“Il filo di sabbia” è stato prodotto grazie al racconto della cooperazione internazionale territoriale svolta dalle organizzazioni emiliano-romagnole e dalla resistenza dei rifugiati. E così, tra il cielo e il deserto, in un campo nel sud-est dell’Algeria per una notte simile al “Cinema sotto le stelle” di Piazza Maggiore, è stata possibile la proiezione del documentario
Le notti del “Cinema sotto le stelle” in Piazza Maggiore sono vicine. Il tramonto che arriva a sollevarti dal calore di una giornata asfissiante, il fascio bianco del proiettore che prende il posto della luce del giorno, le ombre che si muovono sullo schermo e la storia che ci rapisce e ci porta con sé, come in un sogno. Per me quest’anno questo momento è arrivato in anticipo, il 4 maggio, in un luogo remoto e lontano. In una notte che ha rappresentato il punto di contatto tra Bologna, la mia città d’adozione, e i campi saharawi. Nell’arena di una scuola di cinema, nel deserto più duro al mondo, in un campo rifugiati a sud-est dell’Algeria, hanno proiettato il mio ultimo documentario “Il filo di sabbia”. Senza questa adozione tutto questo non sarebbe stato possibile.
Sono venuto qui nei campi per la terza volta in quattro anni: c’è tanta Bologna nei campi, lo si vede nelle storie narrate dal documentario, c’è tanto saharawi a Bologna, in tutta l’Emilia-Romagna, perché il legame con questo popolo è davvero profondo. La proiezione è il compimento di un lungo percorso: parallelamente allo sviluppo dei progetti umanitari di Cisp (Comitato Internazionale per lo Sviluppo dei Popoli), Nexus Emilia-Romagna e Rete Tifariti in collaborazione con la nostra Regione, l’uscita di un libro e un crowdfunding che ha trovato la partecipazione di molti bolognesi, si è dipanato “Il filo di sabbia”. La produzione esecutiva è stata affidata all’associazione Instant Documentary Aps che, negli anni, ha esplorato diverse forme di racconto documentaristico sulla vita nei campi e la storia dei saharawi. A presentare il film, oltre a me, che per una volta non sono il più emozionato di tutti, ci sono Hamudi Farayi e Abdala Bana, i due saharawi che hanno lavorato al documentario, loro sì che sono emozionati. C’è anche Giulia Olmi di Cisp, che da oltre 40 anni lavora proprio tra Bologna e i campi.
Scommettere su questo progetto non sarebbe stato possibile dappertutto. Certe cose accadono quando la cultura di un territorio è in grado di comprendere quanto sia importante considerare patrimonio ogni aspetto della vita quotidiana e, soprattutto, quando in questo quotidiano la solidarietà è una tradizione. Fino a pochi mesi fa “Il filo di sabbia” era solo un’idea: quella di raccontare come si può accompagnare un popolo rifugiato da oltre 50 anni e ignorato da buona parte della comunità internazionale senza mai prevaricarlo, senza pietismo, senza retorica, senza alcuna presunzione, proprio come fanno le organizzazioni dei protagonisti. Oggi, invece, le immagini girate nei campi scorrono sullo schermo e raccontano come si estrae l’acqua dal deserto per fare degli orti, come si fanno delle vere e proprie start-up per l’imprenditoria femminile in un campo rifugiati, come si sostengono programmi educativi, alimentari, progetti nelle scuole, con i disabili, come si organizza l’accoglienza di nuovi rifugiati in arrivo dai territori di guerra nel Sahara Occidentale.
Ricordo quando, insieme a tutti i promotori di questo progetto, abbiamo deciso di organizzare questa proiezione nei campi. Non immaginavo che mi avrebbe portato a guardare gli occhi di questi ragazzi, di questi bambini, di questa nazione intera di rifugiati nel vedere questo documentario con la stessa espressione rapita che ho io nelle notti di cinema in Piazza Maggiore. Mi rendo, però, conto che non poteva essere altrimenti, che prima di tutti lo dovevano vedere loro perché questo filo di sabbia che ci lega al popolo saharawi diventa ogni giorno più solido e, se decidiamo di tracciarlo insieme, può resistere al vento e brillare come l’oro.
Questo articolo è stato pubblicato su Cantiere Bologna il 20 maggio 2023