Tra le poche certezze di questo difficile momento storico, caratterizzato non soltanto da notevoli turbolenze, ma soprattutto da una frammentazione del contesto sociale, da una parcellizzazione dei punti di vista e dei saperi che non lascia neppure scampo per un po’ di sana visionarietà, c’è quella relativa al teatrino che i vari comparti, per così dire, dell’esistere, o quantomeno del nostro esistere economico ed ecologico, inscenano, alternando il ruolo di cenerentole e dittatori.
Naturalmente in tutto questo, un ruolo da mattatore, al momento, lo ricopre il tema sanitario, in tutte le sue variabili declinazioni di sistema e di salute pubblica. Ma sarebbe poi meglio dire che se ci aspettassimo allora una dittatura della Prevenzione o della Programmazione, dell’Epidemiologia e dunque della lettura di contesto rimarremmo molto delusi, causa uno schiacciamento del dibattito corrente sulle parole d’ordine vaccinali e di emergenza. O, al contrario, su qualcosa di futuribile e inaspettato che non siamo stati messi in grado di pensare. L’impressione complessiva di questa dicotomia si ricava plasticamene nel fine settima successivo alle prime festività di novembre, in una prima sferzante mattina di autunno che vuol far sul serio, sui gradini che portano all’entrata di Palazzo Re Enzo, dove due mondi si sfiorano senza purtroppo veramente confrontarsi tra loro e quasi loro malgrado si rappresentano ad uso giornalistico.Stiamo parlando da un lato della giornata di presentazione pubblica di questo dossier di proposte per il futuro della Sanità,( sorvolando un poco o meglio accorpando rispetto a pubblico e privato), organizzata dalla società Planning e da un centro studi blasonato e bocconiano che vede la benedizione politico amministrativa da parte delle nostre massime istituzioni politico amministrative territoriali dall’altra del cosiddetto variegato Movimento per la salute dal basso, coagulatosi intorno all’Assemblea per la Salute del Territorio, di base al Quartiere Navile negli spazi rigenerati della Ex centrale del Latte di Corticella. Naturalmente, visto che si cominciano anche a fare bilanci e raccogliere i cocci di quanto è successo in questi lunghi mesi e sta ancora succedendo, molte altre sono le iniziative che si appressano all’orizzonte, in un interessante combinato di eventi di stampo più istituzionale e di altri più marcatamente di base. Come ad esempio, la mattinata mobilitativi indetta del Collettivo Prometeo,ovvero sigla di studenti di Medicina, convocata al padiglione 11 del sant’Orsola, o la presentazione a Zola degli esiti di una necessaria ricerca sui bisogni dei caregivers, commissionata dal distretto sanitario Lavino- Samoggia o ancora rumours su possibili sviluppi di servizi psicologici di supporto già sperimentati in via telefonica durante le fasi più dure della pandemia ad opera della stessa azienda sanitaria, ma con il recupero evidente di un certo spirito pionieristico e meno burocratizzato dei tempi d’oro del nostrano welfare.
Mentre in tempi di lockdown pesante, i vari think tank, parte integrante di quel complesso mondo di intrecci economici, sanitari, sociali politici e aziendali mai cosi in evidenza, cercavano di venire a capo di una possibile riorganizzazione futura, plausibilmente volano di investimenti, d’altro canto nella vita del prosaico quotidiano, scandito dall’arcobaleno delle zone di rischio, gli attivisti facenti capo a diversi collettivi, centri sociali, raggruppamenti associativi, si davano da fare a vari livelli, cercando di tenere insieme teoria e prassi per amore dei bisogni espressi dalla popolazione dei quartieri periferici, dalle sacche di disagi e fragilità vecchie e nuove che caratterizzano le nostre comunità urbane.
Come si vedrà, per gli uni e per gli altri, la grossa incognita è quella di riuscire ad impostare una strategia o un lavoro di lunga lena che prescindano dai termini classici di una programmazione, ma possano esprimersi in condizioni di instabilità e imprevedibilità.
