“Nell’invio di bombe a grappolo all’Ucraina per Biden il fine giustifica i mezzi”: così, il 7 luglio, The Guardian online titolava un articolo di David Smith (https://www.theguardian.com/world/2023/jul/07/biden-ukraine-cluster-bombs-us-military).
Vi troviamo alcune dichiarazioni di Leon Panetta, ex segretario alla Difesa e direttore della CIA: «Non c’è un’arma usata in guerra che non porti con sé rischi di uccidere persone»; inoltre, «i Russi hanno usato queste munizioni […]. Quando affronti un nemico che non ha riguardo per i costi umani coinvolti, devi capire quale passo fare per cercare di fronteggiare quel tipo di forza» [trad. mia, ndA]. Dichiarazioni che evidenziano bene il punto di vista dei vertici americani sulla faccenda e il loro modo di giustificare all’opinione pubblica le decisioni prese nel merito: qualche morto in più non fa poi differenza, se serve allo scopo, e il fine giustifica i mezzi, appunto. D’altronde, questa massima tipicamente pervade di sé le guerre e non sono solo i vertici politici e militari a farla propria. Ad esempio, anche i sempre più frequenti attacchi ucraini in Russia vengono spesso accolti, nei discorsi “comuni”, come parte coerente di quei mezzi che giustificano il fine: fatto questo, la possibilità di ogni altra considerazione al riguardo è perentoriamente esclusa.
Ci sono almeno due aspetti che questa questione mi dà lo spunto di trattare: il primo è più evidente e riguarda proprio l’asserzione “il fine giustifica i mezzi”. Il secondo è più nascosto e ha a che fare con il legame che essa intrattiene con la premessa implicita su cui giace: che esista un qualcosa come una guerra giusta che (in quanto tale) va combattuta.
Esaminiamo ora la prima questione. “Il fine giustifica i mezzi” è una di quelle cose così culturalmente radicate che difficilmente vengono pensate: un dato-per-scontato che la mente accoglie rapidamente e senza ragionamento. Tuttavia, questa è una di quelle espressioni un po’ furbe, che sembrano piatte e invece contengono molte cose. Una di quelle faccende che meritano, quindi, qualche riflessione.
Innanzitutto, la composizione della frase sposta l’attenzione dalla definizione del fine alla giustificazione dei mezzi, dalla necessità e opportunità di negoziare socialmente il primo (o almeno di verificare se vi sia qualcosa come un consenso sociale sulla definizione del primo) all’urgenza di legittimare i secondi. È come dire: “sul fine non c’è da discutere o aggiungere altro e, dato tale fine, da esso discendono naturalmente i mezzi”. Questo non è neutrale rispetto al modo in cui recepiamo la cosa. Il fatto che il fine giustifichi i mezzi prevede implicitamente che ci siano dei fini su cui siamo tutti d’accordo o superiori e oggettivi e, pertanto, non discutibili. Si tralascia la relatività del fine, che invece muta col mutare di condizioni, circostanze, obiettivi e interessi particolari, idee e valori culturali: il fine è soggettivo e parimenti lo è il suo qualificarsi come “giusto”, soggetto a quella relatività storico-culturale che ci apparirebbe subito evidente se ripercorressimo i significati che la locuzione “guerra giusta” (quella che ha certi fini che la rendono tale) ha assunto nelle varie situazioni in cui se ne è fatto ricorso. Se pure ci fermiamo a considerare l’andamento della sola guerra in Ucraina – o, più propriamente, quello della sua narrazione pubblica prevalente –, possiamo notare come sin dal principio esso si caratterizzi per un frequente (ma non appariscente) cambiamento dei fini: aiutare il popolo ucraino a difendersi da un aggressore, sconfiggere Putin (qualunque cosa significhi), indebolire la Russia e rafforzare l’Occidente, affermare i “nostri” valori contro i “loro”. C’è molta differenza tra questi fini, e conseguenze molto differenti possono germogliarne. Il perché lo scivolare da un fine all’altro non risulti evidente può essere legato alla narrazione entro cui il fine è inserito: il contesto (narrativo-semantico) influenza le nostre percezioni. Ne parlerò dopo.
Ho sostenuto che la composizione della frase “il fine giustifica i mezzi” sposta l’attenzione dal primo ai secondi e lascia intendere che dall’uno discendano gli altri. Spostandomi da cosa quella frase implichi per il fine a cosa suggerisca per i mezzi, potrei tradurla così, modificando un po’ la mia precedente riformulazione: “sul fine non c’è da discutere o aggiungere altro e i mezzi discendono da esso nell’unica forma possibile”. Se siamo d’accordo su questa ridefinizione, dobbiamo ora chiederci quale sia la domanda che consente di uscire dal meccanicismo e dalla semplificazione estrema del dato-per-scontato. Il quesito giusto da porsi – io credo – è il seguente: dato un certo fine da perseguire (ammettendo pure che su di esso siamo tutti d’accordo), ci sono solo mezzi di un certo genere adatti a raggiungerlo? In una guerra (anche quando vi siano un aggredito e un aggressore), questo significa chiedersi se gli unici mezzi pensabili si identifichino con il rispondere alle armi con le armi, seguendo poi inevitabilmente la logica del “più di prima” (armi più numerose e più potenti, azioni più aggressive, più soldati coinvolti, più morti sacrificabili ecc.): il che genera, ancora inevitabilmente, un’escalation. La questione non è, dunque, se aiutare o no un popolo aggredito: la questione è come farlo. Una questione di mezzi, appunto.
