L’Alfabeto delle mafie. U come USA

di Isaia Sales /
12 Novembre 2024 /

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La villa del boss Joseph Barbara, dove si tenne la riunione di Apalachin

La Sicilia è la più grande e popolata isola del mare Mediterraneo. Ha ricoperto nel corso della lunga storia ruoli importanti sul piano culturale, politico, economico, religioso, con un patrimonio architettonico, artistico e paesaggistico tra i più affascinanti al mondo. Eppure, nessuno dei ruoli storici precedenti può competere nell’opinione pubblica globale con quello assunto all’interno del crimine internazionale tramite la mafia, al punto che Sicilia e mafia si sono identificati nel corso del ventesimo secolo.  I mafiosi siciliani, però, non sarebbero stati in grado di occupare questo ruolo centrale nell’élite internazionale del crimine se non si fosse radicata negli Usa un’organizzazione criminale, Cosa Nostra americana, che ha dato vita a un intreccio intercontinentale tra le sponde del Mediterraneo e dell’Atlantico. Le due società criminali si sono influenzate reciprocamente, hanno copiato l’una dall’altra modelli organizzativi, relazioni politiche e imprenditoriali, hanno fatto affari insieme. Fu sicuramente la mafia siciliana a fornire un modello organizzativo vincente ai criminali americani di origine italiana, ma fu il siculo-americano Lucky Luciano a inventare nel 1931 la “Commissione”, un periodico incontro tra le diverse famiglie mafiose per dirimere le controversie o per contrastare meglio la repressione delle forze di sicurezza. Lo stesso nome “la Cosa nostra” fu coniato negli Usa e usato poi per identificare la mafia siciliana. Anche la parola “famiglia” pare sia stato un originale contributo degli americani al lessico mafioso. Ma se la segretezza dell’organizzazione è il capitale che la mafia siciliana ha apportato al successo di quella statunitense (in Cosa nostra americana il rito del giuramento è stato in vigore almeno fino agli inizi degli anni Novanta del Novecento), è indubbio che quella americana ha accelerato le caratteristiche imprenditoriali di quella siciliana.

Un vero e proprio “ponte criminale” (come lo ha definito efficacemente Salvatore Lupo nel libro Quando la mafia trovò l’America) ha unito nelle due direzioni la Sicilia con gli Usa e ha consentito a entrambe un ruolo mondiale che prima di allora nessuna mafia locale aveva conosciuto.

Il peso dell’emigrazione

Fra il 1880 e il 1915 approdano negli Stati Uniti quattro milioni di italiani, su 9 milioni circa di emigranti che scelsero di attraversare l’Oceano verso le Americhe. Più della metà fece poi ritorno in Italia. Circa il settanta per cento proveniva dal Meridione. Per la maggior parte si trattava di contadini o piccoli artigiani e braccianti spinti all’emigrazione dagli effetti della crisi agraria dal 1880, dall’aggravarsi delle imposte nelle campagne, dal declino dei vecchi mestieri artigiani. Dal Sud si emigrava soprattutto per il protrarsi nei fatti di condizioni feudali nei rapporti tra proprietari terrieri e piccoli affittuari, che faceva dei contadini gli ultimi della società, con condizioni di vita e di lavoro aberranti. Le lotte per migliorare queste condizioni erano fallite tragicamente, con centinaia di morti ammazzati durante i movimenti di protesta organizzati dai Fasci siciliani a fine Ottocento. Dopo quella dura repressione si incrementò ancora di più l’emigrazione dalle campagne siciliane che dalla fine dell’Ottocento fino al 1914 divenne un esodo di massa.

Dal 1820 al 1860 12.700 italiani erano emigrati negli Usa, in particolare siciliani e liguri. Dall’inizio degli anni Settanta dell’Ottocento fino alla fine del secolo, il movimento migratorio italiano fu guidato in verità dalle regioni settentrionali. Dal 1876 al 1900 saranno i veneti, i friulani e i piemontesi a detenere il primato dell’emigrazione all’estero, mentre dal 1901 in poi saranno i siciliani, i campani, gli abruzzesi e i calabresi a incrementare i flussi migratori. Prima del 1870 erano stati gli irlandesi e i tedeschi a monopolizzare le partenze dall’Europa verso gli Usa. I meridionali saranno il 13% degli espatri nel 1876-1880, il 27% nel periodo 1881-1890, il 33% tra il 1891 e il 1900 e ben il 47% nel decennio 1901-1910.  Nel periodo 1911-1914, dalla Sicilia emigrarono 2270 persone ogni 100.000 abitanti, dalla Campania 1811 ogni 100.000 residenti.