Mentre alla spicciolata salgono i big della politica locale tampinati dai flash dei fotografi e dalle telecamere e dai microfoni, appena di fianco all’entrata i giovani determinati attivisti con il loro striscione spiegano ai cronisti più volonterosi muniti di taccuino e attenzione le ragioni di questo secondo appuntamento in presenza (a distanza di sei mesi dall’appuntamento Sindemia 1), dislocato in periferia, ma ben nutrito di partecipanti: si attendono infatti 150 autoconvocati da ogni parte d’Italia, come poi infatti sarà e naturalmente le domande vertono per lo più, sulla natura e l’identità, di questi partecipanti-relatori.
Non può esserci dubbio alcuno, invece, sulle caratteristiche dei relatori e dei partecipanti sia in collegamento che in presenza, di questa giornata di resa pubblica di trenta proposte elaborate da un team targato CERGAS-SDA Bocconi, sotto la direzione scientifica del professor Francesco Longo, docente di economia delle Aziende e delle amministrazioni pubbliche presso Università Bocconi. Evidentemente tutto nella impeccabile organizzazione e accoglienza, nella preponderante presenza maschile, quantomeno per questa sessione mattutina, almeno a colpo d’occhio, perché poi scopriamo essere femminile la conduzione di project management dell’evento e della ricerca stessa, nata da un’idea della società Planning, che, appunto, non vuole essere accademica ma pragmatica, fattuale, condotta anche in modo innovativo perché relazionale tra un confronto serrato pubblico-privato tra i principali attori della Sanità del Paese, ci fa capire di essere in una situazione dove si raccontano e discutono cose importanti e decisive, non semplicemente interessanti o intelligenti. Il titolo della ricca giornata, mostra già la consapevolezza precisa della posta in gioco:Area Sanità-strategie per la Salute del Paese, ovvero, come si diceva, un libro bianco non tanto su ma per la Sanità del Futuro, nato dalla constatazione di vulnus e arretratezze dell’italico sistema sanitario, ma anche di best practices di adattamento e in soldoni spirito di sacrificio e abnegazione dei pur risicati addetti e che quindi indirizza suggestioni, visioni, proposte, su un triplice fronte: Lavoro, Tecnologie digitali e Big Data. Perché questi focus e perché proprio adesso, mentre rifletto sul mio sentirmi come in aeroporto, è presto detto, scorrendo i partner di pratiche, una denominazione che già insospettisce, prendendo la parte per il tutto dell’Umanità, azienda leader mondiale nella creazione di soluzioni integrate per l’incontro tra domanda e offerta e lo sviluppo di carriera, con occhio vigile alle possibilità di dispiegamento degli ormai obsoleti profili sanitari e, of course, Microsoft Italia. Dire naturalmente, sembrerebbe uno sgarbo qui, dove vige una sorta di implicito bon ton linguistico che impone di considerare l’inglese come una sorta di viatico per i sentieri altrimenti nostranamente impervi della assertività, della ragionevolezza, delle magnifiche sorti e progressive. IL kairos, invece è dato dalle risorse, udite udite, del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, che forniscono, per chi sappia coglierla, il sottinteso, una opportunità forse unica per il rilancio dell’intero sistema Salute, ovvero pubblico sì, ma anche ni e no, sapendo bene il ginepraio di forme ibride in cui ci muoviamo.
