Tutto il tempo che rubiamo a ragazze e ragazzi a scuola

di Christian Raimo /
27 Maggio 2025 /

Condividi su

Qualche settimana fa il ministro dell’istruzione e del merito Giuseppe Valditara ha inviato una circolare alle scuole in cui chiedeva un maggiore coordinamento tra gli insegnanti nell’assegnazione dei compiti e nel calendarizzare le verifiche per evitare “un carico di lavoro troppo gravoso per gli studenti”. La circolare non indicava le misure da prendere ma rivelava sicuramente un sintomo del più importante problema della scuola italiana: la mancanza di tempo. Soprattutto la mancanza di tempo per la spiegazione, il laboratorio, la riflessione, il confronto, la lettura, l’approfondimento in classe e una didattica consapevole.

Se da una parte non si può non essere d’accordo con il consiglio del ministero, dall’altra sembra evidente che una parte di cause di questo problema sia nel modo in cui la scuola si è trasformata negli ultimi anni. Partiamo da un dato centrale: l’Italia è uno dei paesi al mondo in cui gli studenti dedicano più tempo ai compiti a casa. Un’indagine Ocse-Pisa del 2018 indicava in 8,5 ore a settimana il tempo medio che gli dedicavano, molto di più di quello registrato nella maggior parte dei paesi europei e Ocse. In Francia e Germania, per esempio, le ore erano quattro-cinque, nei paesi scandinavi quasi zero. Solo la Russia aveva una media simile alla nostra. Anche secondo una ricerca del Censis del 2024, ragazze e ragazzi italiani passano moltissimo tempo sui compiti a casa, una media di 2,3 ore al giorno. Ed è chiaro come questo sovrabbondante carico di lavoro a casa causi anche disuguaglianze, tra chi ha genitori in grado di aiutare o di pagare insegnanti per le ripetizioni private.

Quali sono le ragioni principali di questa situazione? La prima, evidente, è l’eccesso di verifiche e interrogazioni, in nome di una scuola ridotta a spiegazione-compiti a casa-verifica. È quello che emerge anche da una ricerca del 2023 sul rapporto tra studenti e sistema scolastico. Ancora più che il disinteresse per lo studio o la conflittualità con i docenti, il problema fondamentale secondo ragazze e ragazzi è che la scuola somiglia a una fabbrica di voti. La falsa credenza che la normativa imponga un “congruo numero di voti” fa sì che i collegi docenti stabiliscano che per ogni materia alla fine di ogni trimestre o quadrimestre se ne debbano avere un certo numero. Nella maggior parte dei casi non sono il risultato di attività di confronto o laboratorio, ma di verifiche e interrogazioni. Questo è anche dovuto a una cultura pedagogica che privilegia una “valutazione sommativa” a una “formativa”.

L’educazione civica

C’è però una ragione in più dietro la sottrazione di tempo agli studenti. Negli ultimi anni in Italia non c’è stata una grande riforma dopo quella nel 2015 della cosiddetta Buona scuola. Ma attraverso modifiche normative apparentemente piccole, l’intero assetto didattico del sistema dell’istruzione sta cambiando, in maniera meno visibile ma non meno drastica. Sono state introdotte nuove materie de facto: i percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento (Pcto), l’educazione civica, l’orientamento, che non solo rosicchiano tempo alle attività curricolari ma modificano anche il senso dell’educazione alla cittadinanza.

Nel 2020 è stata invece reintrodotta una materia vera e propria in tutti gli ordini di scuola: l’educazione civica. Con la legge 92 del 2019 se ne prevede infatti l’inserimento come disciplina trasversale a tutti gli insegnamenti e con almeno 33 ore dedicate all’anno, divise tra tutte le materie (quattro o cinque per lettere, una o due per storia dell’arte, per esempio). Anche educazione civica prevede un voto, che per prassi è la media tra tutti i voti che danno i docenti. Non è impossibile, anzi capita spesso, che a partire da questo spezzettamento uno studente abbia una marea di valutazioni in educazione civica, a partire da attività brevi o brevissime. Nelle scuole coordinare un progetto globale di educazione civica, non essendoci un dipartimento ad hoc, è molto complicato. Il risultato è che l’educazione civica, anche se è una materia con cui si potrebbero realizzare attività didattiche realmente formative, finisce spesso per essere vittima di arbitrio e vaghezza.