Il ruolo svolto dall’emigrazione italiana, in particolare da quella siciliana, nel determinare una forte presenza mafiosa negli Usa è indubbio, ma non è corretto farne la causa esclusiva. In genere le interpretazioni del radicamento mafioso in luoghi prima non coinvolti (come, ad esempio, oggi nel Nord d’Italia) si concentrano sulla mentalità, sull’arretratezza culturale ed economica degli immigrati. L’immigrazione come unica causa del radicarsi dei fenomeni mafiosi fuori dai loro contesti d’origine si è rivelata assolutamente insufficiente a spiegare perché dei violenti organizzati riescono a farsi strada tra le classi dirigenti (politiche, economiche e professionali) di zone e nazioni economicamente e socialmente sviluppate.

In verità le teorie “culturaliste” erano state alimentate proprio dalla sociologia e dall’antropologia di scuola statunitense che, in difficoltà nel giustificare il successo delle “arretrate” e feudali mafie italiane in un Paese “avanzato” come gli Stati Uniti, avevano trovato appunto la spiegazione nel “carattere” e nella “mentalità” dei meridionali esportati negli Usa, assieme al loro know how culturale. Teorie comodissime ad allontanare il sospetto che anche negli Usa si erano create quelle condizioni sociali ed economiche favorevoli al radicamento di una criminalità venuta da fuori, così come oggi nel Nord d’Italia.

Era chiaro, fin da allora, che la spiegazione non risiedeva solo nei “geni” degli immigrati, ma anche in ragioni interne alla società ospitante. Infatti, in Argentina, dove pure si era indirizzata una fortissima emigrazione meridionale, seconda solo a quella che si riversò verso gli Stati Uniti nello stesso periodo storico (nel 1914 in Argentina c’erano un milione di italiani, di cui il 47% meridionali) non si diede origine a nessuna mafia. Lo spiega acutamente Federico Varese nel libro Mafie in espansione. È del tutto ovvio che un’offerta di prestazioni criminali è sempre sostenuta da una domanda. Insomma, in presenza di una combinazione di fattori economici e sociali, qualunque area territoriale può alimentare le mafie. Esse possono convivere con un livello elevato di “capitale sociale” e anche un alto senso civico non è sufficiente di per sé a tenerle lontane.

Negli Stati Uniti, infatti, per spiegare il successo di tante mafie si diede vita a una particolare teoria, la “cospirazione straniera”, che condizionò per anni il dibattito attorno alle presenze mafiose in quella nazione. Una alien conspiracy, “a volte assimilata o anche identificata con l’altro presunto complotto straniero, quello socialista o anarchico”. Salvatore Lupo ricorda che in diversi opinionisti statunitensi dell’epoca non mancò il sospetto di una complicità del governo italiano nel determinare un radicamento mafioso negli Usa, favorendo l’emigrazione di tantissimi delinquenti pericolosi così da liberarsene per sempre. In Italia si è fatto ricorso alla stessa interpretazione di comodo, cioè prima attribuendo la causa della presenza mafiosa al Nord al soggiorno obbligato di centinaia di mafiosi (con il sospetto che i vari ministri degli interni volessero liberarsi di pericolosi criminali spostandoli al Nord) e all’immigrazione di tantissimi meridionali provenienti dalle regioni “infette”. Non è affatto detto che ogni fenomeno migratorio di massa produca di per sé criminalità (il caso Argentina lo dimostra). Per quanto riguarda gli Usa ha inciso molto il divieto di consumo dell’alcool che aprì un enorme e ricco mercato ai criminali. E ha inciso moltissimo il grande consumo mondiale di droga.

