Di che cosa parliamo, quando parliamo dei nostri disagi? I festival bolognesi alle prese con il male di vivere

di Silvia Napoli /
4 Luglio 2023 /

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Mentre scrivo, miei tanti o pochi lettori. Queste sghembe note a margine di una programmazione di cultura di pubblico interesse, talmente ricca da risultare in certi momenti quasi convulsa, mi rendo conto di essere in terribile ritardo a riferirvi di quanto avvenuto fin qui, praticamente senza cesure dalla ufficiale chiusura della stagione cosiddetta invernale. A Bologna non esistono più le mezze stagioni, ma stagioni continuative premendo all’orizzonte rassegne vecchie e nuove, urbane, periferiche, metropolitane, di tutto rispetto, nonché festival prestigiosi e discussi come Santarcangelo, su cui ritorneremo prestissimo e che vedremo quanto rechino in sé il segno anche delle catastrofi ultime avvenute.

Senso di allerta ed emergenza, sono i nostri ormai altrettanto continuativi compagni di viaggio…davvero la contingenza pandemica ha segnato in profondità qualcosa dentro e fuori di noi, se consideriamo l’esplodere di mille micro e macro contraddizioni e conflittualità e l’implodere in parallelo di una certa idea di ottimismo progressista. Siamo al centro del cuore di tenebra con una difficile variante in più: la renitenza giovanile alla chiamata della raccolta del testimone, alla chiamata di sistema di valori e di generazione.

E riguardo alla galassia dei giovanissimi, di cui si dice costantemente, in una sorta di brusio continuo, tutto e il contrario di tutto, è realmente possibile far loro prendere parola ed ascoltarli per davvero, senza sovrapporre loro retoriche ulteriori? Davvero noi adulti sapremo recuperare una qualche capacità di connessione rispetto a loro che sentiamo minacciata, perduta, che forse non vogliamo neppure fino in fondo? Che forse non è mai esistita? Faremmo meglio piuttosto che s-parlare a s-proposito sui e dei loro bisogni, ad analizzare i nostri ambigui sentimenti, talvolta quasi cannibalici nei loro confronti? Sul controverso rapporto in termini politici, culturali, antropologici tra le generazioni, in filigrana, indirettamente, molto ha trattato con un certo coraggio tutta la programmazione ERT, sin dalla proposizione del folgorante spettacolo portoghese Catarina… riproposto opportunamente in questi giorni alla Biennale Teatro di Venezia…per proseguire con tutta la programmazione del corpus tragediografico pasoliniano che molto ha da dire in questo senso. Ma soprattutto un tema davvero controverso a questo proposito è anche quello sollevato da più parti intorno ai rischi di conformismo buonista, che eliderebbe i termini di criticità e gratuità o radicalità anche etica costitutivi della pratica artistica…

Ci prova a sfuggire questi rischi, che, bisogna dirlo, al di là di un impegno sociale e pedagogico proprio del modus operandi pubblico amministrativo bolognese sono esistiti per esempio nel dibattito letterario italiano praticamente da sempre, questo festival FUORI! Imperativo esclamativo forse allusivo al necessario emergere dal bozzolo hikikomori per tornare a prendere parola e riacquistare un posto in qualche modo perso o quantomeno reso invisibile nella società.

Il festival, che si avvale di molteplici ambiti di patrocinio e finanziamento, che spaziano dal livello locale delle Scuole di Quartiere, ai fondi europei di risposta agli esiti pandemici, al Pon metro, nonché di molte collaborazioni trasversali e interdisciplinari con realtà territoriali, si avvale della curatela di Silvia Bottiroli ed inizia proprio a chiusura di anno scolastico, aprendo però con una clamorosa ed accaldata serata di talk in cui Paul B. Preciado, una autentica star delle nuove filosofie intersezionali, ma figura sfaccettatissima a vari livelli dato il suo prodursi in ambiti diversificati e non consolidati, ci intrattiene affabilmente a partire dai contenuti del suo ultimo pamphlet Disphoria mundi. Introduce Sylvia De Fanti, della compagine Bluemotion, del resto presente anche con una regia di Giorgina Pi nel proseguo del festival. Dialogano con l’autore Porpora Marcasciano, icona di un certo modo di intendere la militanza di genere per i generi e lo studioso Arfini. La serata, nonostante il titolo potrebbe farci pensare ad una sorta di contemplazione recriminatoria contro le ingiustizie e brutture del mondo, in realtà si rivela una sorta di terapia energizzante, vitaminica in favore di una riappropriazione del nostro orgoglio di creature differenti ed imperfette. Un messaggio che arriva forte e chiaro al folto curioso, pittoresco e mediamente giovane pubblico della serata, prontissimo ad essere galvanizzato da una prospettiva che va oltre il superamento della sofferenza, dello stigma, dell’emarginazione per evolvere nel disegno di un futuro in cui le identità forti contino molto di meno dell’oggi e che forse è già qui, pronto a prendersi tutti gli spazi possibili. En passant l’impossibilità a trovare un posticino in uno dei qualunque di questi recentissimi giorni di programmazione del massacrante ma esaltante trekking urbano Porpora che cammina, che vede la nostra amata Presidenta della commissione Pari opportunità del Comune di Bologna, ancora una volta protagonista, ci testimonia di una attenzione vivissima in città non solo ai Diritti civili, ma all’apporto in termini di postura culturale e civica che tutte le alterità possono contribuire a darci.

