Dalla dispersione implicita alla povertà educativa, le formule che risuonano nel dibattito italiano sulla scuola rivelano spesso un’incapacità di analizzare i problemi
Le proposte sulla scuola sono una delle parti più deboli dei programmi dei partiti. Prima delle elezioni Pagella politica li ha messi in fila, mostrandone la vaghezza e l’assenza di copertura economica. Loredana Lipperini sull’Espresso ne ha analizzato la pochezza dell’orizzonte ideale.
Dal centrodestra sono arrivate idee strampalate come il liceo del made in Italy o riproposizioni stanche del neoliberismo classico, come gli aiuti al sistema scolastico privato con il buono scuola. Dal centrosinistra l’attenzione alla scuola si è espressa soprattutto nella richiesta di un aumento del tempo che gli studenti devono trascorrere a scuola e della retribuzione dei docenti. Ci sono state dichiarazioni estemporanee come quelle di Vittorio Sgarbi che ha proposto di entrare a scuola alle 10, creando confusione su un problema molto serio come quello delle carenze e delle difficoltà di sonno degli studenti.
Dall’altra parte il massiccio, crudele, ormai trentennale disinvestimento nella scuola ha prodotto un disastro. I mezzi d’informazione lanciano allarmi: i nostri ragazzi non sanno leggere, non hanno le competenze minime per interpretare un testo elementare, più della metà degli studenti è a rischio analfabetismo. Ma nel dibattito sulla scuola continua a mancare la riflessione pedagogica.
Nelle formule che si usano si avverte l’incapacità di analizzare i problemi che la scuola si trova di fronte. Anche questa non è una questione recente. Si può far risalire ai tempi dell’assemblea costituente e alla genesi repubblicana della scuola. L’anno prossimo sarà il centenario della riforma Gentile, e il sistema educativo italiano è ancora in gran parte basato sulle scelte fatte nel 1923.
L’idea di scuola ispirata da Giovanni Gentile s’impose anche perché non c’erano pedagogisti e pedagogiste nell’assemblea costituente; nella commissione scuola si confrontavano importanti intellettuali che però di sistemi educativi e di pedagogia sapevano molto poco. L’esito fu piuttosto infelice: Aldo Moro riuscì a conseguire un obiettivo politico di grande conservazione. Sulle questioni cruciali nell’assemblea c’erano quattro schieramenti – cattolici, marxisti, liberali nazionalisti, laici socialisti – e i cattolici furono in grado di creare una doppia alleanza strategica: con i liberali conservatori, ex monarchici, anche ex fascisti, si batterono perché l’impianto gentiliano restasse immutato, selettivo e autoritario; con i marxisti mediarono perché venissero attivate forme di scuola popolare, per analfabeti e per persone svantaggiate.
Il risultato di questa strategia democristiana fu che le richieste dei laici e dei socialisti più avanzati furono di fatto marginalizzate o estromesse dal dibattito. Oggi, con i partiti ormai ridotti a fragili compagini elettorali, il dibattito sulla scuola è egemonizzato da visioni che per molti versi sono eredi di quella doppia alleanza: classista da una parte, compassionevole dall’altra.
Da una parte c’è la prospettiva espressa, alle volte senza nemmeno mediazioni politiche, dalla Confindustria, che insiste per una scuola selettiva, per l’investimento sulle materie Stem (scientifiche e tecniche), sull’incremento degli Istituti tecnici superiori, più orientati al lavoro, sull’intoccabilità dell’alternanza scuola-lavoro. Dall’altra c’è l’idea che di fronte alle carenze sempre più evidenti del sistema, invece di intervenire con investimenti pubblici nella formazione dei docenti, si possa e si debba affidare al privato sociale l’urgenza di tamponare le situazioni socialmente più critiche, con un’attenzione speciale per le aree periferiche o extraurbane. E per legittimare queste due visioni di risposta alla crisi si usano analisi di sistema che sono funzionali al rimedio.
Studiare per il pil
Prendiamo due espressioni sempre più usate nel dibattito sulla scuola: la dispersione implicita e la povertà educativa. Il termine dispersione implicita è diventato di uso comune durante la pandemia, in particolare nella discussione sui test Invalsi: indicherebbe quella quota di studenti che terminano il percorso scolastico senza aver acquisito le competenze fondamentali in nessuna delle tre materie monitorate dall’Invalsi (italiano, matematica e inglese). A impuntarsi sulla dispersione implicita sono gli ideologi della scuola di Fratelli d’Italia, Luca Ricolfi e Paola Mastrocola, nel loro ultimo libro Il danno scolastico, nel quale insistono molto sul fatto che la scuola seleziona poco, mandando avanti studenti privi delle risorse culturali per affrontare con ragionevoli probabilità di successo l’università. La loro idea è che la scuola progressista – intendendo la tradizione dell’educazione democratica – ha abbassato il livello della valutazione e quindi della preparazione.