Le conclusioni della Commissione del Senato americano sulla mafia

Ma i fatti sono più forti delle teorie cospirative. Il presidente della Commissione d’inchiesta sulla mafia del Senato americano, Estes Kefauver, così si espresse nel 1951 nella relazione finale: “Queste organizzazioni criminali trovarono un Paese esposto alle forti tentazioni del denaro, attraverso il quale era permesso tutto ciò che era proibito, grazie anche alla possibilità di poter corrompere le autorità di polizia. La notizia che colpì maggiormente non fu tanto la scoperta di un manipolo di mafiosi insospettabili al di sopra dei crimini commessi tra New York e Chicago, ma il coinvolgimento in queste attività della classe dirigente”. Nel suo libro Il gangsterismo in America, Kefauver scrisse che il successo della criminalità negli Usa era dovuto alla corruzione di magistrati, di rappresentanti della polizia, degli uffici governativi e ai rapporti con la politica e con uomini d’affari. Durante i lavori della Commissione, “dovunque andassimo ricompariva la triste realtà: agenti, poliziotti e investigatori che intascavano i dieci dollari di compenso per proteggere biscazzieri e altri malfattori, sceriffi e personaggi ancora più in alto cui spettava una percentuale sui profitti dei criminali loro protetti. Scoprimmo anche che somme di notevole entità provenienti da ambienti molto vicini alla malavita andavano ad alimentare la campagna elettorale di governatori di Stato. Inoltre i criminali si erano infiltrati in oltre settanta rami del commercio legittimo”.

Le campagne elettorali di diversi esponenti politici, democratici e repubblicani, erano sostenute dai boss mafiosi. Il libro di Kefauver si apre con la foto del cadavere del boss Charlie Binaggio ucciso nel club del partito democratico a Kansas City. A Chicago la Commissione d’inchiesta interrogò il poliziotto “più ricco del mondo”, che non seppe spiegare come aveva potuto fare tanti soldi nel corso della sua attività, e dovette riconoscere che a favore di Al Capone si era formato un partito trasversale composto da democratici e repubblicani. Infatti, il senatore democratico Roland Libonati era stato fotografato in compagnia di Al Capone e dei suoi guardiaspalle, mentre il deputato repubblicano dell’Illinois James J. Adducci ammise di essere amico di numerosi gangsters della banda di “Scarface” e che lo avevano sostenuto elettoralmente. Anche il sindaco di Chicago era considerato nell’orbita di influenza del boss italo-americano. Kefauver da tutti questi episodi aveva tratto queste conclusioni: “Non potrebbe esserci una vasta organizzazione criminosa senza una stabile e proficua alleanza tra coloro che manovrano le leve della delinquenza e chi manovra quelle della politica”.

Insomma, sono le condizioni locali a consentire l’espansione delle mafie in territori lontani dai loro insediamenti tradizionali; la sola presenza di mafiosi “provenienti da fuori” non basta a consentirne il successo. La teoria della colonizzazione non regge, così come quella del trapianto da luoghi arretrati a territori avanzati. Nei casi di successo dell’insediamento mafioso in luoghi “non tradizionali” è fondamentale l’ibridazione che avviene tra società locale e i “valori” di chi viene da fuori. Senza interconnessione e ibridazione tra offerta criminale e domanda di servizi illegali è difficile spiegarsi il successo delle mafie fuori dai loro luoghi di origine.