E naturalmente appare importante, in un momento complesso anche a livello formativo della realtà nostrana, che un teatro pubblico si faccia carico di assumere punti di vista eterodossi in formulazione educativa.

Il festival si sostanzia come si diceva di un equilibrio intersettivo anche rispetto ai contributi italiani ed esteri e di uno stare in mezzo, al confine tra dimensioni singole e collettive, anche se il tema dominante di riappropriarsi delle piazze ci sembra fulcro centrale della rassegna. Questo trasformare lo slancio emotivo adolescenziale in una risorsa-ponte con i livelli adulti della società è evidente in modo particolare in una sperimentazione ibridata internazionalmente quale Body of knowledge, chiacchierata intima in uno spazio pubblico tra adolescenti bolognesi e adulti al telefono in totale anonimato. Se in questo caso è fondante l’emozione della rivelazione, ci sono altri momenti che esaltano l’euforia del mostrarsi e proporsi. Questo è certamente il caso dell’ accampamento euforico proposto da Coco Guzman in piazza s Francesco insieme alla compagine di guerriglia comunicativa di Cheap, dei talks o speech che quivi si svolgono e naturalmente della ormai mitica nightwalk with teenagers che tanto favorevolmente impressiono i partecipanti di questa sorta di trekking a guida adolescenziale. Percorsi periferici per quanto riguarda la scorsa edizione, in luoghi centralissimi nel caso di quest’anno: i ragazzi muniti di casse musicali pret a porter, più che altro le ragazze estremamente disinvolte e comunicative, arringano dapprincipio i partecipanti in piazza S Francesco e provvedono a sfiancarli subito con giochi animati di gruppo, poi si parte per una vera e propria riappropriazione urbana che stravolge per una volta la fisionomia turistico-gentrificata del centro e regala momenti esilaranti quali la catwalk collettiva sui tappeti di Galleria Cavour, icona del lusso cittadina. Si fa il pieno di speranza per il futuro con il lancio corale di monetine giù dai canali di zona Piella, quando la stanchezza per i non più verdi, che nel frattempo hanno conosciuto un botto di gente, costretti tra virgolette alla familiarizzazione reciproca dal gioco di combinazioni di incontro predisposto dai ragazzi, comincia a farsi sentire. Alla fine di questa esperienza ludica e piena di canti e balli, la narrazione di una generazione depressa e imbozzolata sembra largamente smentita: tristezza, per favore, vai via insomma e stare fuori, appunto, possibilmente insieme, appare l’unica terapia possibile a quel mal di vivere, per questo vivere in allarme, di cui si diceva all’inizio.

Il festival si può proprio dire chiuda il cerchio, dopo averci riservato, è il caso di dirlo, bagliori di consapevolezza con le lucciole di Giorgina Pi a Dumbo e sorprese in video quali il lavoro di Pilgrim alle Moline, con l’attesissima e lungamente elaborata in mesi di permanenza bolognese, azione pubblica Attrito, un concept, diciamo pensato e macinato con attenzione e cura indefesse nei km che intercorrono tra qui e Bruxelles da Anna Rispoli, già tante cose come amorevole Compagnia Pneumatica e Zimmer Frei, il sodalizio più arty uscito dalle compagini performative dell’epoca d’oro dei cosiddetti centri sociali. Una definizione a quanto pare a Bologna, buona per tutte le stagioni della vita, se si attaglia a giovani in autogestione quanto ad anziani bingo-addicted. Non vedevamo, prima di incrociarla con qualche sorpresa iniziale nel corso degli ultimi dodici mesi in tutte le fasi più stimolanti della recente epica alternativa e antagonista cittadina, Anna Rispoli da qualche tempo ed è dunque un piacere fare due chiacchiere con lei a margine di un trekking ulteriore, quale questo lavoro alla fine si rivela essere. Con una sorpresa finale che riesce nell’intento di suscitare dibattito e coinvolgere realmente il pubblico.

