Nel lontano 1979 – si era nel clima plumbeo della guerra fredda – in un famoso messaggio di fine anno l’allora presidente della Repubblica, Sandro Pertini, lanciava un energico appello ai popoli: SVUOTIAMO GLI ARSENALI E RIEMPIAMO I GRANAI. Se potesse tornare tra noi resterebbe sgomento e ferito nel constatare come il suo invito alla riduzione degli armamenti, per potenziare e favorire invece il benessere e la coesistenza pacifica tra gli esseri umani, sia stato disatteso e sovvertito. Non solo sono ripresi e si sono moltiplicati conflitti devastanti e invasivi, ma le stesse parole PACE e DISARMO vengono disonorate: oggi chi le pronuncia rischia la gogna come nel Medio Evo.
Le guerre intraprese negli ultimi trent’anni in ambito europeo non sono da imputarsi tanto a contrapposizioni ideologiche, quanto a contrasti territoriali di tipo nazionalistico. Alla vigilia dell’attacco all’Ucraina del 24 febbraio 2022, per l’esattezza la sera precedente, il presidente della Federazione Russa, Vladimir Putin, affermava davanti al mondo intero che l’Ucraina come entità statale autonoma non esiste, asserzione foriera delle gravissime conseguenze che ne sono derivate. Ora, se è vero che i popoli che abitano Russia, Ucraina e Bielorussia hanno lontane origini comuni – si parla del X secolo dopo Cristo – è innegabile che in epoca successiva si sono affermate e consolidate all’interno dei territori interessati, marcate specificità di natura etno-culturale e politico-amministrativa che vanno riconosciute e rispettate.
Sull’altro versante, nel corso di un’intervista rilasciata al mensile Limes – riportata nel n° 9 del settembre 2022 – Oleksij Arestovyc, uno dei consiglieri del presidente Zelensky, ribadisce l’intenzione di riprendere tutti i territori ucraini, dopodiché l’Europa orientale non sarà più vista come “Mosco-centrica bensì Kiev-centrica”. Sottolinea che l’Ucraina chiede all’Europa “soldi e armi” avendo bisogno di “circa 9 miliardi di dollari al mese”. Il suo Paese “vuole anche ottenere una ricompensa storica da Mosca per gli ultimi quattro secoli”.
Ciò significherebbe riportare le lancette dell’orologio all’epoca di Pietro il Grande. Visto che nel periodo in questione il popolo ucraino è stato assoggettato anche da sovrani polacchi e austriaci, vanno chiamati in causa pure la Polonia e l’Austria, oltre alla Russia?
La rivisitazione politica della storia in senso nazionalistico ha già prodotto guasti irreparabili nel conflitto che ha dilaniato la ex-Jugoslavia negli anni Novanta del Novecento, quando i Serbi per affermare la loro supremazia su Sloveni, Croati e Bosniaci si sono appellati alla battaglia della Piana dei Merli del 16 giugno 1389 contro i turchi Ottomani.
Le profonde lacerazioni provocate dall’attuale guerra in Ucraina coinvolgono purtroppo anche ambiti come la letteratura, la musica e l’arte, che per loro natura veicolano messaggi di concordia e condivisione di valori e saperi, creando spazi e occasioni di confronto fra i popoli. In un ambito apparentemente minore, quello delle biblioteche, emergono veri e propri attentati al patrimonio culturale ad opera delle due parti che oggi si fronteggiano senza esclusione di colpi.
La commissaria dei Diritti Umani in Ucraina, Lyudmyla Denisova, denuncia che la ‘polizia militare’ russa confisca le opere di narrativa e la letteratura storica ucraine dalle biblioteche delle regioni di Luhansk, Donetsk e Kherson conquistate dall’esercito di Putin. Inoltre sessanta biblioteche sono andate distrutte nel corso dei bombardamenti. La stessa commissaria sottolinea che gli invasori “violano gli articoli 4 e 5 della Convenzione dell’Aia sulla protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato”.