Nel frattempo, mentre attendo che si dispieghino in ogni possibile modalità gli interventi annunciati dei “nostri”, Matteo Lepore, Stefano Bonaccini, Raffaele Donini e Luca Rizzo Nervo, della ministra dell’Università e della ricerca Maria Cristina Messa, del Ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi e di Francesco Ubertini, nuovo presidente di Cineca, difendendomi come posso dagli spifferi che una areazione in era Covid impone, non ho tempo di chiedermi come mai non appaia in programma, almeno in questa prima parte che posso seguire io, un saluto dal Ministero preposto alle cose di salute pubblica, cullata come sono dalle ipnotiche immagini di rassicurazione-fitness che si susseguono in video. Suadenti voci mi parlano nella lingua di Albione a commentario di bimbi ridenti, giovani donne atletiche, persone che corrono su cieli azzurri e montagne verdi, in perfetta forma fisica e invidiabile silhouette a spingere il concetto della salute come prevenzione. Gli interventi degli amministratori pubblici che ci competono sono puntuali e brillanti, al di là di ogni considerazione politica più generale e si spartiscono bene i ruoli. Bonaccini, che rivendica le positività della Regione, Donini, che pone in luce i problemi che si affacciano, il neo eletto sindaco, che, almeno per questa sessione della giornata di approfondimento, mi pare l’unico a parlare di disuguaglianze, di diritti e ci tiene a spiegare perché per il momento si tiene la delega ai servizi sociosanitari e in qualche modo comprendo i perché ci siano tutti. Come mi pare di evincere, dato lo spirito massimamente assertivo della situazione, che implicitamente invita a non piangere troppo sul latte versato e ad evitare in qualche modo di parlare troppo di pandemia, di scansare di compiere un’analisi epidemiologico-ambientale, multifattoriale di quanto accaduto, per concentrarsi sulle opportunità di un futuro tutto da scrivere, viene in qualche modo cosa naturale per il team a trazione bocconiana, cercare una interlocuzione nella nostra Regione. Non soltanto tradizione di pragmatismo ed efficienza, basti pensare all’invenzione del Cup, o sistema unico di prenotazione, magari un tantino imbolsito ma si sa, in queste cose si invecchia in fretta, bensì possibile territorio di bensì avanzate, posto dove il know how di base e un tessuto organizzativo già ci stanno. Vengono infatti ricordati gli “avventi” in programma, come il centro di calcolo, ovvero il quarto computer più potente forse al mondo e il centro meteorologico europeo. Tutte eccellenze che si tireranno dietro una variegata comunità internazionale di tecnici, scienziati, esperti di settore. E in questo mondo di dati sensibilissimi, una parte importante la gioca la governance dei big data anche nella scienza medica con tutti i suoi corollari farmaceutici e sociosanitari.
Stupefacente, per certi aspetti, spigolando dalla analisi iniziale nella documentazione allegata sulla situazione di assetto sanitario italiano, per certi aspetti assai simile a quella che potrebbe essere propria di una qualche assemblea di comitato per un tavolo sulla Salute, si arrivi ad esiti ben diversi che ci proiettano vertiginosamente su scenari futuribili tanto affascinanti, quanto inquietanti per il livello di ambiguità e fraintendimento cui si prestano. Delle tantissime cose dette, tutte in qualche modo vere, degne di discussione e riflessione approfondita, presentate in modo fluido, sciolto, smart, per meglio dire, da un conduttore facilitatore che svolge tutto per bene salvo di dettaglio, usare sempre un maschile onnicomprensivo riferendosi alla platea reale e virtuale, spiccano certamente almeno per me tre concetti basilari: l’evidente interdipendenza disciplinare e di settore necessaria per forgiare questo nuovo Moloch, che sembra rispondere più a dettami aziendali e ingegneristici che medici in senso classico, o meglio, di comune percezione, il fatto che questo piano di resilienza, almeno per il settore in esame, non sarà certamente una manovra espansiva, di investimenti aggiuntivi, come forse un poco ci si illude in giro, ma una manovra riorganizzativa che ci insegnerà ad essere più produttivi con quanto abbiamo. Se è vero poi che nessuno vuole intestardirsi sul discorso ospedali e posti letto ospedalieri, stiamo ben attenti a non coltivare idee romantiche sulla cosiddetta medicina territoriale: ci viene ricordato a chiare lettere che non stiamo parlando del buon vecchio medico di famiglia o del medico condotto, anche se alla sottoscritta risulta che il ripristino viceversa, di figure consimili, mutatis mutandis, in molti paesi sia una sorta di nuova attestazione della medicina pubblica, bensì di telemedicina, robotica e al massimo, di Case della Salute o Case di comunità, o ospedali di comunità, una sorta di ibridi, o prodotti intermedi, su una scala di 50 mila abitanti.
