La notte della scuola

di Roberto Maragliano /
24 Giugno 2022 /

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Prima c’è stata la pandemia, che non sappiamo se e quando finirà, non fosse altro per gli strascichi che sta lasciando già ora, nei corpi e nelle sensibilità, e, temiamo, continuerà a lasciare nel futuro. Poi è venuta la guerra in Ucraina, che non sappiamo se e quando finirà, ma della quale metterci a pensare gli strascichi sembra, oggi come oggi, un lusso inaccettabile: di ben altre preoccupazioni siamo portatori.

Insomma, nel giro di due anni l’intero mondo circostante la scuola è cambiato, e non di poco. Al punto che siamo tutti indotti a pensare (anche se non sempre abbiamo il coraggio di dircelo) che la realtà che c’era prima, nel bene come nel male, non tornerà più. Del resto, è stato autorevolmente sostenuto (dal filosofo Roberto Esposito, in un articolo sul quotidiano Domani del 7 maggio 2022) che “stiamo passando dal tempo delle crisi permanenti al tempo delle catastrofi incombenti”. Finché ci misuravamo con le dinamiche del primo tipo eravamo indotti a pensare che una soluzione ai problemi ci potesse, anzi ci dovesse essere. Scoprirsi dentro le spirali di un disastro, ovvero dentro le dinamiche del secondo tipo, sottrae legittimità a quella assunzione. Dunque, è notte fonda.

Preferiamo non pensarci e indulgere a parole consolatorie. Presi come siamo dall’angoscia che ci procura il venir meno di alcune delle sicurezze materiali e psicologiche che pensavamo ‘di sempre’ (dove l’essere in pace tendeva a coincidere, lo sapessimo o no, e oggi lo capiamo, con la condizione dell’essere lasciati in pace) dedichiamo poca attenzione allo sfaldarsi di alcune delle sicurezze concettuali che fin qui abbiamo vissuto come perenni o quasi: in primo luogo quella, su cui ci eravamo abbondantemente adagiati, di una linearità della nostra vicenda, corrispondente all’idea di una storia, quella di noi essere umani, che, sia pure con interruzioni o rallentamenti, avrebbe seguito ed eseguito un percorso definito di progressiva emancipazione e liberazione da ogni ristrettezza materiale, economica, politica, sociale. Ovvero, crescita della scuola e crescita della democrazia come un tutt’uno.

Entrare nel mood della complessità significa riconoscere che la linearità o la testualità sono forme di sapere e non il sapere stesso, equivale ad accettare che ogni incremento di conoscenza non sia solo e non sia tanto ‘un passo in più’, ma valga anche e soprattutto come un incremento dello spazio di problematizzazione del reale e dei suoi rapporti con l’immaginario.

Dopo la pandemia e la guerra non possiamo più permetterci una scuola e una università che illudono e si illudono di fornire una rappresentazione univoca e giusta del mondo.

Due cose avremmo dovuto impararle dal doppio colpo che abbiamo subito, pandemia più guerra in Ucraina: 1. che non esistono problemi semplici; 2. che le soluzioni che adottiamo per risolvere i problemi (semplici o complicati che siano) non sono mai definitive. In sostanza, avremmo dovuto capire in che cosa consista la complessità e cosa comporti l’affrontarla. L’abbiamo fatto? Direi di no, constatando le reazioni ai problemi nuovi che sorgono tuttora, giorno per giorno, davanti e dentro a noi.  E sì che non sono mancate le occasioni perché scoprissimo questa dimensione del reale, e dunque che ci misurassimo con il muro morbido della complessità. Anche su questo versante non c’è bisogno, io credo, di ricorre ad esempi macro. 