Il peso della criminalità di altri immigrati europei

In verità il mondo criminale negli Usa non era rappresentato solo dai mafiosi di origine siciliana o solo da italiani. Mai i mafiosi siculo-americani hanno avuto il monopolio del crimine negli Usa ma hanno sempre dovuto fronteggiare altre bande etniche stabilendo con loro un rapporto di scontro /alleanza che ha segnato la storia americana tra la Prima e la Seconda guerra mondiale. Si erano formate lungo le strade dell’emigrazione europea gang efficientissime di ebrei, di irlandesi, di polacchi, ma queste non potevano contare su una solida “tradizione” risalente ai loro paesi di origine: erano criminali spietati, ma non durarono nel tempo. Gli irlandesi arrivarono negli Usa attorno al 1840, dopo la spaventosa carestia che aveva colpito la loro terra d’origine. Gli ebrei arrivarono attorno al 1880 dall’Europa orientale per sfuggire ai numerosi “pogrom” (violenti e improvvisi eccidi) e all’odio razziale che li aveva sempre accompagnati. Gli italiani giunsero più tardi, precisamente tra il 1876 e il 1915. I nostri emigrati approdarono nella Grande Mela in un periodo in cui gli altri gruppi etnici avevano messo già solide radici e occupato i ruoli migliori che offriva il mercato del lavoro. Nel 1926 a New York abitavano 1 milione e mezzo di ebrei e 800.000 italiani. Durante il proibizionismo su 13 grandi contrabbandieri della città 8 erano ebrei, 4 italiani e 3 irlandesi. D’altra parte, i mafiosi italiani negli Stati Uniti non erano tutti nati in Sicilia (o non erano tutti discendenti da genitori siciliani). Alcuni avevano origini napoletane e campane (Al Capone, Franck Nitti, Joe Adonis, Vito Genovese, Joe Valachi, Franck Tieri, Thomas Eboli), altri ancora calabresi (Franck Costello e Albert Anastasia), ma il grosso veniva dalla Sicilia e in particolare dal territorio tra Palermo e Castellammare del Golfo, con un retroterra di affiliazione, di metodi, di capacità organizzativa che fecero la differenza rispetto alle altre tradizioni mafiose. Ed è singolare che negli Usa si rompe il principio che i mafiosi possono essere solo di origine siciliana. Non lo sarà Al Capone, originario della zona tra Angri e Castellammare di Stabia, non lo sarà Frank Costello, che venne considerato per anni il capo della mafia americana, non lo sarà Vito Genovese, campano della zona di Nola, e lo stesso Lucky Luciano, il boss mafioso di origine italiana più conosciuto d’America assieme a Al Capone, darà vita a una banda piena di non siciliani e di non italiani. Negli Usa il modello della mafia siciliana avrà una sua evoluzione anche se resteranno fermi alcuni principi organizzativi copiati dalle famiglie siciliane.

L’emigrazione siciliana e quella campana. Le differenze. L’affermazione di Cosa nostra

Nelle città statunitensi vivevano anche tantissimi emigrati provenienti dalla provincia di Napoli e dalle altre zone della Campania, dove erano radicate diverse organizzazioni camorristiche. La camorra napoletana sembrava più adatta ad affermarsi in una grande realtà urbana come New York, date alcune caratteristiche similari dei quartieri più poveri delle due città. E invece prevalsero i mafiosi siciliani.

A New York, l’italiano più conosciuto e influente della Little Italy, era Giosuè Gallucci nato a Napoli nel 1864 ed emigrato negli Usa nel 1892. Era proprietario di una panetteria, controllava il commercio del ghiaccio e del carbone ma soprattutto gestiva la Italian lottery, scommesse basate sui numeri della lotteria che si svolgeva in Italia, e aveva sotto di sé gran parte dei delinquenti delle strade dove vivevano i campani. Quando furono arrestati come falsari i siciliani Giuseppe Morello e Ignazio Lupo, capi della famiglia che controllava Harlem, egli pensò di estendere la sua attività nei luoghi dei siciliani, ma fu ammazzato e si aprì una guerra tra siciliani e campani sfociata nell’uccisione di Nick Terranova, il più giovane e capace della famiglia mafiosa di Corleone (fratellastro del capo Giuseppe Morello in quel periodo in carcere). Questo omicidio spostò per alcuni anni gli equilibri criminali a favore dei camorristi. Poi un pentito, Ralph Daniello, rivelò alla polizia i mandanti gli autori materiali dell’agguato e tutti i camorristi finirono in galera chiudendo così questo breve periodo di supremazia delle bande di camorra nei quartieri italiani di New York.

Fu, dunque, il modello cospirativo e segreto della mafia siciliana (che sembrava il meno adatto ad affermarsi nelle grandi città americane) a prevalere sul modello più sciolto e “chiassoso” della camorra napoletana e campana, contrariamente a quello che si poteva pronosticare.  Unica eccezione, Al Capone. E che fosse la mafia a impensierire la polizia americana e non la camorra è dimostrato dal fatto che Joe Petrosino viene inviato a Palermo e non a Napoli per stroncare i legami della mafia americana con quella italiana.