Sono diversi mesi che ci incontriamo tra presidi, assemblee aperte, spettacoli off e sinceramente sono rimasta spiazzata in parte da quello che è successo, essendomi fatta l’idea di una ricerca di location ben definita e di spessore in un certo senso storico rispetto alle lotte, per questo tuo ultimo lavoro di nuovo bolognese dopo diverso tempo. Che è successo nel frattempo che ti ha fatto rivedere i tuoi piani iniziali? Come mai ci hai portato in questa zona, metà rurale metà urbana ai confini del quartiere Savena, che forse a partire da me pochi conoscono ( Casa Rossa, per la precisione, un luogo molto bello a suo modo per la verità)?

Ecco, tu stessa nella domanda metti in rilievo il fattore tempo, che è stato centrale sin da subito nelle mie riflessioni e che alla fine si collega benissimo al fattore spazio. Come sai io per circa 15 anni ho fatto parte in tutti i sensi, artistici e politici di un mondo contemporaneamente controparte e parte in causa, rispetto al concetto di reclamare il proprio spazio, trovandosi letteralmente catapultato alla prova della gestione. Perché per occupare bisogna poi saper gestire. Vivo a Bruxelles da molti anni, una realtà molto meno conservatrice e più avanzata per certi aspetti di qui, però con il fatto che la coscienza ecologica è molto più sviluppata, molto più presente è anche un senso di emergenza interiorizzato. tornando a Bologna, anche se naturalmente pensavo di conoscerla abbastanza e ho qui molti punti fermi; tuttavia, mi rendevo conto del fatto si erano stratificate diverse questioni e che se io avessi voluto anche fare delle occupazioni il fulcro del mio lavoro, beh, dovevo accettare il fatto che forse mancava una inventariazione di queste occupazioni per tipologia, ma poi anche per caratteristiche intrinseche, esiti, durata, trasformazione. Cosa diventa una occupazione quando diventa convenzione o patto collaborativo per esempio. Quindi da un lato c’era l’aspetto della memoria, della mitopoiesi, direi di fatti e situazioni che mi riguardavano molto da vicino, dall’altro il discorso del cercare che cosa cercare, nella storia continua di richieste, rivendicazioni e lotte di questa città, ovvero il permanere, la vecchia talpa che scava, le tracce o la discontinuità, il salto di specie. Infine, comunque il tema della trasmissione della memoria e dell’esperienza, se funziona, come funziona, che valenza assume. Ora, le occupazioni, bisogna saperle cronologizzare, ma anche inventariarle. Ci sono occupazioni abitative, occupazioni di luoghi di lavoro come GKN, di studio come le scuole e le università, di passaggio, nel senso di luoghi di transito come quando si fa opposizione al Passante o in val di Susa, infine occupazioni in senso aggregativo, anche temporanee e di queste ce ne sono state tantissime. C’è un’onda di riappropriazione di generi e corpi molto forte in città… un’idea di occupazione queer degli spazi. Contemporaneamente, in un certo qual modo tutto questo, molto più che ai miei tempi qui, che nel percorso sono rievocati da registrazioni del primo TPO in Irnerio, il Tpo ha fatto una operazione di trascrizione quasi diaristica di quei tempi, davvero pregevole, è rispecchiamento di una grande frammentazione esterna di bisogni, di visioni, consapevolezze che attraversa il campo del cambiamento. Avrai notato che, come in un ideale…a futura memoria, nelle sedie che in fine di percorso i partecipanti si ritrovano in radura, c ‘è un pieghevole con un piccolo elenco di occupazioni. Ma sono poche, lo so. È un tema che si può approfondire con le tante intelligenze cittadine, ma qua, devi tener presente che io avevo il tema accettato e condiviso, di lavorare sui più giovani partendo dal presupposto di lavorare prima con loro. E così ho fatto. Frequentando le occupazioni delle scuole, e soprattutto anche dei loro fuori scuola… nel senso magari cercando di capire come si interfacciavano al mondo di quelli un po’ più grandi, degli universitari. Non volevo fare piagnistei sugli adolescenti e il covid, o sul rapporto intragenerazionale fino ai nonni, ma bensì con quelli che magari, se reclamano indipendenza e autonomia, tra poco diventano loro stessi, cioè giovani studenti, precari, con il problema della casa e del reddito. Al di là dell’espressione artistica che tanto interessava noi ai tempi. La città, riesce a dare risposte efficaci a questo bisogno di autonomia peraltro sacrosanto? Questa la vera domanda.

