di Assia Petricelli
Mentre è scattata la corsa a riaprire tutto, le scuole rimangono chiuse. Invece, come suggeriscono le proposte di alcuni gruppi di genitori e insegnanti, dovremmo cogliere l’occasione per ripensare il modello di istruzione degli ultimi anni
Per ben due mesi, durante tutto il lockdown, bambini, bambine e adolescenti sono scomparsi. Non soltanto da strade e piazze, ma dal discorso pubblico sulla pandemia. Chiusi dietro le pareti delle proprie abitazioni, sono stati dimenticati. Poche voci si sono alzate a domandare come stessero, cosa facessero. Sono esistiti solo come fruitori di quella «didattica a distanza» (che ossimoro!) raccontata come un successo dalla ministra Lucia Azzolina, ma con accenti ben diversi da chi, studenti, insegnanti e genitori, l’ha (non) vissuta sulla propria pelle.
Di bambini si è ripreso a parlare a un certo punto (di adolescenti mai), per la precisione quando si è posto il problema per molti madri e padri, costretti a riprendere l’attività lavorativa fuori casa, di trovare per i più piccoli una sistemazione. Soltanto il 27 aprile il presidente del Consiglio Conte ha annunciato un «piano per l’infanzia» con misure di sostegno economico alle famiglie, e si è aperto alla possibilità di riprendere le attività didattiche ed educative in presenza per la fascia 0-6 anni utilizzando gli spazi aperti. Ma è chiaro che tali misure sono finalizzate non al benessere dei bambini, ma alla liberazione del tempo dei genitori per sfruttarne la capacità produttiva. E non deve stupirci né indignarci se molti genitori vedono la scuola anche, o talvolta soprattutto, come un luogo in cui «depositare» i figli per il tempo in cui lavorano. Per la classe lavoratrice che non può permettersi di sfruttare a sua volta il lavoro di una baby sitter la scuola è una forma di welfare. Non deve sorprenderci neanche che bambini, bambine e adolescenti siano stati i grandi assenti del discorso pubblico sulla pandemia. Erano assenti anche prima. Non producendo, il sistema capitalistico non è interessato a loro, se non nella misura in cui può sfruttarne la capacità di consumo attraverso i genitori. I bisogni e i desideri dei più piccoli non trovano spazio, non sono tutelati. Basti pensare alla scarsità di luoghi a misura di bambino nelle città, al costante disinvestimento degli ultimi decenni nella scuola e nell’educazione. Gli adolescenti, ancora, sono spesso raccontati con disprezzo da parte di commentatori che non lesinano toni paternalistici e accusatori.
Costretti in quattro mura con genitori assillati dalle preoccupazioni, alle prese con il lavoro che non si è mai interrotto o è diventato smart o hanno perso, privati della vicinanza di quei nonni che per tantissimi rappresentano la colonna portante del welfare familiare, di colpo ridotti a «soggetto vulnerabile», sottratti ai luoghi della socialità tra pari, additati come untori» dai poliziotti da balcone perfettamente funzionali a una narrazione che mira a colpevolizzare i singoli per distogliere l’attenzione dai responsabili politici della crisi, mentre chi ha ruoli di governo cercava di tamponare alla bell’e meglio il disastro dovuto a decenni di tagli alla sanità e si occupava di come riaprire o non far chiudere le attività produttive, cedendo alla pressioni di Confindustria, i bambini e le bambine hanno esorcizzato la paura giocando al Coronavirus e costruendo nelle case ripari per proteggersi, sono diventati nervosi e ingestibili, sono regrediti nel linguaggio e nei comportamenti, hanno smesso di dormire o hanno ripreso a bagnare il letto la notte.
Forse ancora più acuto il disagio vissuto dagli adolescenti, costretti in quello stesso ambiente domestico con cui spesso sono in conflitto e privati di un rapporto diretto con il mondo che è «fuori», tanto essenziale per la costruzione della propria identità in quella fase della vita. Psichiatri e psicologi hanno indicato gli e le adolescenti tra le categorie più esposte ai rischi connessi alle prolungate restrizioni nei contatti sociali: ansia, depressione, dipendenza dai dispositivi tecnologici e una pericolosa tendenza all’isolamento, fino a casi estremi come quello degli hikikomori, i giovani che decidono di ritirarsi per lunghi periodi dalla vita sociale.
Se bambini, bambine e adolescenti sono stati invisibilizzati durante il lockdown, tanto più dimenticati ed esposti a ulteriori privazioni materiali e morali sono quelli tra loro che sono rifugiati, migranti, disabili, detenuti in luoghi di reclusione. Le Nazioni unite, nel loro rapporto The impact of Covid-19 on children del 15 aprile, individuano quali conseguenze della pandemia sui più giovani l’incremento della povertà; l’aumento dell’abbandono scolastico e le difficoltà di accesso all’istruzione, in particolare per alcune fasce sociali e per bambine e ragazze; i rischi per la salute di una riduzione delle possibilità di accesso alle prestazioni sanitarie e alle misure di prevenzione; la maggiore esposizione, in condizioni di isolamento, di aumentata povertà e di chiusura delle scuole, alla criminalità, agli abusi e alla violenza subita e assistita nell’ambiente familiare. Secondo l’Indagine nazionale sul maltrattamento dei bambini e degli adolescenti in Italia condotta da Terre des Hommes e Cismai per l’Autorità Garante per l’infanzia e l’adolescenza, nel nostro paese 91mila minori sono vittime di maltrattamenti e il dato è certamente sottostimato. A dispetto di quanto raccontato da molti politici, mezzi di informazione, spot pubblicitari e testimonial vari durante il lockdown, per molti la casa non è un luogo sicuro, tanto meno idilliaco. Spesso sono le insegnanti le prime ad accorgersi se un bambino è denutrito, se sta male, se presenta sul corpo segni di violenza. Per i minori che vivono condizioni di disagio, la scuola è uno spazio che permette di sottrarsi almeno per alcune ore del giorno al forte stress vissuto in famiglia, per molti è l’unica occasione di un pasto di qualità.