Esistono però delle linee guida nazionali. Quando il ministero dell’istruzione di Lucia Azzolina aveva reintrodotto questa materia, l’aveva immaginata articolata lungo tre assi – costituzione italiana, sviluppo sostenibile e cittadinanza digitale – pensando a una formazione per gli insegnanti però molto ridotta rispetto agli obiettivi da raggiungere: poche ore, tutte con corsi online, e pochissimi soldi stanziati. Come può un professore trattare in classe questioni importanti come lo sviluppo sostenibile e la cittadinanza digitale dopo essersi formato in qualche incontro online di poche ore?

Il ministero Valditara non ha mutato l’assetto didattico. Ha però introdotto delle nuove linee guida. È un documento con tratti ideologici dichiarati. In una lunga introduzione si mette in discussione la lettura socialista della costituzione a vantaggio di una lettura personalista, cioè basata sulla prospettiva filosofica di matrice cristiana il cui rappresentante più importante è Emmanuel Mounier; si individuano come centrali i concetti di “talento” e di “dovere” provando ad ancorarli maldestramente nel dettato costituzionale; e soprattutto si dà moltissima importanza ai valori dell’identità italiana e del patriottismo.

“Le linee guida per l’insegnamento dell’educazione civica offrono una cornice efficace entro la quale poter inquadrare temi e obiettivi di apprendimento coerenti con quel sentimento di appartenenza che deriva dall’esperienza umana e sociale del nascere, crescere e convivere in un paese chiamato Italia”, si legge nel documento. E ancora: “L’educazione civica può proficuamente contribuire a formare gli studenti al significato e al valore dell’appartenenza alla comunità nazionale che è comunemente definita patria, concetto che è espressamente richiamato e valorizzato dalla costituzione”.

Queste linee guida sono state contestate da molte associazioni di insegnanti, e hanno spiazzato i collegi docenti che dovevano rimodulare un’attività didattica già difficile da progettare. Lo stesso sta succedendo alle case editrici scolastiche che devono fornire una strumentazione didattica per una materia curricolare ancora senza uno statuto disciplinare.

L’orientamento

Una seconda novità introdotta di recente riguarda le ore dedicate all’orientamento. Dall’anno scolastico 2023-2024 nella scuola secondaria di primo e di secondo grado sono state introdotte un minimo di trenta ore all’anno da dedicarvi. Per i primi tre anni queste ore possono essere curricolari o extracurricolari; al quarto e al quinto anno si devono svolgere nell’orario curricolare. Anche in questo caso l’ambizione è che le attività di orientamento diventino parte costitutiva di tutte le materie, e trasversale.

Ma i limiti di questa novità sono gli stessi di quelli dell’educazione civica: sono state introdotte due nuove figure di professori, il tutor e il docente orientatore (il primo è interno alla scuola, il secondo esterno) ma anche in questi casi la loro formazione è avvenuta in poche ore e spesso online. Inoltre, ancora più che con l’educazione civica, lo statuto disciplinare delle ore di orientamento è debole. Le linee guida sono tracciate in un documento vago. Il risultato è che queste attività rischiano di ridursi a momenti di informazione (disomogenea per qualità) sul funzionamento (soprattutto burocratico) dell’università e degli istituti tecnici superiori (Its), alla cui promozione il ministero dell’istruzione e del merito tiene molto.

Anche in questo caso, invece di valorizzare metodi e discipline come la letteratura, il diritto, la psicologia e l’antropologia, che potrebbero dare un senso a un orientamento di tipo veramente formativo, si è scelto la soluzione al ribasso di delegare a cosiddetti esperti la riflessione sulle scelte fondamentali degli studenti.

A questi nuovi impegni vanno aggiunte le ore Pcto, l’evoluzione della precedente alternanza scuola-lavoro: 210 ore per gli istituti professionali, 150 per i tecnici e 90 per i licei, da fare durante gli ultimi tre anni delle superiori. Anche in questo caso abbiamo delle linee guida ministeriali molto dettagliate, ma la realtà delle scuole è ben diversa.

Riuscire a organizzare attività di Pcto di qualità è molto difficile, perché è impegnativo portare fuori gli studenti, trovare aziende o associazioni che si impegnino a seguire un progetto didattico con la scuola per tanti ragazzi e ragazze, e monitorare i percorsi. La scelta che viene fatta dai docenti è spesso, loro malgrado, al ribasso: pacchetti di corsi online che si possono svolgere in autonomia, anche a casa, e che spesso prevedono un’interazione ridotta al minimo da parte degli studenti.Anche nel caso dei Pcto c’è da notare la debolezza per cui è stata di fatto introdotta una materia che ha criteri didattici completamente diversi da istituto a istituto, con una disomogeneità di opportunità enorme: nei licei dei centri urbani spesso sono proposte attività di formazione di livello semiuniversitario, nei professionali di periferia o provincia il rischio è quello che somiglino a lavoro gratuito.