Ma è vero che hai chiesto inizialmente ai ragazzi più giovani di mettersi in scena in luoghi topici delle occupazioni cittadine, quantomeno in sede laboratoriale, ottenendo dinieghi?

Si, all’inizio pensavo che i giovanissimi occupanti delle scuole bolognesi potessero aver voglia, anche in senso contrappositivo, di confrontarsi direttamente con il recente passato, invece no. Mi hanno risposto che volevano fare qualcosa di nuovo. Questo ovviamente ha influenzato, per tornare ai tuoi interrogativi iniziali, anche la scelta del site specific dell’evento…Questo luogo non luogo, una sorta di bosco urbano come Prati di Caprara, che attraversiamo dopo aver lasciato appena un passo dopo di noi, rassicuranti campi sportivi, baretti di antica socialità, periferie residenziali, ha un evidente valore simbolico, di selvatichezza metropolitana, cui proprio la pandemia ci ha ammaestrato ed inoltre, guarda caso sono aree di demanio militare. Questo in tutta Bologna, sin dai tempi delle caserme Sani e Masini e di tutti i progetti in merito sempre sbandierati, pone ovviamente un sacco di problemi, così come tutti i discorsi cassa depositi e prestiti…Si va fuori, in poche parole, ma sempre in cerca di spazio pubblico, per i nostri bisogni. Non abbiamo bisogno di spazi privatizzati per bisogni collettivi.

Ricapitolando: all’inizio si rimane abbastanza sbalorditi da questa camminata in fila indiana, tipicamente boschiva, in un quartiere magari poco conosciuto da molti ma fortemente popolato dai residenti. Ci graffiano i rovi, inciampiamo nei rami caduti… poi veniamo invitati a costruire dandoci da fare con le sedie e la loro disposizione, un piccolo spazio assembleare, sembra di stare sospesi nel nulla, (metafora delle nostre esangui pratiche democratiche…?) ma siamo vicinissimi a tutto, per quanto sia un tutto… tangenziale e non da centro storico… cala lentamente il buio, arrivano le zanzare e lo spettacolo sembra non dover terminare in un indistinto di voci di rabbia, testimonianza, partecipazione…

Mi fa piacere intuire dalle tue parole che l’apporto attoriale, le testimonianze dirette e crude dei giovani occupanti e gli interventi spontanei dal pubblico partecipante siano abbastanza indistinguibili … Certo che abbiamo un range di durata… ma in una certa parte gli interventi di chi vuole prendere parola, sono non contingentati, non prevedibili, non censurabili. Hai potuto verificare quanto il tema del posto dove stare sia fondativo e appassionante…il tema della dignità che sempre ricerca chi sceglie di venire a vivere a Bologna, rilanciato da chi si sente respinto dal modello della città turistificata che ci vuole tutti osti, camerieri e spritz dipendenti… Hai visto che poi c’è stato anche un after show, piano e voce del tutto spontaneo… è molto interessante tutto il filone di pensiero che vede nell’autogestione un vero e proprio metodo pedagogico. Sarebbe certo interessante poter tornare e approfondire e fare una parte due, di questo lavoro. Non è escluso avvenga, sapendo però che abbisogna di continui adattamenti e innervamenti. A me, per esempio, piacerebbe approfondire tutto il filone inerente al discorso della Vita bella che molti collettivi portano avanti e comprendere che valenze abbia. Se riferiamo tutto il discorso delle dinamiche urbane ad una questione di cessione di spicchi di agio e potere che poi vediamo come meccanismo nei riot e nelle banlieu, non so se sia questo il focus… sarebbero interessanti parametri diversi di stile di vita… Qua a Bruxelles abbiamo costituito una sorta di abitazione comunitaria in campagna con 13 famiglie… la comunità è importante da giovani ma anche da adulti e da anziani.

Mi congedo da Rispoli con in testa un paio di considerazioni. Da un lato che alla fine nonostante questa alta percentuale di popolazione di transito cosi forse spremibile come limoni in termini commerciali, difficile da gestire in termini di servizi, imprevedibile nella affezione civica, con un alto potenziale innovativo, il nostro tessuto urbano risulta costituito da tante monadi in solitaria nonostante si conosca l’elevato costo sociale di questa attitudine piccolo borghese, dall’altro che se pensiamo ad un’epoca d’oro dei centri sociali, dobbiamo considerare l’alto apporto di sovversione portato del loro essere factories artistiche. Grazie, comunque, sempre alla pratica teatrale come strumento innovativo e costitutivo del nostro tessuto urbano e civico.

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