Pubblichiamo qui di seguito il contributo di Noemi Magerand (Université Grenoble Alpes), realizzato a partire dall’incontro “Rossanda, la battaglia culturale e la nuova sinistra”, tenutosi il 19 settembre a Bologna. Cogliamo l’occasione per ricordare alle nostre lettrici e ai nostri lettori che domani, a partire dalle 17 si terrà l’incontro di presentazione della mostra “Rossana Rossanda, la Ragazza del Novecento”, presso l’Auditorium Biagi della Biblioteca Salaborsa. (QUI la locandina con il programma completo dell’evento). Buona lettura
Il 19 Settembre a Bologna, presso il Centro Culturale Giorgio Costa (Via Azzo Gardino 48) si è svolto l’incontro “Rossanda, la battaglia culturale e la nuova sinistra”, in occasione della mostra “Rossana Rossanda, la ragazza del Novecento”, che sarà ospitata presso la Biblioteca Salaborsa dal 29 settembre al 13 ottobre.
Attraverso il saggio di Alessandro Barile (Rossana Rossanda e il PCI. Dalla battaglia culturale alla sconfitta politica (1956-1966), Carocci, 2022) e quello di Luca Mozzachiodi (Preparando il Sessantotto: saggisti e scrittori nelle riviste della Nuova sinistra (1956-1967), Pacini Editore, 2024), si è ripercorso il complesso rapporto tra cultura e politica, nel periodo che va dal 1956 – “l’indimenticabile 1956”, come lo definì Pietro Ingrao1 – e il 1967, alla vigilia del movimento del Sessantotto.
Sono due letture molto complementari per leggere i profondi mutamenti che agitano il mondo culturale in quel frangente, maturati con il boom economico e la cultura di massa. Entrano in crisi i modelli di intervento culturale del Partito comunista italiano, insieme alla figura dell’intellettuale engagé, mentre si moltiplicano collettivi e riviste che sfuggono al partito e al sindacato e che compongono la Nuova sinistra.
1) La figura di Rossanda: un dissenso maturato a lungo
Alessandro Barile non si limita a ripercorrere gli anni della direzione di Rossanda alla Sezione culturale dal punto di vista biografico-intellettuale, ma allarga lo sguardo per collocare quell’esperienza specifica dentro la traiettoria delle scelte culturali del PCI dal dopoguerra alla fine degli anni Sessanta. Rossanda appare allora come una delle figure che incarnano una spinta riformatrice all’interno del partito, senza mai sconfinare nell’eterodossia, nonostante sia una dirigente «tra le meno “appiattite” all’univocità della direzione politica della cultura».2
Il dissenso maturato da Rossanda all’interno del partito è un processo lungo, e la politica culturale che tenta di portare avanti coagula numerosi temi che saranno all’origine della rottura con la direzione nel 1969, insieme al gruppo del «manifesto». Questo dissenso affonda le radici sin dal 1956, di fronte alla reazione dei comunisti italiani all’invasione dell’Ungheria, e si acuisce negli anni del boom economico, con il dibattito sul neocapitalismo e i suoi effetti. Lo sviluppo di una cultura di massa – demonizzata dal PCI –, il progressivo cambiamento di ruolo e di funzione della figura dell’intellettuale, l’istruzione di massa e la relativa democratizzazione degli studi universitari, ma con scarsi sbocchi professionali, sono alcune delle problematiche con cui deve confrontarsi il PCI tra gli anni Cinquanta e Sessanta.
Il modello culturale finora adottato dal partito, di mediazione tra una cultura “alta” e una cultura “bassa”, tramite le organizzazioni di partito, entra in crisi. Anche il legame con gli intellettuali si complica: molti non rinnovano la tessera nel 1956, ma il crescente rifiuto di una subordinazione della cultura alla politica ha radici più profonde nei mutamenti dell’industria culturale.
