L’alfabeto delle mafie. “R” come Riciclaggio

di Isaia Sales /
7 Giugno 2024 /

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Com’è ampiamente noto, nella dimensione imprenditoriale non esiste un confine sicuro, certo e invalicabile tra attività legali, illegali e criminali. L’inconciliabilità tra questi tre campi dell’agire economico sembra essere più una pia aspirazione che una certezza scientifica. Nella prassi la compatibilità e un loro reciproco adattamento sembrano prevalere.

Infatti, contrariamente ai dettami del pensiero economico classico, le attività illegali o in nero (produzione senza il rispetto delle leggi, con lavoratori non in regola, di merci che comunque vanno sul mercato legale) o criminali (produzione e commercializzazione di merci proibite dalle leggi, ad esempio le droghe) non sono classificabili solo come improduttive, predatorie o parassitarie. Al di là del furto, della rapina, dello scippo (attività predatorie per eccellenza) le attività non conformi alle leggi possono essere sostenute da uno sforzo imprenditoriale e anche da una solida organizzazione aziendale al pari di quelle legali. Tra ciò che è illegale, criminale e produttivo non c’è nei fatti nessuna contrapposizione insanabile. Si può essere anche “capaci” imprenditori pur operando fuori dalle leggi e usando la violenza per competere. I traffici delle droghe ne sono la più convincente dimostrazione, appunto.

Chi opera nell’economia illegale e criminale ha però un problema: come riutilizzare i profitti della propria attività. Mentre un imprenditore legale lo può fare senza problemi se rispetta, appunto, le norme in materia, un imprenditore illegale e (ancora di più quello criminale) non può farlo. I suoi guadagni sono avvenuti in settori e con procedure vietati dalle leggi e quindi se individuati possono essere anche sottoposti a sequestro e confisca. Nel passato, quando non esistevano norme specifiche per bloccare il riuso di soldi provenienti da attività illegali, i mafiosi reinvestivano in immobili intestati a familiari o attraverso compartecipazioni in imprese (soprattutto nel campo edilizio) utilizzando prestanomi o depositandoli direttamente in banca.

Gravi responsabilità ci sono state, al riguardo, sia tra gli imprenditori dell’edilizia sia nel sistema bancario siciliano, campano e calabrese. Non solo vennero autorizzati, ad esempio, tanti sportelli in numero assolutamente sproporzionato in rapporto all’economia legale dei territori interessati, ma ben quattro istituti bancari tra i primi in Italia furono implicati nel riciclaggio dei fratelli Caruana e della famiglia Cuntrera, leader mondiali dei traffici di droga in quegli anni. Dalla fine della Seconda guerra mondiale al 1964, il Banco di Sicilia, ad esempio, si era dimostrato terreno fertile per lo strapotere politico-mafioso: dal 1946 al 1964 il 30 per cento delle assunzioni “ha avuto origini in interventi di mafia o per appartenenza a famiglie di pregiudicati o comunque su segnalazioni di capi-mafia”, come scriveva Pantaleone in Antimafia occasione mancata. Da sottolineare che la Banca d’Italia non si costituì parte civile contro i dirigenti del Banco di Sicilia, dopo lo scandalo che lo investì nel 1966, con l’arresto del presidente Carlo Bazan e il rinvio a giudizio di altri ventiquattro imputati accusati per peculato continuato e aggravato, falso in bilancio, distrazione di somme, interesse privato. Tra gli imputati anche Salvo Lima (dirigente della banca) e altri maggiorenti democristiani.

Dal 1952 al 1975 l’incremento medio delle attività delle banche in Italia fu dell’83% mentre in Sicilia sarà del 586%! Gli sportelli in Italia videro un incremento del 51%, ma nello stesso periodo in Sicilia si arrivò al 216%! Possibile che in Banca d’Italia non si siano posti interrogativi su questi dati? Da dove veniva questa improvvisa ricchezza? Forti sono le responsabilità della Banca d’Italia di quegli anni per i mancati controlli sugli sportelli che si andavano ad autorizzare. D’altra parte, va ricordato, che in Italia non ci sono state indagini patrimoniali fino alla metà degli anni Ottanta del Novecento quando già da tempo nel circuito bancario e finanziario erano stati immessi ingenti capitali mafiosi. Nel periodo del controllo del traffico di eroina tra Sicilia e Usa da parte di Cosa nostra ci fu la totale permeabilità del sistema bancario italiano controllato dallo Stato nel riciclaggio di cospicui capitali criminali.