Facendo un ulteriore passo in avanti, o verso l’alto, potremmo cogliere, nell’esercizio di questo piccolo problema, come di tanti altri simili, il ruolo che svolge l’illusione che per affrontarlo sia sufficiente provvedere alla sua gestione efficace, dunque che, sostanzialmente, lo si debba soltanto amministrare: il che equivale a sciogliere i nodi, linearizzare, rendere razionale il percorso della soluzione. Non è così, in quanto nessun provvedimento di questo tipo, ovvero così amministrato, è totalmente al riparo da una sua parziale o totale presa in carico da parte dell’agire politico e questo, a sua volta, raramente è al riparo da problemi di maggiore entità e peso, quelli che riguardano le regole generali del gioco. Sperimentando questo atto minimo del procurarci la mascherina, rivelatosi di fatto difficile, o rinunciando forzatamente ad attuarlo, ci siamo trovati coinvolti e stretti dentro un inestricabile groviglio di elementi di tipo amministrativo, politico, costituzionale. 

E oggi, sulla scena della guerra, i meccanismi che connettono problemi a soluzioni sono poi così diversi? Direi di no. Si possono amministrare gli effetti inflazionistici dell’aumento della bolletta della luce, ma non c’è modo di farlo senza che se ne ripercuotano gli effetti sul piano politico generale e che quindi anche in questa piccola cosa si registrino le ripercussioni del conflitto sul potere in atto a livello mondiale.

Nel presentare il volume collettaneo Per un manifesto del digitale nella scuola, che l’editore Mimesis distribuisce nelle librerie a settembre 2022, i tre coordinatori Alberto De Toni (ingegnere), Roberto Masiero (architetto), Silvano Tagliagambe (filosofo della scienza) sostengono che quella del digitale è una rivoluzione già avvenuta, che ha già cambiato il nostro modo di pensare e di agire. Dunque, la scuola non può non tenerne conto.

“Una scuola che sappia farsi ponte … non ha paura del cambiamento, non teme di sen­tirsi parte di una rivoluzione epocale globale, quella del digitale, non si ritrae pavida di fronte a esso ma assume su di sé il compito di governarlo, di studiarne e gestirne le conseguenze per quanto riguarda sia i modi di pensare che di fare, mettendo le nuove ge­nerazioni e tutti noi in condizione di chiedersi e di capire cosa sia il digitale e quali opportunità e pericoli offra. È grazie al digitale che possiamo costruire nuovi ponti, che possiamo far interagire informazioni, fatti, cose e persone con l’internet di tutte le cose, che possiamo raccogliere, conserva­re e manipolare una immane quantità di dati per elaborarli con una sempre più estesa e diffusa capacità non solo di calcolo, ma anche di riflessione e pensiero critico. La complessità, che da sempre ha accompagnato le vicende umane, si sta rivelando una straordinaria risorsa”.


È a questa altezza che va posto, io credo, il problema del rapporto fra apparato tecnico, sapere, formazione: questione che dovrebbe essere all’ordine del giorno, in considerazione dei vincoli europei. Il modello puramente amministrativo non funziona, ma nemmeno il modello politico dà garanzia di riuscita: la questione di fondo che la rivoluzione digitale pone è sulla natura e la funzione del sapere che la scuola riproduce. In gioco c’è un tema istituzionale o costituzionale, che riguarda l’ordinamento disciplinare della scuola tutta (ed anche dell’università): si tratta della necessità, ormai ineludibile, di rivedere in chiave dialettica e senza assumere barriere troppo rigide l’insieme dei rapporti di sapere tra interno ed esterno, disinteressato e interessato, analitico e globale, riservato e mondano. Il tema drammatico che una società pienamente digitalizzata pone alla scuola non è tanto il come insegnare quanto il che cosa (e perché) far apprendere.

