L’alfabeto delle Mafie: “M” come massoneria

di Isaia Sales /
3 Aprile 2023 /

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La particolare vocazione delle mafie italiane a intrecciare relazioni con coloro che detengono potere politico, economico, professionale e istituzionale, è dimostrato dal particolare rapporto che esse hanno stabilito negli ultimi decenni con alcune logge massoniche che rappresentano appieno il lato segreto (o opaco) di questi poteri. Anche nella copertura della lunga latitanza di Matteo Messina Denaro è emerso evidente un ruolo di alcuni esponenti della massoneria, così come in tante altre vicende di mafia, in Sicilia, in Calabria, in Campania e in altre parti d’Italia. A Castelvetrano, luogo di nascita del boss, nel 2017 fu sciolto il consiglio comunale per infiltrazioni mafiose e ben 4 assessori risultarono iscritti a logge massoniche. All’epoca in provincia di Trapani erano in funzione 19 logge, di cui 6 proprio  a Castelvetrano. E nel comune dove il boss risiedeva prima dell’arresto, Campobello di Mazara, sono attive due logge massoniche. Nelle zone di mafia, infatti, si riscontra una presenza massiccia di logge massoniche che non può essere casuale.

I riscontri giudiziari ormai sono tali e tanti che risulta evidente un’alleanza strategica tra molte logge massoniche e le tre principali criminalità mafiose italiane dagli anni Settanta in poi del Novecento. L’alleanza è stata segnalata in alcune relazioni delle Commissioni parlamentari antimafia, a partire da quella del dicembre 2017 promossa dalla presidente Rosy Bindi, che ha definito un tale connubio come una specie di “camera di compensazione di affari”, per consentire rapide carriere, per influenzare i giudici nelle sentenze, per aggiudicarsi appalti, per fare raccomandazioni e segnalazioni a favore di propri uomini. Nella relazione finale della Commissione parlamentare antimafia presieduta dal sen. Nicola Morra (2022) si segnala che “sia in Val d’Aosta, sia in Calabria, sia nella  provincia di Trapani, alcune operazioni promosse dalla magistratura hanno disvelato l’intenzione, da parte di consorterie mafiose, di avvalersi della trama relazionale posta in essere dall’appartenenza alla loggia massonica per poter favorire disegni criminali “. Ultimamente un libro di Piera Amendola (Padri e padrini delle logge invisibili, edito da Castelvecchi) ha aperto uno squarcio documentatissimo sull’intreccio mafie e logge massoniche, a partire dal ruolo avuto dal principe siciliano Giovanni Francesco Alliata di Montereale (detto Gianfranco), uno dei protagonisti della massoneria italiana di varie “obbedienze”, uomo d’onore della famiglia mafiosa di Brancaccio, tessitore di tante trame oscure, soprattutto dei legami tra massoneria, destra eversiva, servizi segreti e capi mafia. Il principe Alliata fu accusato di essere uno dei mandanti della strage di Portella della Ginestra nel 1947. Fu sempre lui a presentare il finanziere Michele Sindona ai capi della mafia siciliana facendolo diventare un punto di riferimento per il riciclaggio dei capitali mafiosi derivanti dal traffico di eroina.  

Com’è possibile essere massone e mafioso?

Come sia potuto accadere che un’organizzazione protagonista positiva dell’Unità d’Italia (perché di questo parliamo quando usiamo il termine massoneria) si confonda oggi con il problema mafioso e, negli ultimi decenni, con i principali eventi della “strategia della tensione” (con legami inossidabili con i servizi segreti deviati e con il terrorismo di destra) è questione che merita una riflessione seria. Un esito del genere, cioè una società segreta di nobili intenti, dedita a compiti di emancipazione dal potere, sia diventata nel tempo il reticolo più consistente di copertura e di aperto sostegno a fenomeni criminali (e di sovversivismo delle istituzioni) è questione politica e storica non banale e non trascurabile. In nessun’altra nazione dove sono presenti logge massoniche si è verificato un rapporto così stretto con forze apertamente criminali come in Italia. Il che dimostra come le mafie italiane abbiano una particolare vocazione a intessere relazioni con settori delle classi dirigenti (le logge massoniche sono formate da avvocati, insegnanti, commercialisti, architetti, notai, impiegati di banche, imprenditori, dipendenti pubblici, ecc. nonché da esponenti della magistratura e delle forze di sicurezza, quali carabinieri, finanzieri, membri dell’Esercito e anche della polizia); al tempo stesso impressiona come la massoneria italiana si sia mostrata così facilmente “penetrabile” da forze criminali.

