Tempi veramente interessanti a Bologna, nel senso più intrigante del termine, da un punto di vista teatrale per questa ripresa di gennaio che riverbera in qualche modo le assegnazioni dei recenti Ubu con le considerazioni a seguire.
Intanto seppur per sole due serate finalmente torna a Bologna il premio Ubu alla carriera 2023 Danio Manfredini, un indiscusso maestro delle scene contemporanee, ripresentando il classico Cinema Cielo: un ottima modalità di continuare a festeggiare il 2025 nella De Berardinis.
Potremmo infatti dire che Arena ha ben cominciato la seconda tranche di stagione proponendo arditamente in continuità dal primissimo pomeriggio del sabato 11 gennaio fino a notte, la trilogia cechoviana composta da Il Gabbiano, zio Vania, il Giardino dei ciliegi per la rilettura drammaturgica e la regia di Leonardo Lidi.
Questa consuetudine di proporre spettacoli monstre o articolati in tranches e capitoli, sembra molto ardita nell’epoca del calo d’attenzione diffuso, ma è in realtà una modalità assai nota ai principali teatri nazionali e di ricerca europei quantomeno. Del resto, vi è una nobile continuità in questo, considerando le più acclarate tradizioni della rappresentazione scenica dal teatro greco antico passando per quello elisabettiano.
Una ascendenza anche popolare a ben vedere, visto che contemplava anche la trivialità dei pasti consumati in loco, la possibilità di commenti ed altro.
Oggi l’idea di vedere un concentrato di teatro “borghese”, verbalizzato dall’inizio alla fine, senza trovate performative scandalose o eclatanti, per di più con la minaccia dei famosi patronimici russi buoni a confondere, può viceversa apparire come operazione estremamente snobistica o di nicchia, perfetta per esaltati di settore, masochisti professionali, secchioni avventurosi o arruolati a lor dispetto nelle schiere di slavofili putiniani, salvo il fatto che in realtà Cechov sarebbe di nascita ucraina secondo le attuali geografie che poi guarda un po’, finisce i suoi giorni in Crimea.
E tuttavia questa triade, che non per caso non comprende Le tre Sorelle, dipanandosi davvero come uno di quegli album musicali concept, degustata, assorbita, elaborata nel proprio personale immaginario in blocco, rivela una sottile continuità di disegno che intriga l’intelligenza e una freschezza quasi sbarazzina che sorprendono in una operazione cosi filologica per certi aspetti,, ma per niente tesa al recupero di, bensì volta a farci essere qui ed ora nella incertezza e delusione esistenziale che sono un po’ la cifra dei personaggi.
Che sono di volta in volta diversi, con nomi e storie diverse, talvolta più romantiche, talvolta più prosaiche, ma che sono tutti espressioni generazionali e di ceto e di classe di un medesimo contesto storico.
La bravura di Lidi e quella del suo fantastico team sta nell’offrire comunque non ai personaggi, ma a te spettatore attivissimo, perché miracolosamente non sedato ed annoiato, una implicita tensione storica di prospettiva che ti fa presagire cosa avverrà di lì a poco per poi fare un giro a 360 gradi ed arrivare ad un oggi ugualmente desolante. Tutto questo evitando appunto sia il recupero che la proiezione avveniristica, mantenendo sempre un altissimo equilibrio tra coinvolgimento e straniamento. Molto è stato ovviamente già detto e scritto su questo enorme e quasi eroico lavoro di fine cesellatura drammaturgica che ha visto debuttare via via le varie tappe al festival di Spoleto ed ha reso una compagine di attori eccellenti, una vera compagnia di giro, in tournee praticamente da tre anni, alle ultime battute di una entusiasmante avventura quando arrivano qui a Bologna. Certamente l’affiatamento concesso da questo ormai desueto percorso ha una sua importante valenza, ma è indubbio che il giovane Lidi, ora di stanza a Torino, dopo una permanenza allo stabile dell’Umbria, formatosi alla scuola di Latella e dunque non certo timoroso delle messe in scena affollate e della direzione degli attori, abbia studiato tantissimo nelle pieghe dell’opera e della vita di Anton Cechov per arrivare all’essenza di senso dei caratteri in gioco e si sia prodotto in uno sforzo di prodigiosa quasi sparizione della regia. Da anni non vedevamo forse in scena attori così autori come in questo caso, anche se la presenza di personalità carismatiche quali Malfitano, Mazza e Cardillo garantiscono pedigree in questa direzione. Andrebbero citati tutti assolutamente, per la loro felicità evidente di aderire al play scenico, considerando che praticamente sono quasi sempre presenti sul palco, spesso anche fissati in una sorta di quasi fermo immagine collettivo, addossati alle semplici pareti, lasciati ad impercettibili tic individuali di postura aderenti al loro personaggio e che li rendono come li considerava il loro stesso artefice: -in fondo sono persone semplici, comuni- Sottratti dunque almeno in apparenza al tormento e all’estasi di altre raffigurazioni celebri nella letteratura russa, ma tuttavia portatori di una disperazione della “transizione” che ci viene consegnata pari pari a noi come contemporanei del realismo capitalista, una volta archiviato quello comunista d’antan. Proprio per questo nucleo incandescente dietro le brume indistinte in arrivo, poiché anche le stagioni in Cechov, sono colte nello sciogliersi tra l’una e l’altra, i nostri antieroi possono permettersi il gioco del travesti, l’attitudine clownesca, un grottesco spinto per quanto riguarda i controversi e irrisolti personaggi maschili senza per questo creare sbavature.
