Essere esaustivi sulle programmazioni culturali e teatrali bolognesi non è semplice per nulla, stante la ricchezza di stimoli tale da sopraffare qualsiasi relatore di buona volontà, ma non ci si può certo esimere, sapendo già in questo momento di far torto al Teatro dell’Argine, a quello di Casalecchio, che se ne esce con un nuovo impianto direttivo, indubbiamente a Teatri di Vita, che ha ripreso subito Omelas, di Eros Anteros, per esempio di cui vi abbiamo appena parlato e, per il momento al Teatro Ridotto di Lavino di Mezzo che esce con una rassegna notevolissima per spessore politico di cui intendiamo riferirvi. Ma andando per gradi e con ordine, questo è anche il periodo di Gender Bender, il festival sulle culture e trasformazioni di genere che giunto al bel traguardo di 23 edizioni, nel tempo ha visto trasformare la sua fisionomia di appuntamento imprescindibile per irriverenti provocatori a necessario presidio di pedagogia delle differenze e tutela di diritti, nella cornice di linguaggi e codici espressivi tra i più avanzati in Europa e in un clima da sempre safe e festoso. Gender Bender inaugura oggi 30 ottobre, mentre ne scrivo per estendersi fino all’8 di novembre e come sempre sarà una cavalcata al galoppo tra cinema, teatro, danza, talks, situazioni installative e laboratoriali, appuntamenti dedicati alle famiglie arcobaleno con una cura particolare persino per i più giovani di tutti: ne parliamo volentieri con Mauro Meneghello che ha ereditato per così dire lo scettro di curatela da Daniele del Pozzo, oggi assessore alla Cultura e gestisce in modalità del tutto condivisa quello che ormai è un organismo vivente per gran parte dell’anno.
Comincerei come sempre la conversazione dalla vostra immagine di copertina: Gender Bender nel tempo è diventato un festival di culto, appetibile nei suoi gadgets memorabilia anche per i collezionisti. Non vedo un vero e proprio claim, ma senza dubbio la curiosa composizione iconografica che sto ammirando, una sorta di collage giornalistico scomposto tra contemporaneità e classicità, in cui salto in alto faticoso ma riuscito e caduta rovinosa si giustappongono creando straniamento percettivo sappiamo bene che custodiscono un senso preciso, forse un mandato.
Dici bene. Questa immagine, elaborata come sempre da Davide Trabucco, è una contrapposizione complementare, mettiamola così, tra un atleta che si produce in un Fosbury e una classica, mitologica immagine. Ovvero Icaro che precipita tra i marosi dopo aver tentato il suo volo temerario. Tutto questo è sorto da un confronto tra noi, perché il concept di fondo che volevo dare a questa ormai matura edizione è che bisogna assumersi sempre un margine di rischio. Se non tentassimo nonostante tutto, di cambiare le cose, queste non cambierebbero certo da sole. L’etica e il buon senso da sempre condannano l’eccesso, l’azzardo, la tracotanza rispetto ai limiti religiosi o di natura, ma se ci pensi, Dante pur assegnando Ulisse all’Inferno, ne ha simpatia e condivide certo l’assioma famoso del fatti non foste a viver come bruti. Lo abbiamo visto nelle scorse settimane quanto rischio faccia il paio con responsabilità nelle oceaniche inedite manifestazioni propal. Dunque un invito a mettere in gioco i nostri corpi e questo è uno statement che da sempre contraddistingue Gender Bender.
Vuoi dirci qualcosa sullo staff di gender Bender e sui vostri cambiamenti interni?