Non è strano in Sicilia e in Calabria, né inusuale (anzi in alcuni luoghi sembra essere quasi la norma) che una persona sia allo stesso tempo massone e mafioso. Proprio per questi motivi, il magistrato Turone aveva coniato l’espressione “masso-mafie” a proposito delle interconnessioni accertate durante le indagini sulla P2, l’organizzazione massonica deviata messa in piedi da Licio Gelli.

Le mafie all’inizio copiano le sette massoniche e carbonare

Quando si parla di relazioni tra massoneria e mafie occorre distinguere due problematiche. Una riguarda l’origine delle mafie italiane che indubbiamente copiarono al loro nascere il modello organizzativo delle sette massoniche e carbonare, come vedremo. Questa diretta filiazione ottocentesca del modello organizzativo delle mafie da quello settario massonico e carbonaro non comportò, comunque, legami stretti tra i due fenomeni: i mafiosi presero sì in prestito i riti e gli statuti della massoneria (di cui ebbero conoscenza in carcere) ma senza che ciò comportasse un’alleanza organica o una reciproca contaminazione. La prima a farlo fu la camorra napoletana, il cui statuto è di diretta derivazione dalle regole massoniche. E in seguito la mafia siciliana e la ‘ndrangheta, che a loro volta copiarono le regole della camorra. La composizione sociale dei due fenomeni settari era diversa, con un prevalere della componente aristocratico-alto borghese nella massoneria e nella carboneria e di quella popolare nelle mafie, così come diverse erano le reciproche finalità. Poi il prevalere nella massoneria, soprattutto nel Secondo dopoguerra e per influenza statunitense, di uno spiccato orientamento anticomunista, ha consentito di farne uno strumento della strategia contro il pericolo “rosso” mischiandosi in Italia con tutti i centri di potere che per varie ragioni condividevano la finalità di bloccare a ogni costo l’accesso dei comunisti al governo di un paese occidentale.

E sulla base di questo assunto molte logge massoniche ebbero stretti legami con Gladio (l’organizzazione paramilitare promossa dalla Cia), con i servizi segreti italiani e con l’estrema destra stragista. Fino a organizzare con Licio Gelli, e prima di lui con Julio Borghese e con il generale Giovanni De Lorenzo, dei colpi di Stato o dei cambiamenti all’interno dello Stato in grado di bloccare qualsiasi innovazione politica che prevedesse un dialogo con il Pci. La massoneria (che per comodità chiameremo “deviata”) divenne così un’artefice di primo piano della strategia della tensione, con attentati, stragi e tentativi di colpi di Stato che hanno contrassegnato la nostra storia degli ultimi settant’anni. E proprio assegnandosi questo ruolo di avanguardia dell’anticomunismo e della difesa dell’Occidente nei confronti del pericolo rappresentato dall’Urss e dalla Cina che anche il rapporto con le mafie veniva accettato e ricercato. Fu proprio nell’immediato Secondo dopoguerra che i massoni italiani sottoscrissero la dichiarazione dei principi adottata dalla Conferenza dei Grandi maestri americani: “La massoneria aborre il comunismo come ripugnante alla sua coscienza della dignità della personalità individuale, distruttivo dei diritti fondamentali che sono la Divina eredità di tutti gli uomini e nemico della dottrina massonica fondamentale della fede in Dio”.

Segretezza e potere

Quindi, dobbiamo distinguere nettamente le due fasi: nella prima il rapporto tra massoneria e mafia consistette solo nel condividere un modello organizzativo e di gestione segreta del potere senza significativi intrecci di interessi; nella seconda, dal dopoguerra in poi, i due mondi si sono mischiati e intrecciati facendo parte di una comune strategia di difesa contro il pericolo comunista, diventato un’ossessione strategica. La massoneria è sembrata ai mafiosi il luogo per eccellenza per coltivare relazioni con coloro che avrebbero potuto aiutarli a garantirsi impunità dalla legge (soprattutto quando importanti magistrati ne facevano parte), ampi spazi nell’economia legale e modalità per occultare e riciclare le ricchezze accumulate con il delitto. Il rapporto con le mafie, da questo punto di vista, rappresenta la più evidente trasformazione delle finalità della “fratellanza” massonica: fratelli di interessi e non certo di ideali. La segretezza, coltivata come un valore strategico dalle mafie e dalla massoneria, è diventata una comune modalità di gestire potere, di condividere strategie, di intrecciare relazioni reciprocamente utili. Il potere quando si fa segreto attira e coinvolge altri poteri segreti, anche se violenti. Elias Canetti ha scritto acutamente che “Il segreto sta nel nucleo più interno del potere”. I rapporti mafie e logge massoniche dimostrano che sono le relazioni con coloro che hanno potere ufficiale ad aver determinato il successo storico delle mafie: a nessun bandito o brigante sarebbe stato permesso di entrare in una loggia massonica. Ai mafiosi sì.