Va sempre ricordato che il “segreto” bancario è stato di grande aiuto all’espansione delle mafie e ha rappresentato un incentivo permanente per il riciclaggio dei denari mafiosi. Così come oggi lo sono i cosiddetti “paradisi fiscali”, come vedremo più avanti. Fino al 1982 non era concepibile che la Guardia di Finanza mettesse il naso nelle banche. Un vantaggio di almeno trent’anni anni è stato concesso in Italia ai capitali mafiosi. E’ del tutto evidente che nel campo del capitalismo criminale non è possibile nessun successo senza l’appoggio del sistema bancario, non solo nel prestare soldi ma nell’occultarli e riciclarli. Senza il feticcio del segreto bancario da tutelare a tutti costi, la mafia sarebbe stata meno forte. Non dimentichiamo inoltre che al Nord, in particolare a Milano, capitali mafiosi entrarono nel campo delle nuove costruzioni e nei nuovi quartieri della città, senza trovare particolari contrasti.

Poi, dopo l’introduzione delle norme antimafia volute da Pio la Torre, i mafiosi sono stati obbligati a cambiare radicalmente linea. Il riciclaggio dei capitali è diventato, così, un obbligo perché un guadagno nell’economia illegale è praticamente nullo fino a quando non vengono nascoste le tracce della sua provenienza. Il riciclaggio diventa allora un’assoluta necessità per i criminali se vogliono riutilizzare nell’economia legale ciò che hanno accumulato nell’economia illegale.

Ma il riciclaggio non è affatto un’invenzione dei mafiosi. Essi hanno trovato il campo già aperto dalle imprese e dai possessori (non criminali) di capitali, i quali avevano bisogno di sottrarre la loro ricchezza alla tassazione degli Stati in cui vivevano e dove avevano sede le loro aziende. Così, per consentire ai grandi gruppi imprenditoriali, o ai grandi possessori di capitali, di nascondere i profitti ai fini dell’elusione della tassazione nazionale, si è permesso un canale privilegiato per occultare e riciclare anche la ricchezza illecita dei mafiosi.

Il riciclaggio non nasce, quindi, per le esigenze dei mafiosi, ma i mafiosi hanno trovato la porta aperta dai grandi gruppi capitalistici e dai grandi evasori che si sono inventati modalità di occultare i guadagni e di riciclarli, modello di comportamento copiato poi anche dai criminali. Anzi, diciamola tutta, i mafiosi si sono serviti spesso degli stessi professionisti che si erano specializzati in materia. Il riciclaggio mafioso sarebbe stato impossibile senza il precedente dell’elusione fiscale dei grandi gruppi industriali.

Infatti, i criminali sono solo alcuni degli attori dei reati economici non gli esclusivi. Riciclaggio, evasione fiscale, lavoro sommerso, non hanno il marchio ‘mafie’. Ma i capi di Cosa nostra, camorra e ’ndrangheta praticano gli stessi circuiti illegali e usano le stesse tecniche legali usate dagli evasori fiscali, dai corrotti e da tutti coloro che hanno interesse ad occultare la propria ricchezza. Il mezzo (riciclaggio) e il fine (occultamento per potere reinvestire o utilizzare e godersi legalmente quanto è stato nascosto) sono uguali. Cambiano solo i soggetti o le definizioni di essi (corrotti, corruttori, evasori, criminali, mafiosi). Senza il grande campo dell’economia illegale non si potrebbe spiegare il successo delle mafie nell’odierna economia globalizzata.

Quanto vale l’economia illegale?

Intanto, chiediamoci: quanto vale l’economia illegale, in Italia e nel mondo? Darne una misurazione precisa non è facile. I calcoli non sono semplici, perché parlare di economia illegale significa parlare di attività economiche che sfuggono alla legge ma non sono tutte criminali (nel senso che non tutti i protagonisti usano la violenza o trasformano e vendono droghe) e per questo motivo le stime di esse possono essere solo approssimative. In gran parte i dati derivano da quanto viene scoperto dalle Forze dell’Ordine e quindi il fenomeno è in genere sottostimato. Ma alcune cifre fornite da attenti osservatori sono davvero imponenti, impressionanti.

Il peso dell’economia non “osservata” in Italia (costituita dalle attività economiche di mercato che, per motivi diversi, sfuggono ai controlli e alle statistiche ufficiali) è considerata pari al 20,6% del Pil, cioè più di 310 miliardi di euro, un quinto dell’economia italiana. Nel solo Sud vale poco più di 100 miliardi di euro (il 28,6% del Pil). Ma, se a questo dato si aggiunge l’economia strettamente criminale/mafiosa, oltre a quella già calcolata nel Pil (dal 2014 nella ricchezza nazionale di ogni Stato membro dell’Unione europea si calcolano anche i proventi derivanti da prostituzione, contrabbando di sigarette e commercio di droghe), si arriva nettamente al di sopra di un quarto dell’economia italiana! La dimensione del riciclaggio secondo dati del 2015, in Italia superava il 10% del Pil.

