In Emilia-Romagna sono crollate le produzioni di molti frutti. I pereti colpiti dalle gelate e poi da agenti patogeni non hanno dato quasi nulla. E allora molti agricoltori stanno iniziando ad abbatterli per sostituirli con i cereali
Cosa sta succedendo alla produzione di frutta in Emilia-Romagna? Come si spiega il meno 70% nella raccolta delle pere e delle susine e il meno 50% in quello delle pesche? E perché il calo drammatico di queste produzioni è un segnale d’allarme che riguarda anche altre regioni? Ovviamente pesa il cambiamento climatico, che sta mutando i nostri territori e le loro vocazioni produttive.
“È un disastro. Ormai siamo arrivati alla terza annata da buttare”. Il presidente bolognese di Confagricoltura, Guglielmo Garagnani, non parla in senso figurato, ma letterale. Per il terzo anno consecutivo, infatti, la produzione delle pere è andata in gran parte persa: secondo le stime del Cso (Centro Servizi Ortofrutticoli), tra i danni causati da agenti patogeni, insetti aggressivi e gelate tardive in primavera, gli agricoltori emiliano-romagnoli hanno raccolto appena il 20/30% delle circa 500mila tonnellate attese a regime. Una percentuale, peraltro, stimata per eccesso, dal momento che non tiene conto dei danni da grandine e di problemi qualitativi. Risultato: “Nonostante l’aumento dei prezzi all’ingrosso, determinato proprio dalla carenza del prodotto, i guadagni non sono assolutamente sufficienti a coprire le spese – spiega Garagnani – Chi ha fatto investimenti di recente aspetta e spera che arrivi finalmente un anno positivo, ma diversi coltivatori hanno già iniziato ad abbattere una parte dei loro pereti”.
E non si tratta nemmeno di un caso isolato, purtroppo. Le pere, infatti, sono soltanto l’esempio più evidente della profonda crisi frutticola in cui versa l’Emilia-Romagna. Una crisi che si è certamente acuita nelle ultime stagioni e che vede nel 2021 il suo “annus horribilis”, ma che affonda le sue radici indietro nel tempo. “In un quarto di secolo – spiega il presidente regionale di Confagricoltura Marcello Bonvicini – l’Emilia-Romagna ha perso la metà dei suoi frutteti: l’area coltivata è infatti scesa sotto i 50mila ettari complessivi”.
Entrando nel dettaglio e restringendo il campo al quindicennio 2005-2020, la regione ha dovuto rinunciare a circa un quarto dei suoi pereti (- 6mila ettari) e a due terzi delle superfici dedicate a pesche e nettarine (-15mila ettari), colture soltanto parzialmente rimpiazzate dalla crescita di albicocche (+1.500 ettari) e kiwi (+500 ettari). “Qualcuno si è convertito ad altri frutti come le mele, ma nella maggior parte dei casi i terreni espiantati vengono destinati a produzioni di cereali”. E il trend non sembra volersi arrestare, se è vero che anche nel 2021 è andata perduta la metà della produzione delle pesche (-56% rispetto al potenziale), il 71% di quella delle susine e il 17% di quella delle mele, sempre stando alle stime del Cso.
“La crisi frutticola regionale oggi coinvolge all’incirca 20mila aziende agricole e 60mila lavoratori senza contare i contraccolpi negativi lungo tutta la filiera nei settori della trasformazione, distribuzione e nell’indotto”, continua Bonvicini. Il comparto sconta problemi annosi, come gli altissimi costi di produzione (a causa del massiccio impiego di manodopera) e di conservazione (per le bollette energetiche, da sempre più alte rispetto ad altri paesi concorrenti). “Poi dobbiamo sottolineare un fatto: rispetto ad altri Paesi che in parte ci hanno soppiantato, noi non abbiamo fatto molto rinnovo varietale, in particolare con le pesche e le nettarine: per questo motivo abbiamo perso fette importanti di mercato”.