Viene agito in condivisione tra regia e interpreti un riequilibrare gli assetti dei personaggi, in modo che appunto esca rafforzato in quadro d’insieme a sottolineare una sorta di individualismo tuttavia antipsicologista, attribuito in sottotraccia a cause familiari e sociali su cui noi spettatori siamo chiamati a lavorare in autonomia poiché viene appunto suggerito. In questo essere e sentirsi “sfigati” senza possibilità di sottrazione allo stato delle cose, senza possibilità di decifrarlo e nominarlo politicamente sta la grande contemporaneità che incastona questa trilogia tra le cose più significative di italica produzione viste nella stagione trascorsa. Parlante in tal senso la figura ricorrente nei vari drammi del medico alter ego d’autore che in Zio Vania, per esempio, contende la scena e la verve comica allo stesso Jean, come maman Malfitano appella il nostro giullaresco protagonista in omaggio ai francesismi di epoca zarista e di vezzo cosmopolita che forse fanno il paio con i nostri anglismi. Il medico buono, utopista, forse antesignano delle rigorosità vegane, proto ambientalista, rivela meschinità, egoismi, cadute di stile e di etica che vanno oltre il peccato forse non tanto veniale del velleitarismo e non è dunque un rovescio della medaglia ma una inedita metà di una classica coppia buddy buddy, insieme allo zio.
A questo proposito si rivela molto interessante anche il lavoro sui personaggi femminili, non sappiamo quanto consapevole o frutto di un mix di sensibilità dei tempi e, appunto di grandi personalità di attrici in scena su diverse generazioni e capaci di essere carismatiche anche senza battute nonché di essere disinvoltamente ruolo principale e subito dopo caratterista :infatti, non vengono certo sottratte al tedio esistenziale o alle sviste, ai drammatici errori di valutazione, al destino di rovina, ma in qualche modo esse non sono mai patetiche o grottesche: forse perché, persino quando grandi mattatrici e regine di cuori come l’ingombrante madre del Gabbiano, esse, nel mondo dei patronimici, hanno meno responsabilità dirette e subiscono con dolente dignità tutte le ingiurie che il semplice trascorrere del tempo procura loro anche in termini di peso sociale. Forse perché incolpevolmente si ritrovano meno chances di autonomia pur essendo tutto sommato più consapevoli dei personaggi maschili. Fatto sta che esse fanno in qualche modo anche la differenza e questo si vede bene nel distopico più che trasognato Giardino dei Ciliegi che chiude la saga.
Un po’ come se di supporto a queste transfughe donne alla fine finalmente mobili e in corsa obbligata, ma pur sempre in movimento, in controluce potessimo vedere tante Rosselle O’Hara o tante indimenticabili figure del teatro di Eduardo. Questo giardino, oscuro come una selva d’inconscio rimosso e straccione perché fatto di sacchi di spazzatura, segna certo una sconfitta per tanti aspetti, un certo consegnarsi alla ferocia speculativa e all’ignoto ambientale, ma anche un qualche cominciamento migrante.
Questi eccellenti risultati di resa complessiva non potrebbero essere stati raggiunti se con il contributo di una accurata scelta musical canzonettistica ricorrente nelle tre pièce, un uso sapiente di luci e scenografie volutamente scarnificate e l’operazione sui costumi che ha valso un premio Ubu a questa produzione. Si parte infatti nel Gabbiano con gonnelloni e lini bianchi d’ordinanza evitando parasole e trine alla Cortese, si passa per un mood tardi anni Sessanta per Zio Vanja, per approdare infine ad uno streetwear sportivo e anonimo che richiama la precarietà anche economica che tutti ci attanaglia almeno dai 90 in poi e che richiede attitudine alla flessibilità e alla fuga escapista.