Il peso del proibizionismo

Nel 1919 entrò in vigore negli Usa il divieto di fabbricare, distribuire e vendere bevande alcoliche. Questa decisione, passata alla storia come “proibizionismo” incise enormemente sul successo della criminalità organizzata, in particolare di quella mafiosa di origine italiana. Tale divieto fece fare un balzo in avanti alla criminalità degli immigrati, cambiandone radicalmente le fortune, le opportunità, le relazioni con il mondo politico e con la pubblica opinione. Prima del proibizionismo il crimine negli Usa era in gran parte predatorio, dopo divenne crimine d’impresa. Nel periodo tra l’entrata in vigore del divieto fino alla sua cessazione (1933) le mafie americane ebbero uno sviluppo impressionante e potettero godere di un forte sostegno popolare perché bere alcol era un fatto quotidiano della popolazione e non era ritenuto un grave reato o una colpa imperdonabile. Soprattutto riuscirono ad accumulare ingenti risorse che riversarono immediatamente sia nel commercio delle droghe sia nelle attività economiche legali. Solo Al Capone aveva guadagnato con il commercio clandestino dell’alcol qualcosa come 100 milioni di dollari. Infatti, a seguito del divieto, si creò un ampio mercato clandestino controllato in gran parte dalle bande criminali e il prezzo dell’alcol andò alle stelle. Inizialmente l’alcol trasformato veniva dal Canada e dal Messico e introdotto negli Usa di contrabbando, ma poi cominciò la produzione in diverse zone degli Stati Uniti, gli alcolici venivano venduti clandestinamente negli empori e bar, infine furono fondati appositi club ad accesso controllato dove si potevano consumare quasi normalmente con la copertura della polizia. Solo a New York nacquero 30.000 di questi club che superarono di gran lunga il numero di bar dell’intera città. Il proibizionismo dell’alcol fu uno dei più gravi errori nella storia della lotta al crimine e alle mafie perché fornì loro legittimazione, consenso e capitali che ne fecero una delle criminalità a maggiore consenso e a maggiore disponibilità di soldi prima dell’avvento del consumo di massa di droghe.

Lo sbarco dell’esercito alleato nel 1943 in Sicilia

È indubbio che alla legittimazione della mafia nell’immediato Secondo dopoguerra concorsero anche i rappresentanti dell’esercito alleato dopo lo sbarco in Sicilia nel 1943. Sul piano storico non si hanno certezze definitive di una collaborazione dei mafiosi anche per le operazioni logistiche di sbarco, né è stato accertato che fu la sperata collaborazione con essi che spinse a scartare l’ipotesi di uno sbarco in Sardegna più funzionale a spaccare il fronte militare tra Nord e Sud d’Italia e prendere ancora di più di sorpresa l’esercito tedesco. Un ruolo di Lucky Luciano, liberato dalla prigione dalla marina americana perché aiutasse a trovare le spie tedesche nel porto di new York, non è stato storicamente dimostrato nello sbarco in Sicilia.

Nel 1943 la Sicilia diventa dal punto di vista militare un luogo centrale al pari di Malta, Suez e Gibilterra. Uno degli snodi della storia del Novecento. Gli Alleati avevano il serio problema di convincere i siciliani che il loro sbarco era una liberazione dai nazifascisti e non un’invasione o un’occupazione di un esercito nemico. E cominciarono a reclutare personale italo-americano nei servizi segreti in grado di far passare tale percezione nella popolazione. Da questo punto di vista, i contatti con i mafiosi ancora radicati nei loro paesini, nonostante la repressione del periodo fascista, erano possibili solo grazie all’intermediazione dei loro confratelli mafiosi americani, che avevano numerosi parenti tra le fila dell’esercito statunitense.

È indubbio che anche senza la collaborazione della mafia gli alleati sarebbero comunque sbarcati in Sicilia e avrebbero portato a termine l’operazione Husky, ma averla coinvolta nella gestione del dopo-sbarco è stato un contributo al suo rafforzamento. Vedere l’esercito più forte al mondo che si serve dei mafiosi, vedere i futuri vincitori della guerra che li scelgono come punto di riferimento del governo locale avrà conseguenze notevoli nella storia della mafia e dell’Italia. La guerra e gli Alleati, in particolare esponenti dell’esercito statunitense, furono decisivi per una rilegittimazione della mafia.

Sicuramente la ripresa della mafia nell’immediato Secondo dopoguerra non bisogna attribuirla solo allo sbarco alleato nel 1943 in Sicilia, né a “un grande complotto” dei servizi segreti americani in combutta con Lucky Luciano e con i capi mafiosi sopravvissuti al fascismo. Salvatore Lupo ha smentito la favola di uno sbarco in Sicilia a cui la mafia siculo-americana avrebbe contribuito fisicamente e logisticamente nel libro intitolato, appunto, Il mito del grande complotto. Gli americani, la mafia e lo sbarco in Sicilia del 1943.