Eppure proprio le scuole rischiano di essere le ultime a riaprire. Al loro posto una didattica a distanza che sta allungando la sua ombra ben oltre l’emergenza, pur presentando gravi criticità, denunciate a più riprese da gruppi di insegnanti e genitori: disuguaglianze nell’accesso all’istruzione con l’esclusione o l’emarginazione dei più fragili, gli alunni con bisogni educativi speciali e quelli che non dispongono di strumentazioni informatiche adeguate, di genitori competenti e disponibili ad affiancarli, di spazi idonei; l’ingresso massiccio nel mondo della scuola dei colossi del web, in particolare di Google, divenuti tali grazie alla raccolta di dati, i quali offrono soluzioni facili per la didattica a distanza attraverso piattaforme commerciali e software proprietari; la tendenza alla somministrazione di pacchetti di contenuti, in mancanza di una relazione diretta tra docenti e studenti e tra gli studenti stessi, essenziale al processo educativo; l’accelerazione di processi già in atto nella scuola, come la formazione di individui competenti ed efficienti da poter sfruttare in un mercato del lavoro precarizzato, più che di donne e uomini liberi e consapevoli.
Annunciando la «fase 2», Giuseppe Conte affermava che la riapertura delle scuole avrebbe innescato una nuova e rapida crescita dell’epidemia (sulla base, però, di un report del Comitato tecnico scientifico che calcolava l’impatto su uno scenario pre-crisi, senza la previsione di misure per la riduzione degli assembramenti negli ambienti scolastici), ma intanto consentiva la ripartenza della produzione e costringeva lavoratori e lavoratrici a correre rischi in assenza di adeguate tutele, riproponendo l’infame ricatto dell’aut aut tra salute e reddito. Invece riaprire le scuole si potrebbe, contemperando l’indispensabile contenimento del contagio con il diritto all’istruzione e al benessere non solo fisico, ma anche mentale ed emotivo, attraverso un accurato e articolato piano di investimenti che preveda da una parte la messa in sicurezza degli edifici e la riorganizzazione degli spazi, dall’altra assunzioni massicce di nuovi docenti al fine di porre termine alla piaga delle classi pollaio di trenta e più alunni e consentire una didattica per piccoli gruppi. Contemporaneamente andrebbero predisposte delle misure per la socializzazione della cura, a cominciare dal sostegno per gli interventi dal basso come quelli della tante reti di mutuo soccorso che si sono attivate sui territori fin dall’inizio della pandemia anche per sostenere i genitori nella cura dei più piccoli e rendere più democratica la didattica a distanza. Non ci si può limitare, come il governo sta facendo, tra l’altro in proporzioni del tutto insufficienti, a erogare alle famiglie forme di supporto economico all’accudimento dei figli nell’ambito domestico, facendo ricadere la responsabilità della cura delle giovani generazioni interamente sulle spalle dei singoli, delle madri soprattutto, in condizioni di vita sempre più difficili e precarie, con l’effetto di generare senso di colpa e di inadeguatezza e di costringere molte a scegliere tra figli e lavoro. Così come non basterà tamponare domani gli effetti della crisi per chi, maggiormente vulnerabile, avrà subito le conseguenze più pesanti; dobbiamo pretendere e costruire oggi un ribaltamento delle priorità affinché non si ricreino più condizioni di disparità.
È ciò che stanno chiedendo anche alcuni gruppi nati in questo periodo dall’alleanza tra genitori e insegnanti che, superando il conflitto creato ad arte tra famiglie da una parte e mondo della scuola dall’altro, lavorano in sinergia per immaginare e proporre soluzioni che tutelino la salute fisica e il benessere mentale dei più piccoli. Tra questi, la rete Scuola e bambini nell’emergenza Covid-19 ha elaborato un Manifesto per i diritti e i desideri di bambine, bambini e adolescenti che, partendo dalle premesse che «l’ascolto, il riconoscimento e la tutela dei diritti dei minori riguardano tutta la società» e che «la salute di tutti, a partire dai più piccoli, viene prima dei profitti», individua tre ambiti prioritari d’intervento : «(I) aumentare il numero degli insegnanti, (II) ridurre il numero degli alunni per classe, (III) prendere finalmente in considerazione nuovi spazi, anche all’aperto, come ambienti di apprendimento».
Ad oggi la pandemia rischia di acutizzare le disuguaglianze e le ingiustizie sociali, ma potrebbe anche essere l’occasione per un rovesciamento del paradigma, che ponga al centro non più i profitti di pochi, ma le vite di tutti e tutte e l’invenzione di una società che condivida la responsabilità della cura dei suoi membri e in primis di chi, ancora in formazione, è al tempo stesso portatore di una estrema vulnerabilità e di straordinarie possibilità.
Questo articolo è stato pubblicato su JacobinItalia il 21 maggio 2020