute e del benessere, oggi demandato ad una casomai oculata e normante, nonché dispendiosa gestione dello stile di vita individuale, essi ci mostrano il re nudo, l’elefante della disuguaglianza nella stanza, la fattiva povertà della nostra esangue democrazia. Essi sono la patente attestazione che l’epoca dello stato sociale, se mai pienamente esistita in Italia, oggi mostri ampiamente la corda nella sua funzione di elemento chiave di lotta alle discriminazioni e financo indirettamente alla massiccia erosione dei salari nostrani, bisogna ricordarlo, tra i più bassi d’Europa. Nel momento in cui si distruggono anche gli ultimi presupposti per un basic income universalista, il potenzialmente gioioso slogan rivendicativo di una vita bella che si leva dalle piazze precarie e studentesche oggi risuona come grido di dolore, manifestazione crescente di disagio morale e materiale nei confronti di un sistema sociale che, deprivato di ammortizzatori, completamente scassato nel suo meccanismo ascensionale, mostra la faccia feroce di un potere che non ha più bisogno di consenso, ma neppure di classi lavoratrici propriamente dette. Ebbene, io credo che la questione Lavoro sia il grande rimosso vero di un dibattito approfondito sulla critica dei saperi e l’accesso alla salute. Non si tratta semplicemente di una questione di tassi occupazionali, il Lavoro ha agito per tutto il Novecento come palestra di aggregazione, elaborazione, conflitto, fucina di contro cultura, anche se oggi persino tra le forze sindacali schiacciate su una scala di contrattualità parcellizzate, è difficile rammentarlo. Suppongo sia difficile credere che ben oltre le misure di tutela della sicurezza sul Lavoro, oggi peraltro pressoché inesistente in fabbrica come in cantiere, o persino a scuola, i più innovativi studi di igiene ambientale, le più interessanti deduzioni epidemiologiche e di morbilità, i rapporti tra natura ed operato dell’uomo, la critica alle condizioni abitative e di genere, vennero fuori proprio dal mondo del Lavoro, anche da una consapevolezza di una non neutralità delle produzioni. si tratta di elaborazioni importantissime per i nessi veri, nel senso anche delle frequentazioni, degli ambiti di intervento, dei luoghi in cui pubblicamente venivano detti ed immaginati, che vivevano soprattutto al di fuori dell’accademia e che sono difficili oggi da reperire perché legate alle testimonianze, a documenti d’archivio spesso privati, alla produzione di manifesti, riviste, pubblicazioni di varia natura, trasmissioni radiofoniche di emittenti oggi inesistenti. Non erano importanti solo i luoghi in cui avveniva la produzione dei saperi o il grado di antagonismo dei medesimi, ma anche gli spazi della fruizione spesso tangibilmente legati a forme di lotta, di alternativa resistente. Se oggi adoperiamo in abbondanza il termine resilienza è anche perché dobbiamo divenire adattabili e flessibili anche nella situazione dell’opposizione sociale e non tanto per una intrinseca natura compromissoria quanto perché caduti e frantumati i dispositivi di dominio prossimi e riconoscibili, sia per cause endogene, che per forme di rivoluzione passiva ed eterogenesi dei fini, sia per l’oggettiva spinta del ciclo storico, il fronte si sposta di continuo e si tornano a verticalizzare le conoscenze, nonostante il moltiplicarsi delle famose reti. In questo momento bisogna dirsi che le reti non sono generative per automatismo di causa ed effetto di orizzontalità, che l’assenza di lavoro non ci ha liberato tempo e aggravando la povertà non ha affatto eliminato le mille forme della competizione, provocando innumeri disagi fisici e mentali dovuti a insostenibile pressione sociale e pulsioni auto-sabotatrici. Il Lavoro, per quanto anche rifiutato, esorcizzato nell’immaginario come principale forma auto realizzativa, vanamente inseguito come identitario, sottopagato, precarizzato, insicuro, non tutelato, spesso fortemente isolato e individualistico, marginalizzato dal discorso assertivo, del tutto avulso da un