Arriviamo così al secondo problema. Che il fine giustifichi i mezzi, in guerra, si basa su una premessa implicita: ci sono “guerre giuste” (quelle con fini “giusti”) ed esse vanno combattute. Anche in questo caso, c’è un aspetto di non oggettività che viene nel dibattito pubblico completamente trascurato. “Guerra giusta” è, infatti, un concetto che muta col mutare dei contesti storico-culturali in cui nasce e trova senso. In qualche modo, è spesso usato dai vertici di tutte le parti in causa in una guerra, che ci credano davvero o che sia solo un modo per ottenere il consenso ad essa da parte del proprio popolo (il che significa che i parametri usati per definire la guerra come “giusta” sono tratti da un bacino di valori, significati e pezzi di memoria collettiva che costituiscono un punto di ancoraggio efficace per l’adesione della popolazione alle decisioni dei Governi). Se è così, il concetto di “guerra giusta” non può essere utilizzato, in una società davvero democratica, per giustificare azioni belliche. Ancor meno utilizzabile dovrebbe essere l’espressione “pace giusta”, oggi tanto maldestramente brandita: essa è priva di senso, per almeno due motivi, cui faccio solo cenno. Il primo è che alla pace si arriva, nel senso in cui l’espressione è usata, tramite e dopo la guerra: si tratta, quindi, di una specie di gioco di prestigio linguistico, che vorrebbe nascondere qualcosa – la guerra – su cui può non esserci consenso sotto il mantello pregiato di una parola – “pace” – che invece piace a tutti. Il secondo è che alla pace-tramite-e-dopo-la-guerra non giunge il popolo più giusto o che ha le ragioni o i fini più giusti, ma ovviamente quello più forte.
Concludo con due parole su una questione toccata di sfuggita più sopra, quando ho affermato che il contesto influenza le nostre percezioni e che questo può essere – suggerisco – tra i motivi per cui lo scivolare da un fine all’altro del discorso pubblico sulla guerra, sebbene frequente, non appare evidente. Dicendo “contesto”, mi riferivo al più ampio complesso narrativo entro cui la dichiarazione dei fini, esplicita o no, è posta: una narrazione connotata da un progressivo e lento mutare, nella quale sostiamo in una condizione che pare simile a quella in cui si trovava la famosa rana che non si accorse di restare bollita finché non restò bollita (1). La guerra in Ucraina, che nelle sue prime fasi era identificata con l’opera di un pazzo controbilanciata dal saldo leader del popolo aggredito, è poi diventata ora l’azione di un moderno Hitler fronteggiato dall’eroe buono, ora l’esito della brama di conquista di un dittatore arginata da un popolo fiero che combatte per tutti noi, ora il risultato della volontà di annientamento dei valori democratici occidentali contrastata dall’eroe senza macchia e senza paura e dalla sua gente.
A prescindere da cosa si pensi circa ciascuna di tali descrizioni, ciò che qui interessa è che il fine in rapporto al quale si sollecita, qui da noi, il consenso della popolazione agli aiuti militari all’Ucraina (il mezzo proposto) cambia forma col mutare delle narrazioni e restando ben amalgamato con esse: il fine, di volta in volta, è l’inevitabile contenimento di un pazzo, la legittima punizione del malvagio, il necessario indebolimento di un autocrate che potrebbe espandersi anche da noi, la difesa urgente dei “nostri” valori minacciati. In linea più generale, il fine è passato dalla difesa di un popolo aggredito (per raggiungere il quale i mezzi erano sì armi, ma solo “difensive”) alla vittoria sul nemico (per conseguire la quale armi e azioni offensive sono non solo accettabili ma, anzi, legittime e “giuste”).
Non è indifferente che i fini, nel loro mutare, restino sempre congruenti con la narrazione pubblica predominante sulla guerra e co-evolvano dolcemente con essa: solo in questo modo – io credo – può aumentare la probabilità che essi siano digeriti in modo indolore dalla popolazione. E, per tornare al discorso iniziale, una volta che sul fine non c’è più nulla da dire (tanto fortemente emerge come il naturale derivato della realtà), non è così difficile che poi siano accolti anche i mezzi proposti per raggiungerlo e che non venga neppure in mente la domanda prima suggerita: dato un certo fine da perseguire (ammettendo pure che su di esso siamo tutti d’accordo), ci sono solo mezzi di un certo genere adatti a raggiungerlo?
Nota
[1] Il “principio della rana bollita”, che prende le mosse da un esperimento condotto alla John Hopkins University nel 1882, è stato usato da Noam Chomsky per descrivere metaforicamente la tendenza dei popoli ad accettare passivamente degrado e vessazioni, fino a quando non diventa per loro impossibile reagire. Esso si basa sulla constatazione del fatto che una rana, messa in un pentolone con dell’acqua fredda, vi nuota tranquilla. Se innalziamo progressivamente la temperatura dell’acqua, la rana in un primo momento la troverà ancora piacevole e continuerà a nuotare; poi inizierà a trovarla sgradevole, ma senza spaventarsi e dunque senza saltare via. Inizierà così a indebolirsi per via del troppo calore, fino a quando, divenuta l’acqua davvero troppo calda, non avrà più la forza di reagire, finendo così bollita.
Questo articolo è stato pubblicato su Volere la luna il 12 settembre 2023