C’è un altro dato da cui è possibile ricavare elementi importanti a proposito del peso dell’economia illegale: le segnalazioni di operazioni sospette di riciclaggio all’Uif (Unità di informazione finanziaria, operante presso la Banca d’Italia). Naturalmente una segnalazione non è sinonimo di reato, ma i numeri sono davvero imponenti. Nel secondo semestre 2023 sono pervenute alla Uif 72.811 segnalazioni di operazioni sospette, 72.650 sono legate a fenomeni di riciclaggio, 156 sono legate al finanziamento del terrorismo. Solo tra il 2007 e il 2014 ce ne sono state ben 325.000 da parte di intermediari finanziari, professionisti e altri operatori privati. Si tratta di uno dei dati più elevati in Europa, con la Lombardia e il Lazio che precedono ampiamente in classifica le regioni a più alta presenza mafiosa.

Spesso appare quasi inestricabile l’intreccio tra profitti delle attività criminali e profitti di attività imprenditoriali acquisite originariamente con capitali riciclati ma poi gestite con modalità lecite. Secondo una stima di qualche anno fa della Banca mondiale il denaro illecito che transita in gran parte delle banche dei Paesi occidentali e sui mercati finanziari internazionali si aggira sui 1.600 miliardi di dollari. E quanto “fattura” il riciclaggio in Italia? «Con un fatturato di 150 miliardi di euro, la holding del riciclaggio è la prima azienda del Paese, davanti ad un colosso come Eni!» ha sostenuto Pietro Grasso nel libro-intervista (con Enrico Bellavia) Soldi sporchi.

A proprio agio nell’economia globalizzata e finanziarizzata

Nell’epoca dell’economia globalizzata e finanziarizzata è più evidente l’egemonia del potere economico su quello politico e la separazione quasi definitiva dell’economia dal diritto. La fine degli Stati nazionali e delle economie nazionali ha rappresentato anche la fine del compromesso storico tra regole ed economia, tra diritto e mercato. Mentre dentro gli Stati nazionali il tentativo del diritto di regolare il mercato, di contenere le sue manifestazioni più animalesche e la sua sostanziale amoralità, in parte era riuscito, dentro l’economia globalizzata il mercato si è tolto definitivamente da dosso il cappio o le briglie del diritto. Il mercato si è così trasformato in un ‘non luogo del diritto’, sicché sembra corretto affermare che «il capitalismo finanziario della globalizzazione ha sconfitto definitivamente, almeno per ora, il diritto», secondo il parere di Guido Rossi.

E di ciò ne hanno approfittato le criminalità organizzate. La maggiore presenza nell’economia globalizzata di esse (come mai era avvenuto all’interno dell’economie nazionali) è una delle conseguenze, non la sola naturalmente, del divorzio netto tra diritto e mercato. «Il diritto va in vacanza e spesso giustifica e approva», ha scritto sempre Guido Rossi, continuando poi: «Il diritto è stato piegato riducendolo a pericoloso o comunque fastidioso ostacolo frapposto al raggiungimento dei propri scopi e alla soddisfazione dei propri interessi». Ciò che risulta maggiormente inquietante è che le più terribili architetture finanziarie che hanno messo in ginocchio migliaia di risparmiatori o che hanno illuso milioni di compratori a debito sono avvenute «non nella violazione, ma nel pieno rispetto delle regole del mercato finanziario».

L’economia globalizzata caratterizzata dal dominio della finanza sulla produzione ha garantito le peggiori appropriazioni lecite e illecite di ricchezza altrui. Il guadagno senza scrupoli, che pure è stato una costante della storia passata, ha trovato una legittimazione che impressiona, perché, mentre nelle epoche precedenti, il profitto individuale raggiunto con qualsiasi mezzo era comunque legato all’economia come sistema di produzione, oggi è totalmente sganciato da essa. John Kenneth Galbraith, in un suo famoso saggio, ha definito quella odierna come “economia della truffa”, evidenziando il formarsi di un capitalismo finanziario del tutto nuovo, delocalizzato, invisibile e irresponsabile che favorisce la scomparsa del confine tra lecito e illecito.

