di Maurizio Matteuzzi, università di Bologna
Esistono saperi sovraordinati e sottoordinati, si dà, si deve dare una “gerarchia delle scienze”? Il problema viene posto già da Aristotele, nei Secondi Analitici. Aristotele, pur pronunciandosi per l’esistenza di scienze sovraordinate e subordinate, non si espone in via definitiva: il suo interesse è stabilire che, se ha da esservi una “scienza prima”, essa è quella che tratta dei primi principi.
E qui potremmo discutere a lungo (ma lo hanno già fatto per un paio di millenni) se volesse riferirsi alla “philosòphia prima”, o ciò che in seguito abbiam chiamato “metafisica” (ciò di cui lo Stagirita è assolutamente incolpevole), o alla “logica”, termine che ai tempi non esisteva nella nostra accezione, ma probabilmente era surrogato da “dialettica”.
Il problema della “gerarchia delle scienze”, se nasce i quel quarto secolo a.C., è tutt’altro che risolto. Il dibattito è più che attuale, e il lettore mi comprenderà se non posso tentare neanche un vago accenno agli sviluppi, perché dovrei rifare la storia del pensiero; cosa alla quale si contrappongono in primis la mia ignoranza, e di seguito la pazienza del lettore e lo spazio che l’Editore potrebbe sopportare.
Una cosa va detta in premessa, a scanso di equivoci: l’essere sovraordinato o sottoordinato da parte di un sapere non ha nulla a che fare con la “dignità” scientifica. Il problema qui è quello di determinare un percorso fondativo, non una scala di valori: che una scienza sia “subordinata” ad un’altra non vuol dire affatto che sia meno importante, o più facile (di solito è il contrario), o abbia meno “valore”.
Il problema qui è di costituire un percorso “fondativo”, cioè capire il verso, la scansione, la successione dei passi da fare. Voglio essere ancora più grossolano: non è che, in una casa, abbia senso chiedersi se siano più importanti le fondamenta o il tetto; ma sarebbe quando meno singolare cominciare la costruzione dal tetto.
Bene, la gerarchia delle scienze. Vogliamo confrontare quella di Croce con quella di Comte? Verrebbe da dire, tot capita, tot sententiae. Forse siamo di fronte a uno degli insolubilia della filosofia; e, aggiungerei al “forse”, nel mio angusto parere personale, anche un “per fortuna”; ma mi costerebbe troppo spazio il giustificarlo.
Ciò di cui voglio parlare oggi è tuttavia un altro problema, o, se vogliamo, un sotto-problema del problema. L’impatto della organizzazione del sapere sulla burocrazia; peggio, viceversa: l’impatto della burocrazia sul sapere. Due entità contraggenie, antitipiche, dissonanti fin nelle più lontare radici e finalità.
Il nostro sistema burocratico-ministeriale va ben al di là delle ambizioni dei più grandi pensatori. Qui il rigore della forma, eredità del diritto romano, si impasta con il bizantinismo più bieco travet ministeriale. Ed ecco che si generano i mostri della ragione: dagli accoppiamenti immondi nascono idre e ippogrifi, chimere e ircocervi. Nascono i mostri con le sette teste o i cento occhi, per essere signori, o magari con nessuna testa e molte altre parti del corpo che non mi è consentito nominare.
Ecco allora: noi non solo abbiamo risolto il problema della gerarchia delle scienze, troppo banale in fondo, ma siamo anche stati capaci di segmentare ogni partizione categoriale in sottocategorie, in “settori”. Così tutto è ben chiaro e incasellato: caro prof., tu sei un M-.Fil02, o, nel geniale riaccorpamento, un C3 (vado a vanvera naturalmente: non posso impegnare i pochi neuroni che mi restano per leggere queste schifezze). Cataloghiamo tutto, cavolo. Etichettiamo, come in una buona ferramenta che si rispetti. Che gli studiosi borderline, o che si trovano nell’overlapping, abbiano il coraggio di scegliere: siete storici o caporali, direbbe Totò, non senza qualche ragione…
Potrei esplicitare le nefandezze di questo modo di procedere per pagine, credimi, paziente lettore che mi hai sopportato fino ad ora. Faccio un solo unico banale esempio tratto da un qualche settore: si mette in un unico calderone “logica” e “storia della scienza”. Il primo genere di studioso passa due/tre anni a dimostrare un teorema, per pubblicarlo magari sul Journal of Symbolic Logic: tre pagine al più. Il secondo passa invece anni per ricostruire il percorso scientifico di Volta, tanto per dire, e scrivere una monografia di trecento pagine. Adesso cosa facciamo, come confrontiamo, cos’è meglio, monsieur travet? Abbiamo assimilato studiosi che usano metodi, si pongono obiettivi, lavorano, infine (cioè pensano, capisco che il verbo sia un po’ pesante per certuni) in modo totalmente diverso.
Ho scelto apposta un settore disciplinare che non è il mio; perché il mio, filosofia e teoria dei linguaggi, è ora assimilato ad “estetica”. E qui, assieme a molte battute divertenti, mi insorge nell’animo il turpiloquio, che mi sono ripromesso di evitare.
E giungo a una triste conclusione: ma non era più semplice dire, cari professori, non vogliamo più pagarvi le supplenze, gli affidamenti, le ore in più, anziché scatenare questo delirio classificatorio? Aggiungo una cosa, apparentemente banale: si vada nell’elenco dei settori disciplinari del MIUR (http://www.miur.it/UserFiles/116.htm) si faccia un semplice string matching. Si provi con “mente”. Non esiste una “Flosofia della mente” o un qualche “studio della mente”, o “Scienze cognitive”; cioè quei settori che, almeno nel mio campo, vanno per la maggiore nella ricerca all’estero.
Con questi burocratici accorpamenti incestuosi, immondi e innaturali, con l’accoppiare topi con elefantesse, si crede di risparmiare? Idea strampalata assai, “Settore”; da sectus, participio di secare, tagliare; da cui anche “segare”; che ci sia un biblico sottinteso onanistico?