Gelate, siccità e la cimice asiatica
A complicare ulteriormente le cose, negli ultimi anni si accaniti anche eventi atmosferici eccezionali, malattie e insetti come la cimice asiatica. Il caso delle pere in questo senso è paradigmatico anche perché per l’Emilia-Romagna il comparto rappresenta un fiore all’occhiello, essendo la prima regione produttrice a livello nazionale ed europeo. Nell’ultimo triennio i risultati sono stati piuttosto scarsi rispetto alle 494mila tonnellate raccolte ogni anno tra il 2015 e il 2018. Nel 2019 la produzione si è fermata a quota 246mila (-50%), nel 2020 è leggermente risalita a 398mila (-20%) e nel 2021 è sprofondata ad una stima di appena 138mila tonnellate (-70%, per l’appunto). “Quest’anno il calo è stato davvero drastico – conferma Marco Pillan, titolare di un’azienda agricola nelle campagne ferraresi di Berra – in alcune zone il calo della produzione è arrivato anche al 90%. Stiamo passando anni molti difficili: nella mia famiglia siamo arrivati alla terza generazione di agricoltori e non si è mai vista una crisi del genere. Anche perché si accavallano diverse problematiche”.
Alle citate gelate tardive, che tra metà marzo e inizio aprile 2021 hanno riportato a più riprese e per diversi giorni il termometro sottozero danneggiando le piante e interrompendo la fioritura, si sono sommati infatti i danni dell’ormai “famigerata” cimice asiatica e della maculatura bruna, malattia del pero causata da un fungo. “Recentemente l’Unione Europea ha dichiarato non utilizzabili gli agrofarmaci, così siamo rimasti senza difese – spiega Garagnani – l’unica speranza è rappresentata dal miglioramento genetico, sul quale sono in corso diverse sperimentazioni”.
Il ferrarese, in particolare, rappresenta una delle aree maggiormente colpite. “Abbiamo bisogno di sussidi, quantomeno per pagare le spese di produzione: non si tratta di assistenzialismo ma di aiuti necessari per permetterci di continuare e non estirpare – rivendica Alessandro Visotti, direttore della sezione estense di Coldiretti – Più in generale la frutticoltura ha bisogno di un rilancio a 360 gradi puntando su investimenti in ricerca e innovazione. Veniamo da tre anni di grande sofferenza, dal 2018 in poi per le pere la curva di discesa è stata netta sia in termini di raccolta che di ettari coltivati: in provincia abbiamo perso il 17% della superficie coltivata”.
Dove sono finite le castagne?
E se la frutta fresca non se la passa bene, anche quella secca non gioisce. Confagricoltura Bologna ha infatti stimato un crollo della produzione di castagne e marroni del 40% rispetto all’anno scorso. Ancora una volta sembra centrare il clima, ma in questo caso nel mirino finiscono i mesi torridi di luglio e agosto: “La situazione è complicata – commenta Claudio Cervellati, responsabile dell’Ufficio Forestazione dell’associazione – perché la siccità estiva ha influenzato in maniera negativa la raccolta, facendola iniziare molto più in ritardo rispetto al solito e riducendo la capacità produttiva delle piante”. Renzo Panzacchi, presidente del Consorzio Castanicoltori dell’Appennino bolognese, parla di un “grande rammarico perché l’allegagione era stata perfetta, quasi da manuale, e c’erano tutti i presupposti per superare la produzione dello scorso anno”. Anche in questo caso, poi, non mancano i danni causati dagli insetti, in particolare dalle cydie (lepidotteri) e dalcinipide del castagno.
“Abbiamo abbattuto due ettari di pereti”
Elisabetta Moscheni parla di una “tragedia” dal punto di vista economico, ambientale e paesaggistico, certo, ma pure “personale”. Si riferisce alla “corsa all’espianto” a cui lei stessa è stata costretta a ricorrere per la sua azienda agricola, nelle campagne del ferrarese. “Non eravamo abituati – racconta – anzi: in 40 anni di attività non avevamo mai visto una cosa del genere”. Moscheni, anche lei ha scelto di abbattere alcuni dei suoi pereti? “Si, purtroppo l’espianto sembra essere diventato lo sport della provincia. Io e mio marito abbiamo appena finito di togliere due ettari di pereti, pensavamo di sostituirli con altri meleti”. Cosa l’ha portata a fare questa scelta? “Il tracollo produttivo è talmente evidente che continuare a sostenere le spese di un impianto senza un riscontro reddituale sufficiente significa scavarsi la fossa da soli. E dire che anche togliere le piante ha un costo non da poco, perché comporta manodopera e attrezzature. Tutte voci che vanno ad incidere su aziende già fiaccate dalla crisi”.