Che fare dunque della nostra scuola e della sua parziale ma comunque importante esperienza di uso didattico delle risorse digitali, a ridosso delle vicende della didattica a distanza e delle figure che si sono succedute? Che si fa dell’immaginario collettivo, di antica e dubbia matrice, che le garantisce cornice e sostegno?
Non basterà gestire al meglio la nottata, come s’è fatto fin qui, ed aspettare che finisca definitivamente il periodo dell’emergenza, nel quale è stato necessario, per l’istituzione, fare compromessi con quella tecnologia digitale che prima ci si compiaceva di rappresentare come un ostacolo, un intralcio rispetto alla retta via dell’apprendimento mediato da un insegnamento testualizzato e testualizzante. Aspettare equivarrebbe ad aggravare la situazione, non fosse altro perché, lì dentro, nel buco nero della scuola, c’è, pesantemente, il riflesso di un conflitto senza quartiere tra forme diverse di mediazione (anche in senso materiale) dell’intelligenza e della cultura.

L’argomentazione che Antonio Polito sostiene dalle colonne del Corriere della Sera del 25 maggio 2022 è tutt’altro che disinteressata: “Oggi tutti, o quasi … sanno… La partecipazione al dibattito nazionale pare assicurata a tutti dalla Rete e dai social. Per questo a molti è parso che le nuove tecnologie potessero dar vita ad una democrazia più genuina. Ma la differenza sta in come apprendiamo: se attraverso la lettura e la comprensione di testi, più o meno complessi; oppure attraverso immagini, grafici, video, slogan”.
Gestire alla meglio la questione o peggio attendere che si sciolga è delittuoso e comunque autolesionistico, perché su questi spazi di realtà amministrazione, politica, costituzione fanno un’unica matassa: sono gnommero, pasticciaccio, giallo a soluzione aperta, per richiamare Gadda.

Non lo vedevamo, ma anche prima amministrare significava coinvolgere questioni politiche e istituzionali: trattandosi però di aspetti (nel caso, di aspetti di identificazione e funzione della scuola) su cui c’era un consenso pressoché universale, era giocoforza che si intervenisse perlopiù a livello di amministrazione. La pandemia, costringendo ad aprire la scuola (paradossalmente, per via che erano chiuse), ha messo sotto gli occhi di tutti il fatto che esistono modi diversi di gestire il rapporto fra insegnamento e apprendimento e che dunque, piaccia o non piaccia, ci possono essere modi diversi di essere e di fare scuola. Il digitale scolastico, insomma, non può essere solo ‘amministrato’ da viale Trastevere, tantomeno può essere solo addomesticato dal parlamento, in quanto pone problemi di tipo istituzionale, relativi a identità, sostanza e immagine complessiva di ‘scuola’.


Finché il digitale, inteso come infrastruttura materiale e concettuale, è stato tenuto fuori della didattica o è stato tollerato, ma solo in specifiche situazioni, ci si è potuti illudere che governando bene l’impianto amministrativo, politico, costituzionale della scuola del libro e delle discipline ci si potesse tenere al sicuro e soprattutto si potessero tenere i ragazzi e le ragazze al sicuro rispetto ad inquinamenti di tipo ideologico, consumistico, materiale, spirituale; su questa linea si è arrivati addirittura a ritenere che l’infrastruttura epistemologica su cui poggia la tradizione del sapere scolastico avesse dentro di sé le risorse utili a ridimensionare, con opportuno esercizio critico, il potere di colonizzazione mentale (e spirituale) della ‘cultura del computer’. Ma una volta entrata nella vita delle classi (la pandemia ha, semplicemente, accelerato un processo irreversibile), la tecnologia digitale non ha potuto evitare di far valere le sue prerogative e far agire queste in dialettica, se non in conflitto con le prerogative classiche della scuola (spesso, ahimè, ancora coincidenti con le caratteristiche della scuola classica, almeno a casa nostra).

L’abbiamo visto tutti: tra il digitale e la didattica corrente c’è incompatibilità. 

