di Francesco Antonelli
Scaffale. «La sfida di Gaia», l’ultimo libro del sociologo francese Bruno Latour (pubblicato da Meltemi) pone domande «aperte» per essere all’altezza del cambiamento climatico
Di fronte alla pandemia sembriamo eludere il grande significato che essa porta con sé, pur intuendolo sottotraccia: quella di essere la prima, visibile, catastrofe (annunciata) prodotta dal disastro ecologico globale.
Transeunte come evento virale, introduce una nuova, concreta e duratura costante: l’avvento di un nuovo regime climatico e ambientale che sconvolge quel mondo globale «umano, troppo umano» giocato sulla depredazione indiscriminata dell’ambiente. Abbiamo perso parole e modelli di riferimento per orientarci e agire all’interno di questa nuova dimensione e, come l’orchestra del Titanic, continuiamo a suonare la nostra musica come se nulla fosse.
RESTITUIRE una nuova forma di pensiero adatta a ciò che sta capitando è il compito che si è dato ormai da molti anni il sociologo Bruno Latour. Un compito portato avanti anche nel suo ultimo saggio La sfida di Gaia. Il nuovo regime climatico (Meltemi, pp. 424, euro 24 ).
Il libro raccoglie le otto conferenze che il sociologo francese ha tenuto nel 2013 nell’ambito del programma Gifford all’Università di Edimburgo: si tratta di un particolare fondamentale perché queste conferenze, istituite oltre cento anni fa, nella culla dell’influentissimo illuminismo scozzese (David Hume, Adam Smith) hanno come obiettivo quello di riflettere sulla religione naturale. Di cosa si tratta? Si pone al centro la conoscenza della Natura e delle sue leggi in alternativa alle superstizioni delle religioni rivelate. In sostanza, il sostrato ideologico con il quale la scienza occidentale si è imposta al mondo.
LATOUR, PARTENDO dall’enormità della catastrofe ambientale e climatica che sta avvenendo, smonta e ricostruisce gli elementi di base sia della religione naturale che delle religioni rivelate, nonché la loro contrapposizione. Dato che questa ha influenzato il modo in cui ci definiamo moderni, abbiamo depredato il mondo e, oggi, neghiamo il cambiamento climatico. Alla contrapposizione tra Natura e Cultura, tra soggetto e oggetto, tra umano e non-umano dobbiamo riconoscere la compenetrazione inestricabile di queste dimensioni: l’antropocene come forza geologica che cambia il pianeta nel profondo, mutando la possibilità di esistenza della vita, compresa la nostra, ci mostra che dobbiamo tornare alla Terra. Accettarla e coglierla come una complessità di relazioni tra forze, agenti, modi di pensare, ricchi della loro differenza e profondamente interconnessi. Per Latour «Gaia» è il nome che dobbiamo dare a questa entità che ci si rivela di fronte. Mentre alla parola umani (che presuppone i non-umani, gli inerti, gli oggetti, i sottoposti al potere dell’umanità) sostituire quella di «terranei». Un contenitore più ampio del quale fanno parte tutti gli elementi che compongono Gaia, intesa quindi come una vera e propria entità vivente complessa. A partire da questo quadro di riferimento, due sono i punti più interessanti che affronta Latour.
IL PRIMO È UN’ANALISI del negazionismo, cioè della negazione della realtà del cambiamento climatico che, al contrario, viene sostenuto, con evidenze scientifiche inoppugnabili, dalla totalità degli scienziati. Mentre possiamo facilmente capire perché venga portato avanti il negazionismo e da chi (i grandi interessi del capitalismo globale) occorre comprendere perché questi argomenti vengano, implicitamente o esplicitamente, accolti dalla grande maggioranza delle persone. Nonostante l’evidenza dei fatti. Primo perché vige un mancato riconoscimento dell’inestricabile legame tra ciò che la scienza descrive con rigore e ciò che queste descrizioni, immediatamente, suggeriscono in termini di politiche pubbliche. La distinzione, che va superata, tra «fatti» e «valori». Secondo, perché la modernità è cresciuta sulla scorta dell’idea di aver superato completamente la possibilità dell’apocalisse. L’idea cioè di poter superare, in un modo o in un altro, attraverso i propri strumenti e le proprie verità basate sulla fiducia cieca nella scienza, ogni difficoltà postaci davanti dalla «natura». Un modo di pensare che ci porta a credere di poter costruire, qui ed ora, il paradiso in terra e, dunque, di vivere già dopo ogni possibile catastrofe e apocalisse. Un punto di vista la cui origine Latour, sulla scorta di Eric Voegelin, individua nel cristianesimo e, in particolare, nella influente versione che ne ha dato un monaco medievale di nome Gioacchino da Fiore. Neghiamo e siamo disposti a credere al negazionismo perché la modernità ci ha detto che «tutto andrà bene» e non potrebbe, alla fine, non andare bene.
LA PROPOSTA POLITICA in cui culmina il saggio di Latour, e siamo al secondo punto, è quello di un mutamento del modo di pensare che si deve sostanziare in un ripensamento del patto costituzionale e, dunque, dello stesso senso di democrazia: ad un sistema di rappresentanza degli interessi dei soli esseri umani, deve sostituirsi un parlamento di tutte le componenti e di tutti i popoli che abitano e danno sostanza a Gaia.
Rappresentare permanentemente le grandi forze naturali e viventi, facendole dialogare con le grandi forze sociali ed economiche, è l’unica alternativa possibile per essere all’altezza delle sfide che il cambiamento climatico ci impone. L’umano non deve e non può più parlare solo per se stesso ma riacquistare sia il senso del proprio limite che il senso del posto fondamentale che occupa in Gaia – in quanto essere parlante e dunque in grado di rappresentare anche gli «altri». Solo così sarà in grado di fare il salto di civiltà necessario per abitare e governare le trasformazioni in corso poiché, come scriveva Hölderlin solo «là dove c’è il pericolo, cresce anche ciò che salva».
Questo articolo è stato pubblicato su Il manfesto il 1 luglio 2020