Ruolo della massoneria nel regno borbonico

La Massoneria, nata in Inghiletrra nel 1717, arriva nel regno borbonico e negli altri stati preunitari dietro le truppe napoleoniche (anche se la prima loggia si forma a Firenze già nel 1733). Dunque, la sua diffusione fu agevolata dalla conquista francese nel 1806 prima con Giuseppe Bonaparte, fratello di Napoleone, e poi con suo cognato Gioacchino Murat che era gran maestro della massoneria in Francia. Successivamente, dalle logge massoniche si svilupparono altre organizzazioni segrete (la Carboneria ad esempio) con più spiccate caratteristiche anticlericali, di opposizione ai regimi assolutistici ai fini della realizzazione dell’Unità d’Italia. Il regno borbonico fu “il luogo dove le società segrete misero le radici più profionde”, come scrive John Dickie nel libero I liberi muratori. Storia mondiale della massoneria. Fu questo modello di partecipazione politica tramite la segretezza e la ritualità che influenzò sia la camorra, sia la mafia siciliana, sia la ‘ndrangheta.

E sarà proprio nelle carceri che si incontreranno i delinquenti comuni “disorganizzati” e gli aristocratici e borghesi organizzati in quanto oppositori del sistema politico vigente. La violenza si era dimostrata necessaria in quella fase storica per abbattere i poteri assolutistici e, quindi, nelle carceri le mafie ne fanno un modello, copiando tutto l’armamentario della massoneria, compresa l’operazione di uso della violenza per scopi “nobili” o di contrapposizione al potere costituito.  I delinquenti del popolo si rendono conto che se la violenza è “nobilitata”, cioè se è usata per realizzare “ideali” generosi e altruistici, perde il suo carattere respingente. E così i mafiosi e i camorristi si auto-rappresentano come riparatori di torti, come coloro che tolgono ai ricchi per dare ai poveri o con altre narrazioni dello stesso tipo.

Similitudini tra mafie e massoneria

Le similitudini delle sette segrete con i primi statuti delle mafie sono sorprendenti, in maniera particolare con quello della camorra napoletana, che è la prima mafia a presentarsi sulla scena della storia italiana. È in questa ritualizzazione della violenza che sta il segreto storico del successo delle mafie.

Nelle “fratellanze” siciliane (il nome con cui erano conosciute le prime mafie) si pagava una quota di iscrizione e si formava un fondo cassa utile per assistere i “fratelli” in momenti di difficoltà. Nello statuto della camorra e nei rituali della ‘ndrangheta si usa spesso la parola “compagno” (“i compagni che stanno alle isole o sottochiave” è scritto nello statuto della camorra, e “il saggio compagno” è l’interlocutore nei rituali della mafia calabrese) così come il “compagno libero muratore” era il secondo grado massonico tra quello di apprendista e quello di maestro. I massoni definiscono la loro struttura “famiglia massonica” e così la descrivono: “La nostra unione è una simbolica famiglia riunita a lavorare per il bene dell’umanità”; e famiglia viene chiamata dai mafiosi siciliani la loro struttura territoriale. I massoni si chiamano fratelli fra di loro, così come allo stesso modo si appellano gli ‘ndranghetisti secondo un codice che si intitola “Giuramento del nuovo Fratello” in cui i presenti alla cerimonia iniziatica vengono chiamati, appunto, fratelli. 