Se facciamo un conto del monte ore che queste attività prevedono, si arriva ad almeno una ventina di giorni pieni di scuola, che riescono a integrarsi difficilmente con il resto, e che spesso interrompono o affaticano le attività curricolari. Ma non è solo la questione del tempo a essere problematica nell’introduzione di queste materie, quanto l’aver delegato ad attività con uno statuto disciplinare incerto l’educazione alla cittadinanza. È sempre meno facile avere il tempo per ragionare, studiare, riflettere sui temi della cittadinanza, dell’inclusione, dei diritti attraverso la riflessione sulla lingua, i processi storici, la filosofia politica, la vita in classe.

Nella scuola italiana la scelta delle materie corrisponde a quella di metodi e discipline che hanno statuti scientifici molto chiari alle spalle: il metodo sperimentale, quello argomentativo, quello storico, eccetera. I percorsi di formazione per insegnare storia o inglese, matematica o scienze, sono molto lunghi e selettivi. Proprio all’interno di queste discipline si matura anche l’idea di cosa sia un’educazione alla cittadinanza. Studiare grammatica o lingua straniera secondo i princìpi della linguistica democratica ci fa capire il senso di questo passaggio della costituzione: “Tutti i cittadini hanno pari dignità e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua”. E magari affrontare quel doloroso paradosso per cui pensiamo di fare educazione alla cittadinanza con studenti che non si vedono riconosciuti la cittadinanza stessa perché, nonostante siano da sempre qui in Italia, hanno genitori stranieri. Il che fa della scuola italiana un’istituzione ancora per molti versi razzista.

Riconoscere continuità e discontinuità attraverso lo studio del metodo storico spinge a interrogarci sull’evoluzione delle forme politiche. Confrontare la riflessione politica di Platone e Aristotele, Locke e Hobbes, aiuta a formare una coscienza civica. Ripercorrere le tappe significative nella conquista dei diritti sul lavoro dà senso all’articolo 1, che dice che viviamo in una repubblica fondata sul lavoro. Per ottenere questi risultati occorrono tempi lunghi, approfondimenti, confronti guidati, letture: tutto ciò che manca sempre di più alla scuola.

La condotta

Dobbiamo aggiungere un altro recentissimo cambiamento normativo e un’altra trasformazione ormai avvenuta nelle scuole italiane.

Da novembre scorso è entrata in vigore la legge 150, che prevede che sia dato un peso più importante al voto in condotta alle superiori: se inferiore a sei si è bocciati o non ammessi all’esame di stato; se pari a sei, “il consiglio di classe assegna un elaborato critico in materia di cittadinanza attiva e solidale da trattare in sede di colloquio dell’esame conclusivo del secondo ciclo”; e soltanto se ha nove o dieci in condotta, lo studente può ricevere “il punteggio più alto nell’ambito della fascia di attribuzione del credito scolastico spettante sulla base della media dei voti riportata nello scrutinio finale”.

I collegi docenti si sono trovati quindi a discutere di questa nuova norma mentre era già cominciato l’anno, quindi dopo aver deciso i criteri per la valutazione della condotta, e in molti casi hanno dovuto rivedere quei criteri o gestirli in modo meno stringente per non penalizzare studenti che avrebbero la possibilità di uscire con un voto alto alla fine delle superiori. Il voto in condotta pesa sempre di più all’interno della valutazione di ragazze e ragazzi senza che la condotta ovviamente sia una disciplina. Le associazioni degli studenti stanno protestando da due mesi per quella che sembra solo una misura repressiva.

Sicuramente è una misura che non considera il fatto che la valutazione della condotta non è decisa secondo criteri comuni a tutte le scuole ma da collegi docenti, singoli consigli di classe e professori che finiscono per “giudicare il comportamento” di uno studente in modo che può essere quasi del tutto arbitrario. Anche qui come se avessimo inserito surrettiziamente una materia senza aver dato un senso pedagogico e didattico a questo inserimento.

Questo articolo è stato pubblicato su Internazionale il 26 maggio 2025

Articoli correlati