L’accanimento distruttivo viene alimentato dai Parlamenti delle due nazioni in guerra. Quello russo a luglio 2022 ha deliberato che i nuovi curricoli scolastici dovranno includere lezioni incentrate sulla “rinascita della potenza russa dopo la riconquista dei territori della Crimea e del Donbass.” Dall’altra parte già nel 2019 il Parlamento ucraino aveva approvato una legge che proibiva l’insegnamento in lingua russa nelle scuole e imponeva l’immediato passaggio a libri di testo in ucraino, idioma che diventava obbligatorio in tutti gli uffici pubblici.
Nel maggio 2022 il ministro ucraino della cultura, Oleksandr Tkachenko, ha ordinato la distruzione di tutte le opere pubblicate in russo o tradotte da tale lingua, presenti nelle biblioteche e nelle librerie del Paese, libri destinati a diventare “carta straccia”. Conseguentemente nello stesso mese la direttrice dell’Istituto Ucraino del Libro, Oleksandra Koval, s’impegna a rimuovere circa 100 milioni di titoli definiti “libri della propaganda russa”, tra i quali anche le opere di Pushkin e Dostoevsky, colpevoli di aver alimentato il “messianismo russo” e favorito il diffondersi del “dominio” di tale lingua. Entro la fine dell’anno sarà eliminata anche “la letteratura ideologicamente dannosa pubblicata in epoca sovietica” e in una seconda fase toccherà ai “libri di autori russi contemporanei pubblicati in Russia dopo il 1991… anche di generi diversi, inclusi libri per bambini, romanzi rosa e gialli.” Il 19 giugno seguente entrambe le Camere del Parlamento ucraino hanno approvato una legge che proibisce la pubblicazione e l’importazione di libri e prodotti musicali (CD) russi.
Purtroppo i veleni dell’oscurantismo possono oltrepassare i confini. A Milano l’Università “Bicocca” proibisce una lezione su Dostoevsky e la Scala rimuove il direttore, il maestro Valerij Gergiev, reo di avere rapporti di amicizia con Putin. A Torino il Museo del cinema cancella dal programma i film della Rassegna “Anima Russa”. Tutto questo, benché l’articolo 11 della “Carta dei diritti fondamentali” dell’Unione Europea difenda la libertà d’informazione e il pluralismo culturale.
Ai libri distrutti fanno da contraltare le armi. Sfornate in quantità massiccia e crescente, da un lato provocano morti, feriti e distruzioni, dall’altro garantiscono scandalosi dividendi ai produttori. L’entità delle spese militari sostenute per la guerra in Ucraina farebbe infuriare Sandro Pertini, tanto è iperbolica. La Russia nei primi tre mesi di guerra ha investito circa 20 miliardi di euro, il triplo della spesa per l’istruzione. Gli altri Paesi in sette mesi di conflitto hanno erogato le seguenti cifre in euro. USA: 25 miliardi; Regno Unito: 4 miliardi; Polonia: 1,8 miliardi; Germania: 1,2 miliardi; Estonia: 240 milioni; Francia: 223 milioni; Lettonia: 200 milioni; Italia: 150 milioni; Canada: 112 milioni. Somme minori sono state destinate all’Ucraina dagli altri Paesi aderenti o legati alla Nato.
Per le cifre suddette, in mancanza di fonti ufficiali sufficientemente analitiche, ci si è basati su ricerche di studiosi che collaborano con SIPRI, Limes e Archivio Disarmo.
LAST BUT NOT LEAST – ultimo ma non per importanza – il Governo italiano è l’unico al mondo a non avere specificato quali e quante armi sta consegnando agli ucraini, come sottolinea il direttore di Limes, Lucio Caracciolo. Lo stesso giornalista in questo mese di ottobre ha ripetuto pubblicamente in almeno due occasioni che il silenzio sul tipo di armi inviate è stato dettato da una scelta opportunistica, in quanto se ne avessero rivelato la natura, il governo Draghi “sarebbe caduto subito”. La motivazione addotta da Caracciolo, per la sua gravità e in mancanza di spiegazioni o di contraddittorio, lascia dubbi inquietanti. Viene da domandarsi che razza di armi stiamo inviando. Si tratta forse di ordigni non ammessi dai protocolli di guerra? Chi riveste una responsabilità politica nei confronti del consesso civile deve fornire una risposta puntuale e trasparente prima che il Parlamento torni a deliberare in merito.