I nostri cambiamenti sono mutazioni fisiologiche. Siamo stati felici del nuovo incarico di Daniele anche perché eravamo già preparati a eventuali passaggi di testimone. Una questione che Daniele stesso aveva posto con forza, scegliendo già da qualche tempo di farsi affiancare da me. Oggi le generazioni in un certo senso contenutistico si succedono molto velocemente e bisogna essere accoglienti al nuovo nelle prospettive. La società corre più rapidamente dei decisori politici e questo iato è uno dei motivi che fa soffrire i giovani, in realtà come abbiamo visto tutt’altro che disturbati pur nelle loro fluidità e contraddizioni quando possono trovare modalità collettive di esprimersi e canali direzionali per la loro legittima rabbia. Questo è un festival che si è sempre occupato di giovani e giovanissimi e quest’anno, ad esempio, faremo di più perché ci sarà uno spettacolo in collaborazione con il Teatro Testoni la Baracca, dedicato alla fascia nido, tra uno e tre anni. Ma noi non siamo qui per inculcare il gender, come vuole la vulgata più becera, ma registriamo semplicemente i bisogni più avanzati dal punto di vista relazionale. Questi giovani sanno scegliere, non necessariamente ciò che gli adulti anche avveduti e progressisti hanno immaginato per loro e hanno una cura tra loro, nei rapporti di orizzontalità che fa ben sperare, anche se vengono enfatizzati dalla cronaca soltanto i picchi di criticità. Tornando a noi, quindi ci prepariamo al futuro e posso dirti che lo staff attivo su tutto l’anno è di 4 persone poi naturalmente nei giorni del festival diventiamo molti di più, quasi una trentina di persone comprendendo i volontari. Abbiamo come vedi un partenariato estremamente esteso e variegato. Si, noi lavoriamo da molto tempo su una dimensione decisamente internazionale perché ci piace il lavoro di rete e soprattutto il lavoro a 360 gradi riguardo le prospettive contenutistiche. Non vi è alcun dubbio che noi guardiamo ad altri che su contenuti di costume, di lotta allo stigma, di diritti civili sono più avanti di noi e anche a chi a livello organizzativo e di sostegni in termini di economie e risorse è più avanti di noi. Quest’anno però su questa programmazione che vedi non abbiamo ancora il bano Creative Europe, che è uno dei nostri main sponsor, per dirla così. Infatti, era venuto in scadenza e aspettiamo in questi giorni il rifinanziamento. Ci sono da dire due cose, comunque, per meglio precisare il discorso e ancorarlo all’attualità. I bandi europei hanno una loro caratteristica intrinseca di guardare ad una serie di compatibilità e congruenze riguardo sia al rispetto ambientale e questo ci porta al discorso della biglietteria on line, per esemplificarti, sia alle griglie contenutistiche dove l’inclusione e la lotta al pregiudizio sono criteri imprescindibili di valutazione. Comunque, spezzo in questo frangente storico così particolare in cui ci troviamo, anche una lancia in favore del nostro sistema spettacolo: certo molto più povero e in difficolta con le residenze e tutto, ma sicuramente proprio per questo più agile e flessibile nei momenti di difficoltà. Noi lavoriamo molto con Spagna, Germania e Francia e quest’anno avremo ben tre compagnie francesi, ma ti assicuro che grosse strutture in un clima di tagli generalizzato hanno incontrato molte più difficoltà di noi a riassestarsi.
Allora, in una programmazione tanto ricca e intensiva, vuoi dirci quali sono le cose salienti e le caratteristiche principali di questa rassegna?
Allora, intanto mi piace sottolineare che questo è un festival artistico eminentemente, che pratica la queerness non come argomento ma come metodologia di trasversalità intersezionalità e conseguente convergenza. Questo significa attenzione, allerta quasi sui nuovi linguaggi, tra alto e basso, e in quale relazione tra loro. Non è una programmazione dunque dove c’è un po’ di tutto, ma dove ci sono pluralità espressive. E sensibilità che ritornano perché ci stanno a cuore. Come l’attenzione per esempio al non abilismo e alle divergenze, alla accessibilità degli spazi, alle varie fasi di età in rapporto con il corpo. Siamo decisamente non ageisti. Poi tra talks, cinema, performances, grafica, fotografia, installazioni e libri, comunque direi che nel computo diamo grande rilievo alla danza ed il perché mi pare evidente partendo da un ragionamento sui corpi. In questo senso mi sento di segnalare anche il workshop per esempio, Forte Forte, condotto da Diana Anselmo e Cristina Kristal Rizzo, a partecipazione gratuita come assolutamente imperdibile. Segnalerei anche in tema Francia, le Petit B, con uno spettacolo per bimbi e famiglie ed anche un workshop loro dedicato, cosa forse ancora segnalo più interessante. Poi naturalmente in tema Francia segnalo questo spettacolo che è in tour in Italia, supportato dagli istituti di cultura francese che è questo About love and death di Emmanuel Eggermont. Se invece vogliamo riferirci a qualcosa di italiano, assolutamente oltre al nostro resident Ninarello, Collettivo cinetico con Age, che sarà ospitato in sala De Perardinised è in realtà la riedizione di un progetto sull’adolescenza e i corpi in trasformazione che data 2012. Diciamo pure che Age è in qualche modo il biglietto da visita di collettivo Cinetico, la sua storia biografica e merita dunque il palco grande. Per quanto riguarda la sezione libraria consiglio il 7, la presentazione a Das, uno dei luoghi del festival, dove sta anche il desk generale del festival, la presentazione alle ore 18 e 30 di Lo sbilico, di Alcide Pierantozzi, uno dei libri più discussi del momento in tema disagio e mentale -diversità, nonché una lirica, bruciante storia autobiografica in presa diretta che non lascia indifferenti e che conquista per la qualità della scrittura.