sistema riconoscibile di titoli e competenze, ancorché classiste come si sarebbe dentro un tempo, mangiandosi pure le nostre composizioni e categorie sociali, agisce da fantasma di Banco. Rivelandoci, come qualche think tank di pensatori fuori dal coro ci suggerisce, tutti i nostri sbagli e tempi morti, in cui non matura per forza di cose una propulsione emancipatrice. Piuttosto si evidenzia la mancanza di un luogo prioritario e simbolico dell’agglutinarsi del Bisogno collettivo. Se formarsi e ripercorrere percorsi per rintracciare fili e annodamenti, resta un dovere fondamentale, così come quello di ritrovare Desiderio, Sogno, corrispondenza erotica, sta a noi anche il sottrarci alla trappola del sottostare. A cosa? a visioni vecchie e nuoviste dell’affidamento ai tecnici e agli operatori, aprendo di fatto la strada ad una medicalizzazione diffusa e acritica. Dissentire, cercare ostinatamente luoghi di unitarietà, liberarne altri, ripensare il produrre e lo stare, rifiutare logiche e narrazioni precotte sviluppare pratiche mutualistiche, non come forma succedanea di qualcosa che non ci viene più garantito, ma come presa di parola che interessa e si fa azione sono fattori agenti di emancipazione. Tutto questo, ben consapevoli che una irripetibile, pur contraddittoria tumultuosa e temporanea convergenza tra proclamarsi dei diritti del paziente e del cittadino, per rimanere al nostro ambito, con rivendicazioni e cultura del lavori e dei lavoratori della sanità pubblica, se non altro per la presenza di contrattualistiche diversificate con il terzo settore, le autonomie regionali, lo stato, risulta oggi molto difficile se non improbabili e le stesse logiche di privatizzazione trovano sponda nella sfiducia del cittadino. Sfiducia che si nutre ormai anche di una sfiducia epistemologica nei presidi medici tradizionali, nei paradigmi della cura occidentale incapaci di rinnovarsi e arricchirsi di contributi provenienti da ree culturali e di pensiero diverse. Come se la cura non bastasse a sé stessa e reclamasse di diventare, una volta identificata qualcosa d’altro da sé. Risorse dunque da investire, risorse di ricerca da ricercare, ma anche un bisogno profondo di ripensarsi, di ripensare a soggettività che non vogliono farsi etichette pur di inventarsi un nuovo acronimo di servizio e nuove ibride forme di divergenza che chiedono reciprocità, rispetto, dignità, non cura. Se negli anni ’70, si osò dire nelle correnti più estreme che la malattia mentale non esiste o che la follia fosse una forma di bellezza e saggezza superiore preferibile alla normalità, oggi tuttavia le ricerche e istanze inerenti i neuropeculiars e i tups, segnalano un malessere rispetto ad una neuropsichiatria più biofarmacologica che attenta alla fenomenologia e alla complessità dei contesti culturali e valoriali. Con una aggravante precisa che ci riporta al nostro ragionamento e cioè che tutto il dibattito in materia, nonostante pratiche quali il recovery college, rimangono in gran parte interne all’ambiente di addetti ai lavori, tecnici, esperti, portatori di interessi. Senza che oltretutto questo trovi una eco profonda nell’opinione pubblica, che non sa in questo momento identificare né nemici del popolo, né martiri o santini o icone in materia da esibire e viene mobilitata soltanto, nei casi di cronaca nera agitati in funzione securitaria e repressiva come tuttora sta accadendo, con la voglia sottintesa mai sopita di smantellare la legge 180. Legge peraltro spesso messa agli angoli dalla creazione di nuove modalità di manicomi minori come le cosiddette residenze. Di nuovo, un tema di inserimento e posto in una società essa stessa patogena e incapace di produrre nella sua palese implosione, gli schemi di una presunta freudiana normalità si fa dirompente. In un quadro siffatto la riproduzione sociale assume la connotazione di una perversione e si fanno insistenti i richiami ad una diserzione di massa da parte di molte menti critiche, diserzione peraltro già ampiamente attiva nei fatti.