Mentre si moltiplicano le riviste e i collettivi che sfuggono al controllo del partito e che si richiamano a un marxismo diverso, Rossanda, che dirigeva la Casa della cultura di Milano dal 1951, con un’eccentricità che non piaceva a tutti – ma mai eretica, sottolinea Barile – viene chiamata a Roma per dirigere la Sezione culturale a partire dal 1963. Da quella posizione prova ad allargare i confini del marxismo del PCI, a dialogare con le nuove discipline che si stanno affermando (antropologia, sociologia…) e con i movimenti alla sinistra del partito. La questione culturale diventa terreno di scontro pienamente politico sulla lettura del neocapitalismo e sulla necessità di adottare nuovi strumenti per coglierne gli effetti sulla classe operaia.
Sono tutti temi su cui si scontrano, nel corso degli anni Sessanta, la cosiddetta “ala amendoliana” e quella “ingraiana”, e insieme a quest’ultima i futuri promotori del «manifesto».
«Il manifesto» coglie parte delle novità che si sono sviluppate negli anni Sessanta, riprendendo le analisi sul neocapitalismo, la critica all’Unione sovietica e la ricerca di un altro comunismo internazionale – con un’attenzione a Cuba e alla Cina – e la necessità di ripensare le organizzazioni della sinistra tradizionale, senza tuttavia rinunciare all’idea di partito e al ruolo del PCI come partito della classe operaia. La nascita del «manifesto» e la sua successiva radiazione è, in parte, esito del lungo percorso rintracciato da Alessandro Barile nel suo saggio, che attraverso la direzione di Rossanda alla Sezione culturale permette di cogliere gran parte di quel dibattito interno.
2) I limiti del PCI di fronte ai mutamenti sociali e culturali
Entrambi i saggi mostrano anche le difficoltà del PCI nell’interpretare e proporre una direzione ai mutamenti sociali e culturali del boom economico. Nel partito pesa una chiusura interna in schemi inadeguati e poco permeabili agli stimoli esterni – con figure come Alicata, per esempio, che nel 1962, dirigente della commissione culturale del PCI, bolla di «interpretazioni dogmatiche e settarie» le proposte teoriche e politiche della Nuova Sinistra.3
La direzione comunista sembra inoltre ermetica anche alla propria base, invece più permeabile e dialogante con quelle comunità politiche e intellettuali che cercano di analizzare e di agire sulle nuove condizioni sociali dentro e fuori dalla fabbrica. Da questo punto di vista, il volume di Luca Mozzachiodi ce ne mostra alcuni esempi: tra i futuri organizzatori di «Quaderni rossi», rivista nata nel 1961, figurano anche militanti vicini o iscritti al PCI – come Rita di Leo e Mario Tronti – per i quali il partito comunista resta il principale referente politico.4 Nonostante l’appartenenza ai partiti e ai sindacati sia all’interno della Nuova Sinistra un tema dibattuto, le organizzazioni della sinistra tradizionale rappresentano pur sempre i referenti principali per riviste come «Quaderni rossi» e «classe operaia», «verso le quali si fa propaganda e, nei casi migliori, insieme alle quali si fa conricerca.»5
Tale atteggiamento, però, muta nel corso degli anni, in particolare dopo l’XI Congresso del PCI nel 1966 – il primo dopo la morte di Togliatti, avvenuta nel 1964 –, che segna la sconfitta della cosiddetta “ala ingraiana”. In quel Congresso, essa preme in particolare per una maggiore democrazia interna, con la richiesta di un “diritto al dissenso”, e si oppone alla linea dell’alleanza con i socialisti, in piena stagione del centro-sinistra.
La sconfitta di quell’ala più aperta, seppur in modo critico, agli stimoli provenienti dalla sinistra del partito determina un cambio di strategia di alcune riviste della Nuova Sinistra, non più rivolta a fare propaganda o pressione sul partito e i suoi militanti, come lo era per esperienze come «classe operaia».
È una tendenza che prefigura anche spostamenti successivi del PCI, in particolare negli anni Settanta, con una maggiore chiusura nei confronti dei movimenti sociali per inseguire una strategia sempre più rivolta verso la sfera istituzionale.