Precisato questo, è indubbio che tutto ciò che avvenne dopo lo sbarco ebbe a che fare con un’opera continua di legittimazione dei mafiosi che li fece uscire dal cono d’ombra in cui erano stati costretti durante il regime e consentì loro di riprendere quel ruolo che avevano svolto prima del fascismo e che accresceranno a partire dal Secondo dopoguerra. Un ruolo dettato sia dall’avvio in anticipo in Sicilia della guerra fredda rispetto all’inizio ufficiale nel 1947, con l’utilizzo dei mafiosi in molte amministrazioni locali grazie alla nomea di antifascisti che si erano auto-attribuita con gli anni di galera e il confino di polizia subiti durante il regime, sia come i più spietati anticomunisti, pronti a qualsiasi azione delittuosa pur di bloccarne l’accesso al potere in Sicilia e in Italia.

Il peso del traffico di droghe. Il summit all’Hotel delle Palme di Palermo e la riunione di Apalachin

Nell’immediato Secondo dopoguerra le relazioni tra mafia siciliana e Cosa nostra americana si incrementarono. Soprattutto a causa del grande mercato della droga che trovava negli Usa uno dei principali mercati di consumo. La Sicilia non era (e non è) produttrice di oppio, non era (e non è) collocata vicino ad aree di coltivazione di oppiacei, non era (e non è) geograficamente in posizione baricentrica tra le zone produttrici e quelle di consumo di eroina, eppure è stata un’isola fondamentale nella storia contemporanea del traffico delle droghe. Questo ruolo non lo ha assunto, dunque, per ragioni geografiche, ma grazie al fatto che i mafiosi siculo-americani ad un certo punto del Novecento monopolizzeranno la vendita nella principale nazione consumatrice di eroina (cioè, appunto, gli Usa) e affideranno ai cugini italiani l’approvvigionamento e la trasformazione dell’oppio in eroina attraverso l’istallazione nell’isola di laboratori di raffinazione.

I mafiosi di Cosa nostra americana erano riusciti a sottrarre il monopolio ai francesi (in particolare ai clan corso-marsigliesi) che avevano occupato la scena dei commerci internazionali di eroina fino agli anni Settanta del Novecento grazie ai rapporti con le loro colonie nel Sud-Est asiatico, a partire dal cosiddetto “triangolo d’oro” (Birmania, Laos e Thailandia) che con l’Afghanistan rappresentava la maggior parte della produzione mondiale di oppiacei. L’azione congiunta della Fbi e dei servizi segreti francesi (su input di Nixon e De Gaulle) aveva consentito di sgominare i clan del porto di Marsiglia con l’operazione “French Connection”. Da quel momento in poi prenderà corpo il ruolo internazionale della mafia siciliana grazie, appunto, al rapporto con i cugini americani e grazie a questi nuovi equilibri geopolitici nel campo criminale.

A Palermo nel 1957 si svolse all’Hotel delle Palme un summit tra i vertici della mafia siciliana e di quella statunitense. Un vertice che ha cambiato la storia della mafia siciliana e dato una svolta al traffico internazionale di stupefacenti, perché i mafiosi americani cedettero ai cugini siciliani l’approvvigionamento del mercato statunitense di eroina a causa delle forti pene che il governo americano aveva emanato contro i trafficanti di droga. All’incontro parteciparono l’allora capo della mafia siciliana Giuseppe Genco Russo in compagnia di altri boss siciliani, Joe Bonanno, capo della più importante famiglia mafiosa degli Usa (assieme ad altri boss siculo-americani) e Lucky Luciano, il più importante rappresentante della mafia siculo-americana della storia, in quel tempo “esiliato” a Napoli. Poche settimane dopo si svolse un summit ad Apalachin nello Stato di New York di tutte le famiglie mafiose americane per ratificare l’accordo stipulato a Palermo. Il vertice fu interrotto dalla polizia statunitense e molti boss furono arrestati, mentre i partecipanti all’incontro di Palermo, durato alcuni giorni, non furono né disturbati né registrati. Si era mossa una parte importante dello stato maggiore di Cosa nostra americana e ciò non fu segnalato alle autorità statunitensi se non dopo un anno. Genco Russo si accompagnava a diversi mafiosi siciliani e i nomi non furono registrati dai due funzionari inviati sul posto dalla Questura. “Una superficialità senza limiti”, la definirono i commissari dell’Antimafia nel loro rapporto sull’evento nel 1976. E continuarono: “Se quegli sconosciuti partecipanti al vertice palermitano fossero stati individuati, si sarebbe avuto [vent’anni prima] un quadro più preciso della evoluzione della nuova mafia… Le indagini si riducevano a prassi burocratiche prive di seri impulsi e di ogni razionale coordinamento, con sfasature da un ufficio all’altro che rasentano il farsesco”. Fu quello uno dei più clamorosi casi di ignavia della polizia italiana.