Mi congedo da Mauro a malincuore, convinta dell’importanza di avere in questa città una rassegna sulle differenze così attenta e sempre sul pezzo e già pensando all’impossibilità materiale di poter partecipare come vorrei a questa che è anche una festa mobile di volti, di corpi, di modi di stare al mondo.
Peraltro, toccherebbe spendere qualche parola in più sul romanzo di Pierantozzi che travalica per potenza e cifra stilistica l’onda in questo momento favorevole alla produzione letteraria e saggistica in tema psichiatria e dintorni, così come varrebbe la pena soffermarsi sulla ritrovata, perché mai perduta, nonostante gli inciampi fisiologici di destino, vena ipercreativa di Collettivo cinetico, di cui questa settimana abbiamo visto praticamente una prima in sala Salmon. Uno spettacolo di sbilanciamento anche questo, così come il libro, dove sofferenza fisica e psicologica, memoria, morte e tanto tanto amore giocano con programmatica leggerezza sul pattern della “Sparizione”, come categoria forse ma solo forse inaffrontabile per chi lavora sulla presenza totalizzante del corpo fisico. A meno di chiamare in causa abilità circensi e di farsi anche un po’ mistificatori come tutti i maghi. Ed ecco avverarsi l’inverosimile con la nota parola guida: Abracadabra, da sempre promessa, sorpresa, premessa di disvelamento.
Non posso ulteriormente trattenermi come vorrei su questo tema, caro in realtà alla grande tradizione teatrale e riletto qui secondo la cifra acerba e nello stesso tempo ormai adulta che contraddistingue Pennini, protagonista quasi assoluta di un lavoro delicatamente autobiografico, perché mi consta di riferirvi di una programmazione che mi sta molto a cuore, che già ha avuto vari prequels in sedi diverse, che è ufficialmente iniziata venerdì 31, ma che proseguirà fino alla fine di novembre. Ovvero, internamente al progetto Tutto il mondo è un teatro in cento rose, ospitato alla sala teatrale Centofiori, in zona Corticella, centro civico Michelini, comunemente denominato Gorki, piccolo per numero di spettacoli, ma non certo per qualità artistica e contenutistica, festival Le Altre rose. Una rassegna di spettacoli in solo dedicati alla maestria e ai numerosi talenti di tre grandi regine del palcoscenico nazionale quali Angela Malfitano, Francesca Mazza e Elena Bucci.
Tre percorsi e storie di eccellenza nati all’interno di quella grande scuola bottega di teatro, forse mai del tutto compresa che fu la compagnia – Teatro di Leo. Non è stato facile trovare date e incastri per queste straordinarie figure di artiste artigiane, come bene ha sottolineato il nostro assessore alla Cultura, rammentando il loro essere anche autrici e pedagoghe e formatrici e registe, dato che ormai le loro carriere volano alto e le portano anche fuori del contesto bolognese per lungo tempo.