Ora, bisogna dire che chi scrive, al netto dei limiti personali, biografici e generazionali, non è per niente ostile all’impiego di tecnologie vecchie e novissime in qualsiasi campo applicato: sono convinta che assai peggio avremmo affrontato quanto ci è capitato senza di esse, che anzi, casomai il nostro problema è di essere arretrati in tutti i sensi su questi argomenti e ben si è visto sui temi DAD e smart working, quali gap dovessimo affrontare. Sono convintissima del proficuo utilizzo della robotica in numerosi settori medico chirurgici, sono consapevole del fatto che persino certe forme di consulenza terapeutica on line di tipo psicologico o di sostegno nel disturbo alimentare, abbiano nei mesi scorsi fatto anche egregiamente la loro parte, tuttavia certi scenari, non soltanto volti al disbrigo del noioso iter burocratico di ricette e prescrizioni, che potrebbe avvenire con generale sollevamento completamente on line e una per tutte su malattie cronicizzate e ricettari ricorrenti, ma che tende a eliminare dalle nostre vite, la pur temuta e già rarefatta presenza del medico in persona, mi risultano alternativamente deboli, poco convincenti, vagamente inquietanti. Si cita in pratica un’unica volta un paziente tipo, identificandolo nel solito anziano con patologie stabilizzate, che magari sta lontano nel paesello in cui ha chiuso l’ospedale, impossibilitato a muoversi, che potrebbe trarre vantaggio da un consulto on line, salvo poi dimenticare quanto siano inefficienti le nostre reti e quanto ci sarebbe da fare in termini di alfabetizzazione informatica.
Il fatto è che tutta l’elaborazione, come già detto, in qualche modo seducente perché volta al futuro prossimo, al desiderio di archiviare un fallace presente, alla legittima aspirazione alla razionalizzazione, dopo un poco appare imbozzolata su se stessa priva come è di riferimenti all’azienda intesa come servizio e dunque perciò stessa vincolata al bisogno, al parere, all’interlocuzione con una sorta di controparte, che non vorremo mai definire né clientela, né utenza, né pazienti, ma cittadinanza o meglio ancora comunità. Sentendo oltretutto, in ciò che stiamo dicendo, un senso ulteriore e sottile di inadeguatezza, perché sappiamo benissimo che le comunità vanno costruite, che non sono ad oggi quasi mai omogenee, che le analisi di contesto sui bisogni e sui territori sono difficilissime e ancora sghembe e insufficienti, prima di arrivare a capire ciò che veramente serve o è funzionale e rispetto a quale obiettivo. Quale l’obiettivo, in questo caso, se non una astratta semplificazione e velocizzazione, data solo dalla potenza di elaborazione, dal maggior numero magari di apparecchi diagnostici, ma non dalla ricchezza delle competenze sanitarie, per esempio. Tutti i ragionamenti sui grandi numeri sembrano esulare dalle nostre aspettative e dalle nostre attese di sei mesi ed oltre per certe tipologie di esami specifici, dalla nostra frustrazione per sentirci male accolti e compresi, soprattutto frustrati per la standardizzazione delle prestazioni. Se noi comuni mortali abbiamo la percezione,che i medici quantomeno nel settore pubblico ospedaliero o della medicina generale di base siano troppo pochi o quantomeno, invecchiati, ebbene, errore e ce ne dovremo fare una ragione perché in realtà stiamo quasi in media europea, viceversa è di infermieri qualificati e forse meglio remunerati che dovremmo aver bisogno: si impongono comunque criteri di scioltezza e mobilità facilitata nelle assunzioni, che nel nostro contesto, appaiono un tantino rischiosi. Sui medici la verità è che svolgono troppi adempimenti burocratico-amministrativi, più che essere pochi, pertanto, le vere figure chiave che per l’appunto potremmo pescare e allettare da ogni altro settore, anche qui con qualche rischio evidente, sono quelle