Gran parte della finanza illecita o criminale è stata finora protetta dal segreto bancario e dall’uso improprio del diritto alla privacy attraverso reti occulte che trasferiscono enormi quantità di denaro in tutti i Paesi dell’economia globale, soprattutto da e verso i cosiddetti “paradisi fiscali”. E nei ‘paradisi fiscali’ hanno operato e operano ben 10.000 sedi di banche! La vicenda dei Panama papers nel 2016 ha riproposto all’attenzione pubblica questa questione. Com’è noto i papers sono una lista resa pubblica dal “Consorzio internazionale di giornalismo investigativo”. Tale elenco contiene i dati relativi a 214.000 società create in diversi centri off-shore facenti capo a 360.000 persone di 200 Paesi. E ciò non è una novità: già negli anni precedenti si erano verificate analoghe fughe di notizie da altri ‘paradisi fiscali’. Si possono ricordare: una lista di 4.500 nomi di correntisti di banche del Liechtenstein (di cui 1.400 tedeschi), tra questi vi erano anche quelli di cittadini italiani ‘eccellenti’; la cosiddetta lista Falciani: oltre 130.000 nomi sottratti alla filiale di Ginevra della banca inglese HSBC; oppure il caso Luxleaks, che riguarda accordi fiscali tra le autorità del Granducato e singole imprese multinazionali al fine di ridurre l’imposizione nel Paese di residenza, tra queste figurano imprese come Ikea, Pepsi, Apple, Amazon, Gazprom, J.P. Morgan, Deutsche Bank, ecc; sono presenti anche 31grandi imprese italiane. Liste ‘nere’ molto cospicue che danno il senso della situazione attuale dell’economia e del ruolo che in essa hanno i ‘paradisi fiscali’.

Cosa sono i paradisi fiscali

Che cosa sono i ‘paradisi fiscali’? Così li ha definiti Vincenzo Visco: « luoghi a bassa o nulla tassazione in cui è possibile collocare i propri risparmi in condizioni di sicurezza». Ma le loro funzioni sono molto più ampie. Essi, infatti, forniscono condizioni di segretezza, la possibilità di eludere la regolamentazione finanziaria (relativa alle società per azioni, alle banche, alla borsa, alle assicurazioni) e di aggirare la normativa di altre giurisdizioni (per esempio in materia di riciclaggio, eredità, divorzio). Servono a «riciclare o ripulire capitali di dubbia provenienza, a garantire l’anonimato dei titolari, a evitare il pagamento delle imposte, ad eludere le normative nazionali, a poter operare in un contesto privo di regole e controlli». Secondo Nicholas Shaxson, giornalista britannico, autore del libro Le isole del tesoro, più della metà del commercio mondiale passa, almeno sulla carta, attraverso i ‘paradisi fiscali’. Oltre la metà di tutti gli attivi bancari e 1/3 dell’investimento diretto estero effettuato dalle imprese multinazionali vengono dirottati offshore. Circa l’85% delle emissioni bancarie e obbligazionarie internazionali si svolgono nel cosiddetto ‘euromercato’, una zona off-shore extraterritoriale. Le risorse collocate nei ‘paradisi fiscali’ «derivano per 1/3 da attività criminali in senso stretto, per alcuni punti percentuali da proventi della corruzione, e per la parte restante da evasione ed elusione fiscale. In altre parole, nei ‘paradisi fiscali’ soldi ‘puliti’ non ce ne sono, e quindi il silenzio è essenziale».

I paradisi fiscali possono essere classificati in tre gruppi principali: quelli europei (Svizzera, Lussemburgo, Olanda, Liechtstein, Austria, Belgio, Principato di Monaco, S. Marino, Andorra, Madeira, Cipro, e il Vaticano (tramite la sua banca, lo Ior); quelli che fanno capo alla Gran Bretagna e a tutte le nazioni dell’ex impero britannico, che sono estensioni ed emanazioni della City londinese (Jersey, Guersney, Isola di Mann, Gibilterra, Isole Cayman, Bermuda, Isole Vergini Britanniche, Isole Turks e Caicos). Nell’area di influenza britannica ci sono pure Paesi come Hong Kong, Singapore, le Bahamas (qui già negli anni Trenta il criminale americano di origine ebraica Meyer Lansky, l’inventore di Las Vegas come città del gioco, riciclava i proventi della mafia americana) Dubai e l’Islanda; quelli che fanno capo agli Stati Uniti: alcuni Stati americani (il Deleware, il Wyoming, il Nevada, il South Dakota) e Paesi legati agli Usa quali le Isole Vergini Americane, le Isole Marchall, la Liberia, e soprattutto Panama, che è diventata la centrale del riciclaggio dei narcodollari.