Ma si tratta comunque di una realizzazione fortemente voluta da Tra un atto e l’altro- Collettivo Amalia insieme al Quartiere Navile e si tratta come giustamente viene sottolineato a più riprese di un atto fortemente politico dal punto di vista della valorizzazione di genere e soprattutto di un discorso di welfare culturale e della qualità artistica nelle periferie. Un bando Periferie finanzia infatti questo progetto e molto anche qui andrebbe detto sul sotto utilizzo che tanti luoghi nei nostri quartieri, un tempo investiti di molte funzioni di servizio, oggi, sebbene abitati e attraversati e ricchi di esperienze associative, sembrino tuttavia mancare di una riqualificazione identitaria forte forse perché specchio non solo delle aporie di una governance oggettivamente sempre più complessa dei nostri territori, ma perché rappresentare, cosa e per chi, sta diventando un quesito bruciante e affatto neutrale. In tutto questo, occorre rimboccarsi le maniche e lavorare con un certo grado di caparbietà per portare a casa il risultato, specie in un quartiere così plurale e attraversato da mille contraddizioni, così anche stratificato al suo interno, come Navile. Le due associazioni citate in coprogettazione coprogrammazione con molte altre e con l’ufficio reti di quartiere, da tempo agiscono trasversalmente su quanto tra alto e basso si può realizzare per e con i cittadini. Questo è un esempio di grande dono alla cittadinanza e mentre scrivo è già andato in scena venerdì, l’omaggio di Malfitano alla carismatica figura di chanteuse e performer a tutto tondo di Marianne Faithfull, spesso nota purtroppo soprattutto per il giovanile e burrascoso sodalizio con Mick Jagger, ma indubbiamente donna e artista piena di destino e di talento. Una vita inimitabile e sofferta attraversata da molteplici resurrezioni, narrate come ricorda Malfitano in sede di press conf nella sua autobiografia. Lo spettacolo prende le mosse da questo oggetto autobiografico e si arricchisce di volta in volta di suggestioni nuove, perché sensibile come tutto ciò che si fa in teatro a tutte le temperature esterne, per così dire. Difatti Malfitano racconta che la notizia della scomparsa di Marianne all’età di 79 anni è stata stimolo per rilavorarci sopra e desiderare fortemente di riproporlo, più che come semplice reading come spettacolo a 360 gradi. Un altro tipo di autobiografismo è quello che investe il lavoro di Mazza che andrà in scena sempre alle ore 21 il 14 di Novembre. Francesca Mazza, insignita più di una volta del premio Ubu, in quanto attrice, realizza qui una sua creazione sul modello oggi poco frequentato delle serate d’omaggio all’artista che poi sono omaggio al Teatro tout court. Racconta Mazza di aver ricevuto questa suggestione e di averla accolta a modo suo, mescolando dubbi paure silenzi timori tra le pieghe del buio della sala e della scena e le parole dei più grandi, tutti contenuti in una unica sfavillante carriera. Da Shakespeare imprescindibile fino alla drammaturgia recentissima di Linda Dalisi per la Ferocia di Lagioia. Elena Bucci, romagnola doc, radicata in quel di Russi con la sua compagnia le Belle Bandiere, ma con uno sguardo che è attento all’Universo, proporrà il 28 di Novembre, in Canto e in Veglia, una potente riflessione sulla Morte, la sua sistematica rimozione, i suoi rituali di congedo dimenticati, la sua sottrazione alla percezione emotiva; eppure, la sua costante presenza tra noi, sotto forma di immagine della violenza perpetrata continuamente all’ambiente e ai più deboli. Una riflessione antropologica che da sempre, certificata persino da un percorso di studi, attiene a Bucci, ma che oggi le torna come urgenza e come intravista possibilità di fare teatro di comunità a partire dalle sue più recenti esperienze personali. Bucci rammenta in sede di conferenza stampa di aver attivato tutto ciò che poteva in termini di presidio culturale, tra teatro e biblioteca comunali nel cuore della Romagna contadina e verace e ferita dagli eventi naturali, ma di non essere convenzionata in alcuno spazio: non possiedo niente, rimarca, forse fedele appunto ad una logica di microazioni tutte inserite in un contesto più vasto e che guarda lontano, come del resto ogni buon teatrante, un po’ zingaro nel fondo dell’animo, sa. Una prospettiva ben calzante con tutto il lavoro di Tran atto e l’altro, Collettivo Amalia, grandi catalizzatrici di energie e di azioni spese su molteplicità progettuali e che rivedremo in azione il sei novembre alla biblioteca Minguzzi in una iniziativa dedicata alle partigiane come non le avete mai considerate accompagnate dai ragionamenti di Bruna Zani, Valeria Babini, Federica Zanetti, Luca Alessandrini, tra musica e parole.