amministrative e quelle di ingegneria delle risorse umane e a seguire di ingegneria informatica. Con qualche nuovo profilo in via di definizione cui persino la lingua inglese più smart e più tech, non ha ancora trovato una definizione, ponendosi al centro di complesse competenze di management, informazione, comunicazione, formazione continua e promozione. Il delicatissimo lavoro su grandi quantità di dati di ogni tipo, appare cruciale sia per la sopravvivenza stessa dell’azienda, sia per le sue relazioni, con l’esterno e pensando ai continui hackeraggi effettuati ultimamente sui sistemi informatizzati delle aziende ausl, qualche brividino mi corre per la schiena. Quanto appunto, alle strutture di prossimità per eccellenza come le Case di Comunità apparentemente inventate per essere capillarmente diffuse sui territori, sento già voci levarsi in favore di range di popolazione non inferiori appunto a cinquantamila abitanti e già complesse prima di snellirsi: penso quasi senza pensare, addio medicina narrativa, addio equipe di microarea, se bisogna sempre ragionare su grandi numeri. Non si capisce bene l’approccio consultoriale dove mai potrebbe trovare posto in una visione siffatta, o i gruppi di mutuo auto aiuto, le pratiche preventive, la rappresentanza delle estese comunità di caregivers e parenti di pazienti, tutto ciò che riguarda il benessere mentale. Sin troppo evidente che in questo contesto di discorso difficilmente, proprio per lo sbilanciamento a favore del settore privato, sentiremo accenni di critica casomai al doppio statuto di tanti medici: del resto che tipo di carriere anchilosate offre oggi il nostro sistema sanitario pubblico o che tipo di formazione, a quanti vogliano intraprendere un percorso medico o infermieristico? Certo, sento dire in fin di mattinata che appunto una situazione imprevedibile e in evoluzione offre anche opportunità inventive e di sperimentazione, che la relazione con la governance politica dovrebbe essere più stretta, ma di approccio anche umanistico non si parla e di persone, se non nei termini ormai lugubri di anziani con molte patologie, nemmeno, pertanto, dal mio personale punto di osservazione, non vedo le tanto auspicate possibilità di divertimento nell’intraprendere quest’opera di rimodellamento di sistema.
Tutta un’altra musica, senza che questa affermazione ci sollevi peraltro da una serie di criticità, alle due intensissime giornate dibattimentali, più che di studio, dedicate al quesito degno della Sfinge, come si esce dalla Sindemia: qui almeno non si può prescindere dalle emergenze pandemico-ambientali considerate detonatori e cartine al tornasole di una situazione di forte malessere sociale che trova nei paradigmi di Cura, il punto più alto insieme di elaborazione e di caduta. Intanto, peraltro, anche i convegni dell’ufficialità, per cosi dire, non si fermano e si svolge in diretta streaming il mega appuntamento di livello internazionale sulla Scienza Medica, a trazione Fondazione Carisbo che già nelle passate recenti edizioni aveva galvanizzato il pubblico bolognese: anche qui, la Pandemia la fa da padrone schierando una serie impressionante di quelli che ormai sono divi,a tutti gli effetti, della comunicazione sociale:, ovvero virologi, microbiologi, immunologi, epidemiologi. Anche in collegamento i numeri dei partecipanti sono altissimi ed è forse confortante sentirsi dire che l’Italia, che un cosi alto tributo ha pagato in termini di vittime, ora sta facendo bene ed uscirà per prima dalla pandemia. Anche qui potremmo dire che le campane sono tante e diverse, basterebbe leggere qualcosa sull’arcinoto blog di un noto collettivo di intellettuali bolognesi o capire un po’ meglio cosa avviene in Cina, li dove tutto è cominciato, per comprendere quanto i punti di vista e di approdo possano essere molteplici.