Si apre a questo punto anche dibattito sul numero di nomination agli Ubu, certamente inferiore alle aspettative e alle valutazioni di molti per questo lavoro monstre, mentre attendiamo a questo punto con una certa favorevole aspettativa l’operazione maratona che Ert ci regalerà di nuovo poco più avanti con il trittico dalla Montagna incantata per Archivio Zeta.
Come dicevamo, diversi finora sono stati i motivi di interesse per questa grintosa ripresa di stagione di Arena, come ad esempio questo assaggio di focus sulla compagnia ravennate Fanny & Alexander, ancora pur sempre giovane tutto sommato anche anagraficamente, grazie anche a diverse contribuzioni artistiche e attoriali di rilievo sia nella parte attoriale che musicale, ma anche nel nucleo stesso fondante, lo zoccolo duro formato da Luigi de Angelis e Chiara Lagani, realmente adolescenti agli esordi. Fu proprio con questa compagnia, guarda caso anch’essa spesso implicata in operazioni di scavo di grande respiro e lunga durata simili a vere e proprie saghe(pensiamo alla trilogia sul mago di Oz e al lavoro su Amica geniale da Ferrante), che Francesca Mazza del resto vinse un premio Ubu in quanto migliore attrice, che oggi rivince non già per la trilogia di cui sopra ma per l’atteso la Ferocia dall’omonimo romanzo di Lagioia.
Mi accingo a una breve conversazione con Chiara Lagani, per questo approdo bolognese che sarà già avvenuto quando leggerete queste note, quasi con timore reverenziale, data la clamorosa e incetta di premi collezionata in questa edizione dei premi Ubu da Luigi de Angelis in particolare, ma diciamola, perché altrimenti non avrebbe senso, a tutta la compagine, senza contare le nominations comunque ad interpreti anche esterni come l’ottimo Alessandro Berti per questo Nella città di K da Agotha Kristoff, vero asso pigliatutto dell’edizione. Naturalmente il timore di cui sopra è una mera figura retorica nel caso di artisti di questo calibro, che si distinguono anche per lo spessore umano antiretorico con cui portano avanti istanze morali spesso difficili e controverse. Istanze portate avanti insieme ad un coinvolgimento del pubblico che non avviene su base emotiva o demagogico esibizionista, ma su una partecipazione consapevole ad un progetto di eterodirezione. Al momento Fanny & Alexander, si moltiplicano su vari lavori in giro, quasi di repertorio e altri più nuovi o meno visti, sia in spazi più codificati che meno.
In attesa di questo lavoro da Kristoff, frutto di sinergie sia ricorrenti che nuove, estremamente premianti in tutta evidenza e che immagino, vorrà avere approfondimenti, che cosa proponete qui a Bologna? Esiste un repertorio Fanny & Alexander?
Anzitutto, colgo l’occasione per esprimere plauso a tutti i finalisti Ubu, estremamente meritevoli, che sentiamo molto vicini a noi in tutti i sensi, per tanti motivi. Questa piccola chiacchierata mi offre l’opportunità per ricordare i formati rispetto ai quali ci muoviamo. Ovvero, progetti a tappe di approfondimento e i cosiddetti “ritratti mimetici”. In tutto questo, si situa il tema dell’eterodirezione, per noi emblematico di una modalità politicamente attiva su noi tutti in questo momento, ma rispetto alla famosa prospettiva immaginativa in quanto via di fuga, peraltro molto interessante. Nel senso che è una bella sfida per noi supposti autori del tutto e naturalmente non rinneghiamo questa gesto di artifex, che ci appartiene, mediarci ulteriormente rispetto a quanto una rappresentazione già non faccia, con il mood del pubblico in sala. Abbiamo in questo momento in giro spettacoli ad alto tasso di ambiguità e di partecipazione in termini dibattimentali. Him, per esempio, un monologo hitleriano con Marco Cavalcoli, un nostro storico attore a tutto campo, ora di stanza a Roma. Come pure posso citarti Mein Kempf, con Elio Germano, che stimolava gli interrogativi più diversi, dato che il testo hitleriano ispirativo, rimane uno dei più grandi successi editoriali di tutti i tempi. Già qui mi sono accorta che la gente solitamente così ostile alla partecipazione politica o al filosofeggiare, cose quasi ritenute oscene dal nostro mainstream culturale; invece, avevano bisogno di farsi e fare domande. Praticamente avremmo potuto far notte anche alba con la quantità di inputs e outputs che si venivano configurando. In effetti, che esista una cinghia di trasmissione di contenuti è un po’ l’aspetto su cui ci piace lavorare.