D’altro canto dobbiamo stare molto vigli e attenti anche se assolutamente in dialogo, a mio avviso, con quelle politiche che invocando la partecipazione sociale diffusa chiamano in causa il cittadino responsabile, non perché sia cosa sbagliata in sé, ma perché ci sono finalità secondarie di ottimizzazione delle sempre più scarse risorse dietro questo ragionamento e perché infine il coinvolgimento finirà per riguardare realtà associative in qualche modo specializzate o fidelizzate e non favorirà la creazioni di ambienti protetti per la presa di parola non addomesticata che cosi ci riguarda da vicino. E che si crea nei luoghi occupati, nei movimenti giovanili che combattono per l’esistenza stessa di un biologico futuro, in seno alle sfamiglie queer, ai luoghi di produzione antagonista, ai collettivi di precari, di migranti sfruttati, di studenti.
Sotto questo aspetto il discorso sulla Salute mentale diviene nuovamente centrale come chiave di volta di cambiamento e trasformazione sociale. Il mondo non più forse fabbrica, ma manicomializzato diviene oggi terreno di scontro universale in cui tutti e tutte possono riconoscersi. Non ci sarà alcun budget di salute che potrà compensare la mancanza di una vita bella cui aderire e alcun setting inclusivo che possa compensare l’angoscia generalizzata per le incognite del presente e del futuro. Che riguarda pazienti, familiari, caregivers, operatori stessi. Tutto questo chiama in causa la spinosa e rimossa questione della critica ai saperi di cui si diceva sopra, perché senza di essa qualsiasi tipo di partecipazione rischia di divenire o sterile o peggio ancora cassa di risonanza dell’esistente e il discorso dei servizi si esplica solo come pletora relazionale ulteriore aggiuntiva.
La Salute e in ispecie quella mentale sono territori insidiosi dove realmente il rischio di buttare il bambino con l’acqua sporca è molto alto e nello stesso tempo lo è altrettanto il rischio di prassi ingegneristiche o di sperimentalismo non tracciato e non tracciabile. soprattutto in un sistema complessivo in cui scarso è ad oggi il dialogo tra cure primarie e servizi di salute mentale, problematico e, di nuovo, scarso il ruolo della medicina di prossimità, non così diffuso il lavoro in equipe e la prassi di valersi di figure sociali individuali e collettive di mediazione, riproposizione e rimasticazione dei bisogni, come figure di attivisti, studiosi indipendenti, professionalità intermedie, associazioni categoriali. Naturalmente con qualche virtuosa eccezione nelle pratiche di chi agisce in regime di coprogettazione, di esperienza pilota in aree fortemente identificabili con attitudine storica ed antropologica come può essere per Il Collettivo Amalia e il Gruppo di Lavoro per la casa di Comunità Navile a Bologna, autocreatesi all’interno di una realtà di Quartiere o per mille altre sperimentazioni laboratoriali e municipaliste dal basso a forte matrice giovanile e popolare.
Esistono dunque, poiché la vecchia talpa continui a scavare, sentieri impervi e tuttavia percorribili, nonostante o proprio a partire dall’accelerazione al collasso determinata dalla pandemia che ci invitano a non autorecintarci, alla creazione di quelli che potremmo definire laboratori esperienziali dell’ozio, per riprenderci il tempo di pensare, di ridefinire una conciliazione dei tempi per tutte e tutti, prescindendo dalla riproduzione, per ricomporre i luoghi del conflitto, ripensare il Lavoro e la Produzione come la vicenda del Collettivo di fabbrica GKN, dato per residuale ed invece innovativo, a prescindere dall’esito finale della sua lunga lotta oggi dotatosi anche di uno sportello Salute ci insegna, per riappropriarci dei corpi, del linguaggi, dello spirito egalitario e delle parole per dirlo sempre indomite e mai addomesticabili, in opposizione a qualsiasi cultura a valenza meritocratica.