Tornando alle giornate di Croce Coperta ed ex Centrale del Latte, di cui su questa testata si è parlato con la bella intervista al giovane studioso e sociologo Luca Negrogno, anima di molto di quel che si muove a latere delle istituzioni e degli enti nell’ambito sociosanitario, giornate preparate in parte per la compagine bolognese, dall’incontro significativamente titolato, A che punto è la Notte, bisogna dire anzitutto che per il tipo di approccio espresso dagli attivisti, dagli operatori, dai ricercatori e medici presenti realmente da tutta la penisola, Sicilia compresa, molto difficile era scegliere uno solo dei tavoli di lavoro, dei quattro designati.
Infatti, una nuova definizione di Salute, non può che forgiarsi in rapporto alla critica del sistema sanitario pubblico o meglio allo svilimento e impoverimento del medesimo e contestualmente a tutta la questione della genesi e della gestione pandemica, passando per il discorso della verifica dei fronti di conflittualità aperti nel paese in questo momento.
L’ambizione dichiarata è quella di sfuggire il rischio dei bla bla bla e del parlarsi addosso, per costruire reti che nel tempo sappiano durare e produrre contenuti e possibilmente azioni.
In realtà si parla ordinatamente ma animatamente moltissimo, senza per fortuna che il tutto si assimili ad un rumore di fondo: tutti sono consapevoli della difficoltà della battaglia e di percorsi di lunga lena da ricostruire: non solo sono tantissime le provenienze geografiche e ciò rende molto difformi le condizioni di fondo di provenienza e operatività, ma anche le fasce generazionali e gli ambiti di intervento. Spesso ci si conosce poco o niente e bisogna impegnarsi con un po’ di pazienza per aver voglia di ascoltare tutti e conoscersi: non poter seguire simultaneamente tutti i partecipatissimi tavoli è un po’ un limite, ma certo ci sono poi le riprese registrate e il documento di sintesi scaturito dalla plenaria della domenica sera.
Si delineano differenze di attitudine e approccio tra i padri nobili delle lotte e delle trasformazioni degli anni 70, numerosi medici provenienti dalle fila di Medicina Democratica, oggi alle prese non soltanto con un difficile testimone da passare ai più giovani, ma con un vero e proprio processo di critica ed autocritica, rispetto ad una serie di dinamiche tossiche in qualche modo scaturite da scelte fatte a suo tempo dai movimenti stessi e rivelatesi insidiose in prospettiva. Si cerca di fare storia, si citano al tavolo dedicato al rapporto col sistema sanitario, nomi di ministri che sembra un secolo fa e sono pochi decenni: i più giovani non ci stanno a seguire supinamente la lezione. Anche loro hanno studiato la storia del welfare e una idea se la sono fatta. Dirimere il complicato intreccio di volontariato tout court, settore privato e di che scala, terzo settore, attivismo, in relazione alla Sanità è cosa molto ardua e sul tema della sussidiarietà,, la discussione si accende: è una fonte concettuale di matrice cattolica, puntualizzano i medici democratici, cui opportuno sarebbe non abbeverarsi, ma il fatto è che i giovani degli ambulatori popolari costruiti un po’ ovunque in Italia, i ragazzi delle staffette alimentari e dello sportello salute di Labàs, i giovani medici del collettivo Prometeo, non si sentono in odore di sussidiarietà. Definiscono mutualismo o azioni politiche le loro pratiche solidaristiche, rivendicano il fatto di non voler chiacchierare, ma fare e di essere costretti a farlo per l’aperta carenza di servizi popolari, a bassa soglia di accesso specie su certi settori di intervento. Se l’esperienza dei giovani palermitani è addirittura di un servizio vaccinazioni appaltato praticamente in affiancamento al sistema sanitario, più sofisticati sono i servizi erogati dai bolognesi, in una città in cui le reti di servizi sociosanitari non dovrebbero mancare, anche se oggettivamente con il Covid sono stati piuttosto assenti. A loro volta i medici più agé e in specie di area romana, espongono le loro esperienze anche recenti di attivismo in quartieri o meglio aree aziendali sanitarie che sono vasti come cittadine e in cui esistono si nuclei di resistenza popolare sui consultori, sulle interruzioni di gravidanza dato l’enorme numero di medici obiettori, sulle parossistiche liste di attesa, la mancanza di cup e via così, ma sono ben consci che nel mainstream del dibattito pubblico questi temi non contano e non riescono a saldarsi con altri movimenti per aprire una vertenza generale e incisiva. Può anche passare Zero Calcare e regalare un fumetto dedicato, ma poi non c’è neppure una vera campagna di controinformazione come si diceva ai tempi e tutto il dibattito si appiattisce sui vaccini. Ci si ricompone sulla necessità di tenersi cara la non banalità di tanta gente lontana e diversa che ha sentito il bisogno di venirsi a confrontare di persona prescindendo dalle sigle di appartenenza. Si conviene di lavorare sulla individuazione di poche parole d’ordine facilmente assimilabili e riconoscibili per l’opinione pubblica, oltre i movimenti già connotati e pare certo che il prossimo appuntamento a cadenza ormai regolare, sarà in maggio e sarà a Roma.
