I magistrati ammazzati dalle mafie

di isaia Sales /
24 Maggio 2022 /

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Su 14 magistrati ammazzati dalle mafie, ben 13 sono meridionali (tra cui 11 siciliani). Su 171 rappresentanti delle forze dell’ordine vittime di attentati o morti in scontri frontali con le organizzazioni mafiose, più dell’80 per cento sono meridionali. In nessun altro frangente storico o nella lotta ad altri “nemici” dello Stato il peso degli uomini del Sud è stato così determinante come nella lotta alle mafie. Non lo fu nella lotta al brigantaggio che vide un ruolo centrale dell’esercito che all’epoca era composto in gran parte da centro-settentrionali e guidato principalmente da piemontesi; non lo fu nella guerra di resistenza al nazi-fascismo per ragioni geo-militari (il Sud fu liberato prima dagli Alleati e lo scontro con l’esercito tedesco in ritirata e con gli uomini della repubblica di Salò si concentrò nel territorio del Centro-Nord); mentre durante la lotta al terrorismo subirono attentati e persero la vita 11 magistrati, di cui 5 meridionali.

Quindi, se il Sud ha prodotto le mafie, ha prodotto anche gli uomini che le hanno combattute; se la Sicilia è stata la regione protagonista della nascita e dello sviluppo della mafia più invasiva, è stata anche la regione che ha schierato alcuni dei suoi uomini migliori a contrastarla e a combatterla. Questa idea che i siciliani e i meridionali hanno solo subito le mafie e che anzi in massa le hanno sostenute attivamente non regge sul piano storico. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono solo la più clamorosa e dolorosa smentita di questo assurdo teorema.

Tra febbraio e luglio di quell’indimenticabile 1992 l’Italia intera si accorse drammaticamente che non erano garantiti né “il monopolio legittimo della forza” da parte dello Stato né quello della tassazione. Il duopolio della violenza in alcuni territori era evidente se si potevano, nel giro di pochi mesi, compiere attentati di quelle dimensioni ai due magistrati più impegnati nella lotta a Cosa nostra senza che ciò potesse essere impedito da parte delle forze di sicurezza preposte. Mentre a Milano l’inchiesta denominata Mani pulite dimostrava l’esistenza nei fatti di una tassazione alternativa pagata ad esponenti del mondo politico locale e nazionale in cambio di appalti di opere pubbliche e servizi.

Altre nazioni erano corrotte, altre nazioni vedevano spietate bande criminali in azione, ma in nessuna di esse esisteva la contemporanea presenza di due forme permanenti di esercizio della violenza (una legittima e l’altra mafiosa) e di tre forme di tassazione (cioè imposte, estorsioni e tangenti). Si era formato e consolidato nel tempo un governo extralegale della violenza e della tassazione.

Sia le mafie sia la corruzione chiamavano in causa le qualità morali delle classi dirigenti italiane, due patologie delle élite politiche, burocratiche e imprenditoriali del nostro Paese. Per questi motivi, la lotta alle mafie è diventata nel tempo sinonimo di lotta alle degenerazioni del sistema politico, in particolare al Sud.

La reazione emotiva all’uccisione di Falcone e Borsellino ebbe effetti politici immediati, sia nel determinare la non elezione di Giulio Andreotti a presidente della Repubblica sia nel portare alla guida di tanti Comuni meridionali personalità politiche che avevano legato la loro vita all’intransigente opposizione a quel sistema in cui erano coinvolti corrotti e mafiosi. Nel Sud, a partire dalla Sicilia, la breve stagione di rinnovamento politico (1993-2001) partì dai valori antimafia piuttosto che da un generico bisogno di ricambio politico come avvenne nel Nord.

Fu la questione morale e il bisogno di una politica autonoma dalle mafie ad orientare il voto, una cosa inimmaginabile fino a qualche tempo prima. In quel periodo il giudizio morale sui candidati valeva più di ogni altra considerazione, ad essi si rivolgeva una pretesa di “correttezza sovversiva”. Dunque, il movimento d’opinione antimafia è stato il più vasto e significativo “scuotimento” civile di pezzi importanti della società meridionale, consolidando un’autonoma opinione pubblica caratterizzata dalla preoccupazione civica per la propria collettività.

La Sicilia nei momenti più delicati della sua vicenda storica ha prodotto uomini e donne che sembrano tutto il contrario dello stereotipo diffuso, come appunto Falcone e Borsellino e tanti altri prima e dopo di loro. Sobri e schivi non perché diffidenti; dai ritmi e dalle capacità di lavoro sorprendenti; legati allo Stato e non a chi rappresenta il potere; con il senso del dovere superiore agli interessi della propria famiglia: insomma “uomini d’onore” se con questa parola si vuole segnalare chi è coerente con i propri valori e non li cambia anche di fronte al pericolo della vita. Fedeli a uno Stato di cui potevano a ragione diffidare, perché la loro fedeltà allo Stato coincideva semplicemente con la fedeltà a sé stessi.
 

Questo articolo è stato pubblicato su Repubblica il 15 maggio 2022

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