Dunque, rispetto a quello che si vede qui in questi giorni, Manson alle Moline è una grande istrionica prova attoriale di Andrea Argentieri, già ritratto mimetico di Primo Levi. Infatti, lui recita o meglio si fa portavoce, in lingua inglese, delle opinioni sul mondo and many more, a firma Charles Satana o Gesù Cristo Manson, che ascolta negli auricolari in forma massiva. Contemporaneamente deve riuscire a fronteggiare le legittime curiosità del pubblico direttamente parte in causa, quasi fosse un pubblico ministero, nel somministrare un set di domande estrapolate dalle ore di interrogatorio e interviste inerenti uno dei casi più clamorosi della nera mondiale contemporanea. E non soltanto per il glamour mediatico della ambientazione e delle vittime, ma soprattutto per l’ambiguità morale del concetto di plagio, per gli ingredienti di manipolazione palesi nella storia e nella attribuzione dei reati e per il fatto molto evidente che Manson sembra il classico figlio deforme, il prodotto mal riuscito danneggiato e dannoso di una catena di comando e consumo globale. Per questo via via che le domande cui il pubblico ha accesso, si snodano nella serata e più il nostro Manson ruggendo e lamentandosi qual belva ferita da voce e corpo alla sua tragedia, più si ha l’impressione di avere di fronte un muro di gomma insondabile.
Per ciò che concerne Maternità, liberamente ispirato ad un testo realmente ossessivo e respingente della scrittrice ebraico canadese Sheila Ethi, sono io in scena ad incarnare contemporaneamente questi dubbi, interrogativi, domande sul materno che sgorgano come un fiotto inarrestabile dalla logica puntualizzante e prescrittiva dell’autrice, insieme però alla direzione imposta alla recitazione, in questo caso non dalle domande, ma dalle risposte suggerite tramite un telecomando dal pubblico. Contrariamente a quanto si può immaginare, in questo caso ho una grandissima libertà interpretativa rispetto ai feedbacks del pubblico e questo, quindi, è molto interessante da confrontare e capire rispetto a Manson. Io costruisco un mondo emotivo rispetto ai nervosismi, alle risate, alle esitazioni del pubblico al quale scelgo di reagire. Infine, non ho neppure più bisogno di controllare le risposte quantitativamente esattamente ripartire tra sì, no, non so, altro etc. perché l’arrovellarsi dell’autrice già le comprende tutte e ci dice già___0 molto di stigma, tabu, preconcetti e pregiudizi che lavorano nell’inconscio femminile a riguardo dell’argomento. Le possibilità. i limiti e le devianze del controllo sono i temi che in generale ci interessano come gruppo perché afferiscono con la pervasività contemporanea delle tecnologie che non possiamo rifiutare, ma solo cercare di capire e con il mestiere del palcoscenico, su quanto siamo demiurghi o sottoposti ad una sorta di general intellect. In questo specifico caso di Maternità, si è reso per me necessario organizzare incontri a ridosso della rappresentazione, con donne che nella loro esistenza artistica ed intellettuale avessero affrontato il tema perché mi ero rapidamente resa conto di quanto molte persone, per fortuna non solo donne, fossero turbate dai medesimi ragionamenti e interrogativi in merito ed anche casomai qualcuno in più. Per Bologna, ho invitato Alessandra Sarchi, scrittrice, Fiorenza Menni attrice e regista con cui collaboro volentieri da tempo e infine Simona Vinci, scrittrice che ammiro ma anche esempio significativo di esistenza piena sia da non madre che madre. Ciò che il pubblico sempre ci restituisce fa il resto. Anche la maternità, per l’appunto è un tema eteronormato ed eterodiretto, anche se sembra dettato da pulsioni primarie o forse proprio per questo è il più culturalmente condizionato, perimetrato e blindato in tutte le sue forme narrative.
Dopo questo excursus in territori ufficiali, per così dire, il mio invito è naturalmente di stare molto sintonizzati su tutti i luoghi e spazi teatrali dell’area metropolitana bolognese, a partire dai circoli, dalle case del popolo, dai teatri di provincia e specie in questi giorni della Memoria perché le iniziative si moltiplicheranno e come sempre intrapresa e partecipazione dal basso creano universi e fanno tanta differenza in senso qualitativo e democratico.