Quanto è riuscita a raccogliere quest’anno? “I 20 ettari dell’azienda sono coltivati per metà a pere e per l’altra metà a mele. Sulle prime la perdita è stata pari al 100%: quelle poche che si erano salvate dalle gelate a meno 7 gradi della scorsa primavera sono state attaccate da cimici e funghi. Per le mele, invece, è andato perso il 50% della produzione”.
Un bel danno economico. “Si, ma non solo. Tutto questo è molto triste. Sa cosa significa ricorrere agli espianti, per di più in una provincia che storicamente è capitale della produzione delle pere? Si tratta di un danno sotto il profilo ambientale, perché togliamo alberi, ma anche paesaggistico e umano. Gli agricoltori che si dedicano a questo tipo di attività non possono essere facilmente sostituiti. E ci tengo ad aggiungere una cosa”. Dica. “Noi tutti siamo per la salvaguardia della biodiversità, ma questo impegno deve passare anche attraverso una mediazione”. Si riferisce al divieto di utilizzo di agrofarmaci contro la maculatura? “Si, ma non solo, il discorso vuole essere più ampio. Bisogna trovare un equilibrio: se non si possono utilizzare prodotti chimici bisogna che siano pronte delle alternative efficaci. E invece siamo stati lasciati a noi stessi”.
Così il clima cambierà la frutticultura
“Tra il 15 marzo e il 9 aprile 2021 le aree di pianura dell’Emilia Romagna sono state interessate da due serie di gelate tardive che hanno causato gravi danni in particolare alla frutticoltura, già pesantemente danneggiata nella primavera del 2020 da eventi simili”. Comincia così la relazione pubblicata proprio pochi giorni fa dalla Struttura IdroMeteoClima di Arpae, un documento di una trentina di pagine che analizza nel dettaglio le ondate di freddo eccezionale della scorsa primavera concludendosi con un commento sulla variabilità climatica di tali eventi negli ultimi decenni. “Il rischio – spiega uno degli autori del documento, l’agrometeorologo Gabriele Antolini – tende ad aumentare”.
Antolini, significa che dovremo abituarci a questi fenomeni? “L’eccezionalità degli eventi estremi è sempre difficile da valutare, proprio a causa della bassa frequenza con cui si verificano. Ma la ripetizione delle gelate tardive per due anni consecutivi rappresenta un segnale importante. Il trend del resto è chiaro, e dipende dalla concomitanza tra due fattori”. Quali? “Da un lato l’aumento della temperatura media invernale, che ormai è dimostrato da numerosi studi. Dall’altro dall’incremento della variabilità primaverile: sembra che questi ingressi di aria fredda in regione siano sempre più frequenti. Prendendo in considerazione l’ultima decade di marzo, in Emilia-Romagna nel 1991-2020 abbiamo registrato 14 giorni di gelata (ossia giorni con temperatura minima inferiore a 0 °C) in più rispetto al trentennio precedente”.
Un mix di ingredienti letale per i frutti. “Gli inverni caldi determinano un risveglio delle piante anticipato: questo significa che le colture si trovano ad essere esposte a possibili ritorni di freddo con i loro organi più sensibili, le gemme e i fiori. È successo così anche quest’anno: febbraio ha fatto registrare temperature decisamente superiori alla media, e questo ha dato una spinta notevolissima allo sviluppo delle piante”.
Insomma, il clima emiliano-romagnolo sta già cambiando? “Su questo non c’è dubbio, sul fronte della siccità è ancora più evidente. La quantità d’acqua richiesta dalle piante dipende dalla temperatura dell’aria: se l’atmosfera si scalda devono traspirare più acqua, e in Emilia-Romagna registriamo un aumento della temperatura maggiore rispetto alla media globale. Allo stesso tempo, però, assistiamo ad una tendenza alla diminuzione delle precipitazioni, per lo meno quelle estive. La tendenza nel bilancio idroclimatico annuo, cioè la differenza tra evapotraspirazione (acqua in uscita per evaporazione o traspirazione delle piante) e precipitazioni è di circa -35 millimetri ogni dieci anni. Vale a dire: la richiesta irrigua aumenta mediamente di 35 mm ogni decennio”. La frutticultura regionale è quindi destinata a cambiare volto? “Sicuramente ci sarà un ricorso sempre più spinto a tecniche di adattamento, per esempio a soluzioni irrigue più conservative e all’impiego di varietà più adatte a un clima più secco e caratterizzato da una frequenza maggiore di eventi estremi”.
Questo articolo è stato pubblicato su La Repubblica – Bologna il 12 novembre 2021