Anche il termine omertà deriva dal modello massonico. Esso non corrisponde al significato di “ominità” (“si comporta da uomo colui che non collabora con la legge e si fa giustizia da solo”) come sosteneva il famoso antropologo siciliano Giuseppe Pitrè; non è termine siciliano, non è espressione di virilità e di senso dell’onore di chi non parla, ma deriva da “umirtà”, umiltà, cioè dalle regole dell’obbedienza ai segreti dell’organizzazione dettata dagli statuti della camorra napoletana copiati da quelli della massoneria. La segretezza e il non rivelare niente di ciò che avviene all’interno dell’organizzazione è il principio organizzativo su cui si regge qualsiasi società segreta. Ancora oggi il non rivelare gli argomenti discussi nelle riunioni è un vincolo per un appartenente a una loggia massonica.

Interessante vedere come sia nella camorra sia nella massoneria e nelle sette carbonare ci sia una particolare severità nel punire i traditori. Il massone giura “sotto pena di avere tagliata la gola, strappata la lingua alla radice e il cadavere sepolto sotto la sabbia del mare” qualora dovesse tradire i segreti della setta. Nel cosiddetto Frieno, il primo statuto della camorra risalente al 1842, all’articolo 11 si proclama che “Chiunque sbelisce (rivela) cose della Società sarà severamente punito dalle mamme” (cioè, dai tribunali della camorra). Ancora oggi in alcune logge massoniche si giura con le seguenti parole: “Mi impegno a non palesare giammai i segreti della Libera Muratoria…sotto pena di aver tagliato la gola, strappato il cuore e la lingia, fatto il mio corpo cadavere in pezzi, indi bruciato e ridotto in polvere, questa sparsa al vento per esecrata memoria ed infamia eterna”. Nella nassoneria non si riconoscono le condanne della giustizia dello Stato, al punto che si può essere ammessi anche con gravi precedenti penalialle spalle, perché l’unica giustizia riconosciuta è quella delle logge, come se la massoneria avesse una sua “giuricidità” autonoma da quella statuale. Stesso comportamento seguono le mafie, che si avvalgono di loro “tribunali” per giudicare le “infamità” dei membri. E non va dimenticato che solo nel 1990 il Consiglio superiore della magistratura ha sancito l’incompatibilità della doppia appartenenza per i magistrati.

Inoltre, nello statuto della camorra, al primo articolo, è scritto che “La Società dell’Umiltà o Bella Società Riformata ha per scopo di riunire tutti quei compagni che hanno cuore, allo scopo di potersi, in circostanze speciali, aiutare sia moralmente che materialmente”. Le “circostanze speciali” si riferivano al caso in cui si finiva in galera o si veniva assassinati e si lasciava la famiglia nella miseria. La mutualità criminale sembra anch’essa riprendere una delle regole principali della massoneria. Sempre nello statuto della camorra c’è la divisione tra Società Maggiore e Società Minore, così come nella massoneria. La camorra si presenta, insomma, come una massoneria violenta della plebe. E così la definirà Marc Monnier: “La camorra, che potrebbe definirsi in due parole l’estorsione organizzata, è una specie di frammassoneria popolare costituita nell’interesse del male”. Ma anche la mafia siciliana può essere paragonata alla massoneria secondo il parere di due mafiosi, Nick Gentile e Tommaso Buscetta. Il Gentile scrive nelle sue memorie: “L’onorata società potrei paragonarla, per quanto riguarda l’assistenza ai suoi associati, alla massoneria. Gli associati si chiamano “fratelli e ubbidiscono a un capo da loro eletto”.  Nella ‘ndrangheta nella cerimonia di  giuramento si dà vita a un dialogo con il nuovo affiliato basato su alcune domande e risposte; è lo stesso meccanismo di domanda e risposta usato nel rito di adesione alla massoneria.

Da quando si stabilisce un rapporto organico tra alcune logge massoniche e le mafie?

In una delle sue ultime interviste Buscetta dichiarò: “Fino al 1980 non ho mai sentito parlare di uomini d’onore massoni, rapporti, certo, che ce n’erano. Giacomo Vitale, cognato di Stefano Bontate [una capo mafia siciliano ammazzato nel 1981] era un massone, ad esempio. Nel 1970 per il golpe Borghese sono i massoni che si rivolgono a noi. E Carlo Morano, uomo d’onore, aveva un fratello massone coinvolto nel golpe. Ma parlo di contatti non di identificazione. Se poi mi si chiede: se Cosa nostra ha rapporti con i massoni in logge riservate, questo lo ritengo non possibile ma molto probabile”. Dunque, Buscetta fa risalire alla fine degli anni Settanta del Novecento il rapporto tra mafie e logge massoniche in Sicilia. Piera Amendola indica nel 1977 l’anno della svolta nel rapporto tra massoneria e mafia siciliana.  Ma anche senza rapporti codificati con la mafia, diversi massoni siciliani si muoveranno in sintonia con essa fin dal Secondo dopoguerra. La strage di Portella della Ginestra del 1947 vedrà la collaborazione di banditi, mafiosi, massoni, monarchici, agrari con l’avallo di settiori della Democrazia cristiana.