Questo sistema off-shore è di fatto controllato dalle principali banche del mondo: dieci di esse hanno contribuito fortemente a crearlo (Ubs, Credit Suisse, Goldman Sachs, Bank America, HSBC, BNP Paribas, Wells Fargo, Morgan Stanley/SSB, JP MorganChase). L’entità della ricchezza detenuta off-shore è stimata tra i 21.000 e 32.000 miliardi di dollari, ben al di là dei 18.000 miliardi che rappresentano il Pil degli Stati Uniti.

La finanza off-shore di per sé non è criminale, ma favorisce le reti criminali con le sue “libertà”, costituendo “buchi neri” perfettamente leciti che sfuggono ai controlli della autorità giudiziarie. Infatti, con tali società spesso si nascondono perdite di bilancio o altre operazioni illecite e si dà vita a speculazioni o riciclaggio che passano quasi sempre attraverso i ‘paradisi fiscali’. Questi ultimi, grazie alla tassazione fortemente ridotta sui redditi, danno tutela e rifugio alla criminalità di tutto il mondo, attirando molti capitali nelle loro banche, le quali, per altro, e questo non è un dettaglio né una informazione di minore importanza, hanno un segreto bancario molto rigido. Ciò significa che tali istituti bancari non sono tenuti a rendere conto della provenienza del denaro: le transazioni sono coperte, non c’è trasparenza e soprattutto non c’è scambio di informazioni con gli altri Paesi. I paradisi fiscali quindi sono “neutrali”, assolutamente indifferenti alla origine dei capitali. Accolgono tutto il denaro senza discriminazione: quello criminale, quello legale e quello mafioso. «Quando un capitale di provenienza sospetta prende le strade di un pacchetto azionario, di una tranche di buoni del tesoro, di un complesso immobiliare, diventa semplicemente un capitale, destinato a riprodursi, a creare nuove ricchezze», ricorda ancora Grasso. Infatti, è proprio attraverso il passaggio per tali Paesi che il danaro mafioso torna poi pulito a disposizione dei boss in Italia. Ma il riciclo ha un costo, tanto che si potrebbe parlare per i mafiosi più che di paradisi di “purgatori fiscali”. Purgatori di cui i mafiosi non possono fare a meno: hanno bisogno del riciclaggio che è «il nucleo stesso della criminalità organizzata», poiché «senza il riciclaggio il denaro delle mafie sarebbe un ricavato inerte». I proventi criminali hanno un potere di acquisto solo potenziale che il riciclaggio ha la funzione di trasformare in effettivo, argomenta ancora Pietro Grasso. <<Il riciclaggio rappresenta un ponte fra criminalità e società civile che offre ai criminali gli strumenti per essere accolti e integrati nel sistema, arrivando a sedere nei Consigli di amministrazione e a contribuire all’assunzione di decisioni economiche e sociali rilevanti>> .

È nel riciclaggio che si opera la più grande contiguità tra sistemi criminali e meccanismi legali di gestione del danaro, ed è il riciclaggio la più grande dimostrazione che tutto l’armamento costruito per occultare le ricchezze e favorire l’anonimato è stato assolutamente funzionale ai giochi delle mafie. E lo debbono tenere ben presente non solo gli economisti.

Infatti, la necessità di un riciclaggio per i mafiosi e per i criminali si determina solo se essi hanno in mano traffici illegali che producono alti profitti. Non è un caso che il primo riciclaggio in epoca moderna di capitali illegali è avvenuto negli Stati Uniti durante il Proibizionismo che comportò il controllo del mercato di massa dell’alcool in mano alle bande di gangster e la necessità di ripulire e poi reinvestire i capitali acquisiti, che non potevano essere utilizzati solo per consumi lussuosi. E così i mafiosi americani (e non solo quelli di origine italiana) si tuffarono in tante attività legali, tra cui il controllo delle lavanderie, di locali commerciali, ristoranti, alberghi e case da gioco.

In questo momento storico è il traffico di stupefacenti, in mano a clan mafiosi in gran parte del mondo, che produce profitti così vertiginosi da imporre necessariamente la ripulitura per chi li accumula. Secondo le stime dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine (UNODC), ogni anno vengono riciclati tra gli 800 miliardi e i 2 trilioni di dollari, circa il 2-5 % del PIL globale. In Italia, stando alle statistiche della Banca d’Italia, le attività di riciclaggio possano ammontare a 140 miliardi l’anno, ossia il 10% del Pil italiano contro una media europea del 5%. Se continuerà il traffico di droga ad essere monopolizzato dai mafiosi e se permarranno ancora i paradisi fiscali, il riciclaggio sarà un’attività permanente con la quale i mafiosi rinsalderanno i rapporti con gli imprenditori e i professionisti che contano.

Questo articolo è stato pubblicato su Repubblica il 5 giugno 2024

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