Pizza connection e il ruolo di Giovanni Falcone

La totale impreparazione della polizia e della magistratura italiana nei confronti del ruolo assunto dalla mafia siciliana nel traffico internazionale di stupefacenti si interrompe con l’azione del capo della squadra mobile di Palermo Boris Giuliano e del magistrato Giovanni Falcone. È Giuliano a comprendere, dopo 20 anni dall’inizio del traffico tra Sicilia e Usa che tra le due parti dell’Oceano viaggiano droghe e narcodollari e che in Sicilia si trasformava la morfina in eroina. Giuliano aveva intercettato all’aeroporto di Punta Raisi una valigia imbottita con 600mila dollari che un addetto all’aeroporto avrebbe dovuto ritirare. Giuliano pagò con la vita la sua scoperta: nel 1978 fu assassinato. E proprio in quegli anni si muoveva il siciliano Michele Sindona tra Usa, Milano e Sicilia, intento a riciclare i narcodollari attraverso la sua banca con sede negli Usa, la banca vaticana (lo Ior) e quella presieduta da Guido Carli (Banco Ambrosiano). Anche Sindona era parte importante della interconnessione mafiosa tra Usa, Italia e Sicilia, ne rappresentava la parte finanziaria.

E se fino agli anni Settanta del Novecento c’era stata scarsa collaborazione tra gli inquirenti italiani e quelli statunitensi nel colpire congiuntamente i mafiosi siciliani e americani, le cose cambiarono quando l’opinione pubblica cominciò a sentire i trafficanti di droghe come i principali nemici della loro tranquillità e della salute dei loro figli. Le preoccupazioni per l’invasione della droga sul mercato Usa convinsero gli americani che quella fosse la priorità rispetto alla tradizionale copertura anticomunista alla mafia siciliana.  Nixon aveva impostato la sua campagna presidenziale sulla promessa di stroncare il traffico internazionale tra Asia-Europa e Usa, e in parte ci riuscì, come abbiamo visto. Ma aveva colpito più i francesi che i siciliani.  A quel punto fu chiaro ai servizi d’intelligence americani che il problema stava nella connessione tra Sicilia e Usa. La cosiddetta inchiesta Pizza Connection sviluppatasi tra il 1979 e il 1984, lo dimostrava ampiamente.  L’FBI e l’Agenzia antidroga degli Usa (la DEA) si misero a seguire le spedizioni di droga che dalla Sicilia arrivavano nelle pizzerie delle grandi città americane nascoste tra gli alimenti. Negli anni successivi Giovanni Falcone ebbe la possibilità di collaborare con importanti magistrati e investigatori statunitensi interessati a bloccare il flusso di eroina dalla Sicilia che negli anni Ottanta aveva toccato livelli estremamente preoccupanti, con l’altissimo numero di vittime per overdose negli Stati Uniti e nel resto del mondo. E nel maxiprocesso di Palermo, il primo che ruppe l’impunità dei mafiosi, Falcone e Borsellino usarono le acquisizioni degli investigatori americani e le confessioni di Tommaso Buscetta che della connessione tra le due sponde dell’Atlantico era stato un fine tessitore. E non va dimenticato, che furono proprio gli apparati di sicurezza statunitensi a suggerire a Falcone e all’allora ministro della Giustizia Claudio Martelli la necessità di una legge sui collaboratori di giustizia, simile a quella che era stata varata negli Usa e che aveva dato ottimi risultati.

Questo articolo è stato pubblicato su Repubblica il 3 novembre 2024

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