3) Le riviste della Nuova sinistra: un laboratorio fecondo
Le riviste della Nuova Sinistra rappresentano quindi in quegli anni un laboratorio politico fecondo, dove si elaborano strumenti teorici e pratici per leggere le trasformazioni del capitalismo e i suoi effetti sulla classe operaia, che il marxismo ortodosso delle organizzazioni tradizionali della sinistra sembra non cogliere pienamente.
Il dibattito investe anche i partiti: emblematico il convegno all’Istituto Gramsci nel 1962 intitolato Nuove tendenze del neocapitalismo. Parte del mondo sindacale e politico a sinistra sostiene l’idea di un’arretratezza del capitalismo italiano, da modernizzare tramite riforme e alleanze istituzionali, in particolare con i socialisti, in polemica con la sinistra comunista e con l’ala più radicale del movimento operaio e sindacale, che vede nel conflitto di fabbrica il motore del cambiamento sociale. Altre correnti, sia nella Nuova Sinistra, sia interne al partito – come testimonia la relazione di Lucio Magri in quel convegno6 – mettono in guardia invece contro un capitalismo capace di adeguarsi, con contraddizioni che pongono problemi nuovi.
L’inchiesta operaia e la conricerca assumono allora un ruolo centrale per tentare di cogliere dall’interno e di agire sui mutamenti della classe operaia e sulle nuove forme di antagonismo in fabbrica, spesso autonome e in contrasto con le organizzazioni sindacali, attingendo anche agli strumenti dell’antropologia e della sociologia.
A ciò si intreccia una rilettura critica del patrimonio culturale e politico del movimento operaio, da Marx a Lenin, passando per Gramsci. Già nel 1955, sul primo numero della rivista «Ragionamenti», – fondata da Luciano Amodio, Franco Fortini e Roberto Guiducci – una recensione al volume Einaudi con i testi di Gramsci sull’«Ordine nuovo» valorizza il momento consiliare e l’idea di un partito «formativo e sollecitante», che non deve «pesare come tutore delle nuove forme autenticamente operaie che egli stesso contribuisce a creare».7 È una visione in contrasto con il recupero di Gramsci da parte del PCI dal dopoguerra in poi, che aveva messo l’accento maggiormente sul ruolo del partito nelle istituzioni democratiche, e sul suo ruolo di guida e di direzione del partito per il proletariato, distaccandosi dal momento consiliare. La valorizzazione dei consigli di fabbrica troverà nuovi echi in altre pubblicazioni e movimenti, come nella rivista del «manifesto», che si rifarà esplicitamente, anche lì, al Gramsci ordinovista.8
Convergono, in questo ampio e variegato laboratorio culturale e politico, alcuni dei temi destinati ad alimentare la mobilitazione studentesca dalla metà degli anni Sessanta, e la successiva proliferazione di formazioni rivoluzionarie alla sinistra del PCI. Nella fase storica ricostruita da A. Barile e L. Mozzachiodi, sembra esistere ancora uno spazio per il dialogo tra partiti della sinistra e movimenti. È uno spazio che però si restringe rapidamente, in particolare, per i comunisti, con l’XI Congresso, fino a ridursi negli anni Settanta.
In questo senso, è centrale in entrambi i saggi il declino della funzione di mediazione e direzione dei partiti nella vita collettiva. Anche su questo punto gli anni Sessanta prefigurano un dato che si paleserà sempre più negli anni successivi, con il moltiplicarsi di nuove formazioni rivoluzionarie che esplicitamente contendono ai partiti tradizionali la lotta sociale e politica, e ne criticano il funzionamento e la struttura. Con l’intento di sottolineare queste forti continuità, Luca Mozzachiodi propone di parlare di un «Lungo Sessantotto»,9 che va dall’inizio degli anni Sessanta all’inizio degli anni Ottanta. I due volumi, con oggetti e sguardi diversi, ci offrono di approfondire le tematiche – e il loro lungo maturare nei partiti e sindacati, e nella Nuova Sinistra – che daranno vita non solo al Sessantotto ma anche a un ciclo di lotte che durerà un decennio ancora.