Il 37.8% arriva alla scuola media, il 28% degli adulti è «analfabeta di ritorno», metà della popolazione fa lavori manuali e un quarto lavori precari. E chi nasce povero resterà povero.
Se il panorama sul Paese fosse quello che un casuale visitatore straniero – di ritorno dopo molti anni – intravedesse dai titoli dei quotidiani di questi giorni decembrini, egli potrebbe passeggiare soddisfatto. Un’Italia in cammino, sotto la guida di un governo «autorevole», di nuovo «locomotiva d’Europa». Ma una lettura appena più attenta di giornali, televisioni e canali web guasterebbe subito la giornata al nostro viaggiatore: stupito, ne avvertirebbe la pochezza culturale e la mediocrità.
La lancia in resta di commentatori e «opinionisti», sempre forbita di offese palesi e intimidazioni, lo farebbe forse trasalire. E riconoscerebbe nei Serra, nei Feltri, nei Gramellini, con le sue «invasioni barberiche», il segno di un Paese che non è più quello d’un tempo. Ma, rivedrebbe altresì nella «mano forte» di norme governative inusitate il segno di qualcosa che, forse, fa parte del patrimonio genetico di questa nazione.
Quest’Italia di oggi è forse la prova che anche la storia può tornare indietro. Non la tabula rasa di un cataclisma, non il crollo di una civiltà come fu quello minoico rovesciato dai popoli del mare. Piuttosto, il fermarsi, lasciando andare «in malora» ciò che non funziona, come mettendosi di lato sulla corsia d’emergenza aspettando il carro-attrezzi.
Come quando i barbari invasero la penisola, facendo crollare un impero già fiacco, allorché smisero di funzionare gli acquedotti e i calidari: non perché furono distrutti, ma perché la «macchina» organizzativa, operata dallo Stato, si interruppe.
Il progresso ha smesso di essere un traino unificante. Tra devastazione ambientale e emergenze pandemiche, abbiamo smesso di cullarlo come la segreta e sempre affidabile certezza che avrebbe portato un futuro migliore. Ora che anche il «futuro» si è usurato, percepiamo che il mondo attorno a noi si è fatto così fragile che siamo come in attesa che «ci crolli addosso». La ricchezza, il benessere, li vediamo da fuori brillare nelle vetrine di negozi nei quali, però, non tutti possiamo entrare. Ma abbiamo accettato che i felici pochi devono potere godersela anche per gli infelici molti, all’italiana, però. Che le disuguaglianze ci sono sempre state, tanto vale allora avere gli amici giusti. Studiare non serve, purtroppo – se proprio uno è un genio, che ci provi, ma poi non si lamenti se non riesce – che, da che mondo è mondo, dalle nostre parti è sempre contato di più l’entourage che non il talento.
Non sarà più, questo nostro Paese del XXI secolo, quello dei «luigini» e dei «contadini» di Carlo Levi, ma non è poi tanto diverso. I «contadini» – i lavoratori che devono sudarsela, gli intraprendenti, gli umili sottomessi, gli onesti operai e impiegati, finanche gli artigiani con le loro fabbrichette – sono pur sempre la maggioranza.
Ma i «luigini» – amici dei potenti, figli di buona famiglia, burocrati e canonici, furbi e «spregiudicati» – anche se minoranza, sono ancora lì, con le leve del potere sempre saldamente in mano, proprio come dovette ammettere il povero Ferruccio Parri. Tenendosi buoni quei contadini esausti che pur di sistemare la figlia ne avrebbero accettato il sopruso, secula seculorum. Illustri politologi guardano con orrore ai «no-vax», ai «terrapiattisti», ci fanno sapere che le «fake news» sono un’industria profittevole, ci dicono anche che c’è una «irrazionalità» diffusa. Additano le masse incolte che premono infette alle porte della cittadella del neutro sapere scientifico-tecnologico e della ricchezza condivisa. Non ci dicono, però – quei colti scrutatori del mondo – perché.
Eppure basterebbe considerare che il 37.8% degli italiani non va oltre la scuola media, che il 28% degli adulti è «analfabeta di ritorno» e un altro 42% non riesce a elaborare un ragionamento complesso (dati Ocse). Che metà della nostra popolazione è dedita a lavori manuali, ripetitivi, puramente esecutivi. Che un quarto ha un lavoro precario o tira a campare. Che chi nasce povero resterà probabilmente povero. Che chi ha un salario basso a 20 anni, quello avrà a 50. Che chi ha genitori senza titolo di studio superiore, è molto probabile che farà lo stesso. Che anche chi è laureato ma ha il padre che è un onesto travet, non andrà da nessuna parte. Che c’era un mondo in cui alle «masse popolari» era data una prospettiva e che la politica si era incaricata di perseguirla. Che l’istruzione doveva essere strumento di emancipazione per i più. Che tutti dovevano partecipare al «gioco democratico», perché li avrebbe ripagati, che diritti e benefici sarebbero stati via via estesi a tutti.
Poi quella convinzione è venuta meno, e con essa la fiducia. Il capitale si è mangiato tutto: risorse, diritti, natura. Si è voluto credere che la «crescita» sarebbe stata la marea che avrebbe sollevato tutte le barche, anche quelle bucate. Così, qualcuno è rimasto a galla, molti sono affondati, dando la colpa al «sistema». Finendo per non credere più a niente, tanto meno alla «scienza» che di quel sistema era stata il motore. C’erano partiti, sindacati, associazioni che facevano proseliti, promettendo agli esclusi di sempre che avrebbero sovvertito la storia. Ma anche loro si sono fatti incantare dai loro «luigini», tenendosi buono quel pavido «ceto medio» che non disturba, che visto che non si può accontentare tutti, che almeno quello sia preservato. E oggi guardano al sotterraneo mondo di milioni di «contadini» senza orizzonte come una schiumosa accozzaglia di barbari irrazionali.
Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto l’8 dicembre 2021