Ma di dispersione scolastica implicita ha parlato anche Save the children a maggio scorso, con un allarme lanciato in occasione dell’apertura di Impossibile 2022, un convegno sui temi dell’educazione: “La dispersione scolastica implicita, cioè l’incapacità di un ragazzo di 15 anni di comprendere il significato di un testo scritto, è al 51 per cento. Un dramma, non solo per il sistema di istruzione e per lo sviluppo economico, ma per la tenuta democratica di un Paese. I più colpiti sono gli studenti delle famiglie più povere, quelle che vivono al sud e quelle con background migratorio”.
In realtà, come scrivevo con Cristiano Corsini qualche mese fa, il concetto stesso di dispersione implicita è vago: slegato da un’indagine sociale accurata e contestualizzata. La nozione di dispersione inapparente usata dal pedagogista Benedetto Vertecchi in un saggio del 2012, ci orienta in modo più chiaro su come intervenire per migliorare il sistema educativo: investendo in didattica attiva e occupandosi dei contesti sociali nei quali le scuole si trovano. Il Pnrr destina un miliardo e mezzo di euro al contrasto alla dispersione implicita, ma non indica in che modo questi soldi dovrebbero essere investiti dalle scuole, proprio perché forse è la nozione stessa a essere confusa. Il rischio è quello di mescolare in modo eccessivo gli interventi di welfare con quelli educativi.
La contrapposizione tra povertà educativa e ricchezza educativa non ci aiuta a leggere le disuguaglianze e le crisi
Anche il termine povertà educativa si è ormai imposto in molti documenti ufficiali del ministero dell’istruzione, e ricorre nel dibattito pubblico e politico. L’espressione è apparsa in Italia per la prima volta nel 2014, in un report di Save the children intitolato La lampada di Aladino: “Per povertà educativa intendiamo la privazione di opportunità per bambini e adolescenti di apprendere, fare esperienze, crescere e sviluppare liberamente capacità, talenti e aspirazioni. Per un bambino, povertà educativa significa essere escluso dall’acquisizione di quelle competenze necessarie per vivere in un mondo caratterizzato dall’economia della conoscenza, dalla velocità e dall’innovazione. Allo stesso tempo, povertà educativa significa anche limitate opportunità di sviluppo emotivo e relazionale, di rapporti interpersonali e di scoperta di sé e del mondo”.
È un concetto multidimensionale, che mette in relazione la deprivazione economica e le carenze scolastiche ed educative. L’idea è nata in ambiente anglofono ed è legata alla teoria economica del capitale umano: l’istruzione è considerata un investimento che aumenta “lo stock di competenze e conoscenze produttive incarnate nelle persone”. A un dollaro investito in istruzione corrispondono tot dollari che quell’investimento porta alla società tutta.
Un’estensione, o meglio un’elaborazione, della teoria del capitale umano è rappresentata dalla teoria del signaling. Con questa prospettiva abbiamo una spiegazione complementare del perché i lavoratori più istruiti ricevono salari più alti e i meno istruiti salari più bassi. Secondo questa teoria, l’istruzione ha una funziona di segnale: i datori di lavoro utilizzano i titoli di studio, i “segnali”, piuttosto che testare le competenze, per prevedere la produttività degli individui. L’obiettivo delle politiche educative quindi dev’essere valorizzare al meglio non solo le competenze, ma la capacità di rendere visibili queste competenze.
Per entrambe le teorie l’istruzione è al centro dello sviluppo e della lotta alla povertà: andare a scuola aumenta il pil di un paese, per semplificare. All’interno di questa cornice teorica, il concetto di povertà educativa nasce proprio per cercare di tenere insieme la dimensione economica e quella educativa introducendo un’altra dimensione ancora: quella sociale. La sfera concettuale dell’educazione e quella del sociale hanno ovviamente molti ambiti comuni e intrecciati, ma se si tende a farli coincidere, il rischio è di annacquare e distorcere alcune importanti prospettive interpretative e d’intervento. Il concetto di povertà educativa, per esempio, diventa misurabile: parliamo per esempio di capitale umano, capitale culturale, e quindi per converso parliamo di mancanza di capitale.
Ma la contrapposizione tra povertà educativa e ricchezza educativa non ci aiuta a leggere le disuguaglianze e le crisi né a intervenire in modo adeguato. Si limita ad applicare una categoria economica prima alla sfera sociale e poi a quella educativa, con il rischio di piegare o di semplificare alcuni aspetti.
L’articolo 3 della costituzione parla di rimozione degli ostacoli, evoca un orizzonte di uguaglianza sostanziale, che contiene in sé una trasformazione valoriale, non solo una compensazione sociale. Se interpretiamo la crisi del sistema scolastico o di parti importanti del sistema scolastico come una crisi soprattutto sociale, anche la cura sarà di tipo sociale. La storia della scuola democratica ci chiama invece proprio al suo opposto, cioè a rendere ogni intervento un intervento anche di alto profilo pedagogico.
Questo articolo è stato pubblicato su L’Essenziale il 6 ottobre 2022