Tanto per non farmi mancare niente, decido di andare a vedere più da vicino la discussione aperta indetta dallo sportello di aiuto psicologico- psichiatrico di Labàs, sportello caratterizzato da un vero e proprio intervento di triage con seguente presa in carico, per quanto breve, attivo ogni venerdì pomeriggio nella sede di Vicolo Bolognetti Il disagio psicologico è fortemente in aumento e i giovani specializzandi dello sportello, per via della loro collocazione strategica, si sono trovati ad intercettare le fragilità della popolazione studentesca specialmente fuorisede, apparentemente “seguita”, anche da Alma Mater dopo il verificarsi di alcuni casi di suicidio. In realtà, il servizio pensato dall’Università stessa ha liste d’attesa lunghissime ed è del tutto insoddisfacente rispetto al gran numero di giovani che auto dichiarano varie forme di malessere, esasperate in seguito al forzato meccanismo indotto dalla pandemia, di stop and go con brusche accelerazioni da parte di tutte le attività universitarie. I giovani dichiarano la loro vittimizzazione rispetto ai parametri ultra competitivi del sistema formativo e a ben vedere di tutta la società, come pure una sostanziale incomprensione perché è vero, nei consultori di oggi ci sono percorsi molto tecnici predeterminati su poche categorie di utenza e relative problematiche, rispetto ai temi delle identità di genere oggi ben più di due e tutt’altro che definite una per tutte. I soggetti non binari, che aspirano ad una vita, una sessualità, una forma di famiglia apertamente divergente, soffrono di ansia e depressione, cosi come i portatori di disturbi alimentari e sono pochi i servizi loro dedicati. Il ventaglio delle storie, delle esperienze, delle pratiche e narrazioni è molto ricco e si comprende come il lavoro che c’è dietro sia notevole ed encomiabile, tuttavia per strappare di nuovo la Salute mentale, dal ruolo di Cenerentola della medicina, al punto più basso degli investimenti pubblici sanitari, si comprende come occorra fare reti, rivolgersi ad un vasto mondo di operatori fuori dal proprio fortino, coinvolgere le istituzioni di studio dedicate, le equipe delle microaree, forse anche l’amministrazione locale e, a mio avviso, ingaggiare anche con una depressione, culturale e artistica, una critica ai saperi acclarati e cercare un coinvolgimento delle famiglie dei pazienti, dei caregivers, delle associazioni di mutuo auto aiuto, perché la Storia dimostra che il moltiplicarsi delle soggettività interessate in campo, porta trasformazioni di lungo respiro. Si annuncia per il prossimo futuro il coinvolgimento dei mitici gruppi di lavoro teatrale triestino e questo mi pare un passo nella giusta direzione. La sensazione che si ha è che in maniera molto diversificata, spesso tentennante e anche ambigua, la forza delle circostanze ci stia riportando al cuore di un discorso di Cura come fonte di conflitti e sperimentazioni come da tempo non accadeva, vedremo se ci sarà la pazienza, la forza, la determinazione di costruire un campo meno frammentato di ipotesi di cambiamento.