Basta un link a far saltare la linearità di un percorso, basta un motore di ricerca a mettere in crisi l’ordinamento disciplinare, basta una condivisione di esperienza a inquinare l’autonomia dell’agire singolo; è sufficiente un’immagine, è sufficiente un suono perché la solidità marmorea della parola stampata cominci a sgretolarsi. Link, motore, condivisione, immagine, suono: sono cose semplici. Come lo sono altre cose di cui abbiamo fatto in così poco tempo così tanta esperienza (anche in relazione al compito di formazione e aggiornamento dei professionisti della docenza): penso a comodità, gratuità o connettività.

Lì e non solo lì sta la forza del digitale, cioè nel farci entrare in cose complesse attraverso la via della semplicità e dell’immediatezza. Un bimbo due/tre anni può gestire una sua personale programmazione di cartoni su un tablet, facendo intervenire, con questa sua esperienza di montaggio, tutte le ‘cose’ che ho indicato e producendo una condizione e una modalità generale dell’esperire assolutamente impensabile, anche per un adulto competente, fino a qualche anno fa. Ma attenzione, si tratta di un semplice che è carico di complessità: ci si può fermare al primo livello, come fa il piccolo, oppure no, tutto sta a educare e educarci a questa dialettica, a questo dialogo tra semplice e complesso. Aggiungere un dato informativo personale ad una mappa condivisa di rete è operazione assolutamente elementare, dal punto di vista operativo, ma che tocca aspetti molto elevati di complessità epistemologica. Tutto sta a capirlo e a costruirci ragionamenti attorno e dentro.

Nel modello di scuola cui ancora ci richiamiamo il semplice non espone al complesso come fa il digitale, al contrario lo cela. Pensiamo ad una mappa stampata: è immodificabile, tutto quel che c’è da sapere è lì e tutto quel che c’è da fare sarà di riprodurla, comprenderla. 

Se vogliamo, la differenza di fondo fra le due semplicità consiste nel fatto che in un caso (il sapere fisso) la complessità sta tutta dietro le quinte mentre nell’altro caso (il sapere mobile) essa è sempre in scena. Sta qui la funzione e il valore di ciò che ci siamo abituati a chiamare ‘piattaforma’, cioè la forma specifica che assume lo spazio di organizzazione e gestione di un’esperienza. Il libro è la piattaforma privilegiata per l’amministrazione dell’esperienza di acquisizione di un sapere fisso, o meglio di una parte specifica del sapere fisso, quella totalmente mediabile dalla lingua scritta. La macchina digitale (computer, tablet, cellulare) è l’insieme, la confederazione delle piattaforme predisposte per l’acquisizione, la produzione e la gestione di un sapere mobile, dove scritto, suono, immagine interagiscono alla pari.

Abbiamo a che fare, insomma, con due mondi pedagogici affatto diversi, irriducibili l’uno all’altro: l’uno centrato sul sapere costituito, l’altro sul sapere costituente.

Saperlo è condizione imprescindibile per andare avanti, con coraggio.

Perché di una cosa possiamo, anzi dobbiamo essere certi: non si torna indietro, ormai il digitale dentro la scuola c’è, non ci sarà modo di farlo tacere.

Se quanto ho sostenuto qui presenta una qualche sua plausibilità si apre, per tutti noi, attori diretti e indiretti della rappresentazione sociale dei compiti di formazione, una sfida importante, quella, appunto, di aiutarci e aiutare ad accogliere e gestire operativamente, consapevolmente, questa idea di un sapere trasformativo, mobile, immersivo, globale che dialoghi con un sapere immutabile, fisso, astrattivo, analitico.

Non è questo del costruire una scuola anfibia, dove la media literacy conviva con l’alfabetismo, il compito che il docente responsabile dovrà rendersi capace di assumere negli anni a venire. È, piuttosto, l’appuntamento che egli non potrà permettersi di eludere fin da domattina, lavorando ad affrancarsi dai fantasmi più interni che esterni del programma, del voto, del libro di testo, del registro, dell’esame, e portando luce alla propria e all’altrui sensazione di essere piombati in ‘una notte buia e tempestosa’.

Questo articolo è stato pubblicato su Doppiozero il 21 giugno 2021

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