Davvero difficile render conto di tutto quanto si muove in Regione, merita qui velocemente di fare due ultimi affondi. Torneremo sulla stagione Agorà, come sapete la stagione che cuce insieme antropologicamente e culturalmente i territori di 8 comuni della Reno Galliera, una stagione ideata e lanciata con successo e molte idee innovative a suo tempo dalla attuale direttora artistica di Ert ed oggi egregiamente condotta da Alessandro Amato. Proprio mentre scrivo infatti, si programma un lavoro politicamente molto interessante sui temi politicamente caldi della rotta balcanica. La politica internazionale che poi tutti ci riguarda del resto è molto presente anche dentro Gender Bender con varie iniziative e proiezioni dedicate alla Palestina, è presente nel cuore degli artisti, se il cast di Abracadabra, stende sul palco infine di spettacolo una bandiera palestinese ed è un core ideativo sin dalla composizione della compagnia per questo straordinario Prendre soin o Beyond caring che dir si voglia, perso al Metastasio di prato e recuperato al Teatro due di Parma.
Stiamo parlando di un lavoro molto particolare recitato in lingua francese, ma ideato dal regista e drammaturgo inglese Alexander Zeldin, ormai non più astro nascente, ma grande conferma della produzione di stampo neorealista british, o meglio iperrealista come lui stesso sottolineerà nel partecipatissimo incontro a seguire la replica del 31 ottobre, preceduta da un incontro pomeridiano con le protagoniste femminili della pièce. Questo lavoro è in realtà stato scritto da Zeldin nel 2015, quando ancora non aveva fondato, cosa che sarebbe avvenuta poi rispettivamente nel 2019 e nel 2022, le sue compagnie inglese e francese rispettivamente, visto che è artista residente al teatro nazionale di Strasburgo. Per lui, si spendono notoriamente paragoni con acclamati talenti cinematografici quali Leigh e Loach, cui accenna effettivamente lui stesso. Se vogliamo stare su un territorio più prettamente teatrale, visto che definisce lui stesso come coreografati i movimenti degli attori tutti straordinari e coreografati secondo logiche appartenenti al linguaggio dei segni, io ci ho visto assonanze e richiami al magistero presente nelle prime produzioni del compianto Salmon ed anche in tutta la scuola di teatrodanza belga con particolare riguardo a Platel. La compagine attoriale dicevamo, che si muove con un affiatamento da bottega dell’arte eduardiana, per stare su un livello nostrano, ha appunto la meravigliosa caratteristica che ancora non è sovente rintracciare in Italia di essere meticcia nella sua composizione dunque anche assolutamente funzionale alla rappresentazione del testo che si svolge nella squallida sede di una macelleria industriale che viene ripulita al turno di notte da uno squadrone di addetti precari di cui pochissimo viene detto ma che si mostrano plasticamente allo spettatore testimone nel corso delle loro apparentemente monotone turnazioni, in realtà ricche di piccoli scarti e slittamenti, in quelle che sono le loro miserie e la loro sacrificata condizione esistenziale, che non risparmia neppure il tracotante capetto Nassim. La scena è fissa e sottoposta a impietose luci al neon, le varianti sono introdotte dallo scorrere di macchinari e carrelli sporchi di sangue, quasi tangibile l’odore di detersivo, il pubblico sta in platea a luci a sua volta accese, come a stabilire un ideale prosecuzione della scena. Per un ‘ora e mezza si assiste assolutamente avvinti a continui andirivieni entrate ed uscite dalle porte in un meccanismo che rovescia il senso della pochade in un tragico quotidiano, in una ordinaria eccezione in cui di eclatante non accade nulla, ma tutto semplicemente avviene come sempre. E sta proprio lì la tragedia. La perizia drammaturgica di Zeldin si appoggia peraltro ad una salda documentazione quale quella di un famoso libro fotografico uscito in Inghilterra thatcheriana che documentava la vita nelle fila e sale d’attesa dei vari disoccupati e si intitolava appunto Beyond caring. Curiosamente infatti lo spettacolo ha questa titolazione bilingue che però allude se concepita in reciproco completamento, a due aspetti della precarietà complementari cosa c’è oltre l’occupazione entro canoni di compatibile normalità, cioè quando subentra il precariato, lo sbilico, anche qui, in una condizione di allarme e ricatto continui e quel prendersi cura francese che è una pre-politica forma di solidarietà tra sfruttati che di tanto in tanto emerge non a mitigare ma in questo caso drammaturgico a scolpire ancor meglio la forma della sofferenza cui tutti i personaggi resistono comunque imperterriti, ciascuno a suo modo, uomini e donne. Insomma, pur nella durezza senza soluzioni e redenzioni, tutti working class heroes. Da non perdere, evidentemente se vi fosse possibile recuperarlo.