A tenere le fila sarà proprio il principe Gianfranco Alliata, chiamato in causa proprio da Gaspare Pisciotta (il cugino e luogotenente di Salvatore Giuliano, assassinato con un caffè alla stricnina nel carcere dell’Ucciardone di Palermo) nel processo di Viterbo contro gli esecutori della strage. In un altro processo celebrato a Palermo nel 1995 contro Giuseppe Mandalari, ritenuto il commercialista di Salvatore Riina, si accertò che vi era stata un’interazione tra Cosa nostra e massoneria per condizionare l’esito di un processo. Si era intervenuti sui giudici popolari che dovevano giudicare l’avvocato Gaetano Zarcone, accusato di avere introdotto in carcere una fiala di veleno per uccidere il boss della vecchia mafia Gerlando Alberti. Il capomafia Nicola Mandalà, che si era occupato per un periodo della lunghissima latitanza di Bernardo Provenzano (durata ben 43 anni) aveva dichiarato ai magistrati che “esisteva un terzo livello in relazione diretta con Provenzano che consentiva alla mafia di avere benefici a livello di informazioni da forze dell’ordine, magistrati, servizi segreti. Informazioni di prim’ordine, un terzo livello dove c’era di mezzo la massoneria”.

Secondo altre acquisizioni giudiziarie il rapporto logge massoniche siciliane e Cosa nostra sarebbe cominciato con Salvatore Greco e Giuseppe Calderone, che insieme a Stefano Bontate, suo cognato Giacomo Vitale e Salvatore Inzerillo avevano il privilegio della doppia affiliazione alla mafia e alla massoneria. Anzi, Stefano Bontate aveva creato addirittura una sua loggia a Palermo, la Loggia dei Trecento, molto legata alla P2 di Licio Gelli. I due si incontravano spesso in Sicilia. Il pentito medico Gioacchino Pennino, militante della Dc palermitana, ha rivelato che fin dagli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento diversi mafiosi ambivano a mischiarsi con la Palermo bene iscrivendosi a diversi circoli frequentati da aristocratici e alto-borghesi, tra questi anche quelli massonici, perché ciò li accreditava come menmbri effettivi della classe dirigente della città.  Il collaboratore di giustizia Gaspare Mutolo ha affermato che gli “uomini d’onore” potevano essere autorizzati ad entrare nelle logge massoniche per “avere strade aperte ad un certo livello, per ottenere informazioni preziose e contatti per “aggiustare” processi attraverso giudici massoni. Un altro collaboratore, Leonardo Messina ha rivelato che “è nella massoneria che si possono avere i contatti utili con gli imprenditori, con le istituzioni, con gli uomini che amministrano il potere”. Nella sentenza del 2015 del tribunale di Trapani sul delitto Rostagno viene scritto: ” la penetrazione di Cosa nostra nell’imprenditoria, nelle banche e negli apparati dello Stato, è stata favorita con tutta probabilità dal crescente ruolo delle fratellanza massoniche”.

La Santa

Tra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento l’ordinamento tradizionale della ‘ndrangheta, basato su tre livelli di gerarchia (picciotto, camorrista e sgarrista), viene stravolto con la nascita della cosiddetta Santa, un livello superiore di organizzazione riservato solo a pochi “eletti”, che hanno anche la possibilità di una seconda affiliazione, quella alle logge massoniche coperte. Fino ad allora uno ndranghetista non poteva essere contemporaneamente membro di altre organizzazioni basate su un giuramento. Lo scopo di questa nuova gerarchia malavitosa nasce dalla necessità di modificare radicalmente il rapporto non alla pari tra ‘ndranghetisti, gestori della cosa pubblica e rappresentanti delle istituzioni di sicurezza. Con la nascita della Santa i mafiosi calabresi entrano direttamente nel mondo degli affari e stabiliscono relazioni con i rappresentanti dei poteri istituzionali senza mediazioni di altri. Le logge massoniche sono il luogo in cui si consolidano queste relazioni. Con la Santa cambiano anche i riti di iniziazione della ‘ndrangheta. I “santisti” giurano in nome di Garibaldi, Mazzini e La Marmora, ritenuti i più rappresentativi massoni del passato. In Calabria nel 2017 ben 28 logge massoniche su  32 erano controllate da ‘ndranghetisti. Un capomafia, Filippo Barreca, ha affermato che mafia e massoneria in Calabria sono “una cosa sola”. I capi della Santa erano in rapporti organici con esponenti della destra eversiva e con i servizi segreti.

Nel 1975 avviene in Calabria uno dei pochissimi delitti eccellenti della ‘ndrangheta: viene ucciso a Lamezia Terme Francesco Ferlaino, avvocato generale dello Stato presso la Corte d’Appello di Catanzaro, membro della massoneria. Il delitto resterà impunito, ma il collaboratore di giustizia Giacomo Lauro collegherà l’omicidio all’opposizione di Ferlaino all’ingresso degli ‘ndranghetisti nelle logge massoniche calabresi.

Il primo procedimento organico sulla massoneria deviata e sui rapporti con la ‘ndrangheta fu condotto dalla Procura della Repubblica di Palmi nei primi anni Novanta del Novecento. Un notaio massone, Pietro Marrapodi, imputato per aver redatto numerosi atti di trasferimento di proprietà per impedire che il patrimonio immobiliare della cosca De Stefano venisse individuato, raccontò dei metodi usati per  nascondere l’iscrizione alla massoneria di diversi capi ‘ndranghetisti. Nello scioglimento dell’Asl di Locri e dell’Azienda sanitaria provinciale di Cosenza  per infiltrazioni mafiose si fa riferimento a numerosi soggetti appartenenti alla massoneria.

Minore è l’intreccio di logge massoniche con la camorra in Campania. Il pentito Pasquale Galasso aveva parlato di un coinvolgimento della massoneria nella corruzione di magistrati per aggiustare i processi che lo riguardavano. In particolare fa riferimento all’avvocato massone Vittore Pascucci. Sempre Galasso aveva rivelato che nel 1993 era riuscito a ottenere un prestito di 350 milioni della Fondiaria spa per il suo socio in affari, Marco Cordasco, per comprare un importante albergo a Montecatini. Lo avevano aiutato due massoni, il ragioniere Capozzi e il dottor Palmieri. Del ragioniere Capozzi aveva parlato anche un altro camorrista alleato di Galasso, Giuseppe Cillari (a sua volta in legami con la banda della Magliana e con il faccendiere Flavio Carboni)  sostenendo che il commercialista gli aveva proposto più volte affari per conto o con l’intervento della massoneria.

Anche la vicenda del traffico dei rifiuti provenienti dal Centro-Nord dell’Italia, trasportati e interrati da esponenti del clan dei casalesi, vede coinvolti dei massoni, a partire proprio da Licio Gelli. A seguito della crisi dei degli impianti di smaltimento dei rifiuti che investe la Toscana nel 1988, alcuni imprenditori massoni del settore delle pelli si rivolgono a Licio Gelli non sapendo più dove scaricare una parte dei rifiuti prodotti dalle loro concerie. E il capo della P2 si rivolge a sua volta a Gaetano Cerci, un rappresentante del clan dei casalesi che in quel periodo lavorava in Toscana e che si recava spesso a villa Wanda a Castiglion Fibocchi, residenza del “Venerabile”. È Cerci, su sollecitazione della massoneria deviata di Licio Gelli, che avvia il traffico. Gelli poi procura i contatti politici e burocratici necessari a consentire che si potessero trasportare in Campania rifiuti provenienti da fuori regione.

In definitiva, il rapporto tra mafie e massoneria va iscritto dentro la storia dei rapporti in Italia tra classi dirigenti e criminalità. Quando la gestione del potere si fa opaca o addirittura oscura, è molto probabile che ad essa vengono associate forze criminali. Le mafie hanno sempre utilizzato bene questa opportunità generata da un particolare esercizio del potere segreto da parte di rapprsentanti delle classi dirigenti del Paese.

Questo articolo è stato pubblicato su Repubblica il 2 aprile 2023

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