Coronavirus: non tutto il male viene per nuocere?

14 Febbraio 2020 /

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di Silvia R. Lolli
Al di là delle nuove paure che l’emergenza sanitaria sta portando in tutto il mondo, ci sono aspetti emergenti nuovi che forse aiuteranno questa povera Gaia ad allungare un’agonia ancora non da tutti i potenti accettata. In questi giorni, accanto ai bollettini medici ed alla crescente attenzione posta verso la ricerca scientifica continua (se non si dà voce ai ricercatori, si dimenticano le lotte per debellare altre epidemie più circoscritte a territori molto abitati, ma considerati dai potenti solo terre di conquista, quelli africani: Ebola, malaria su tutte).
Ora che la Cina è ormai un paese la cui importanza economica in stagnazione o recessione può provocare dissesti in tanti altri paesi o al mondo economico-finanziario intero (ai tempi della Sars lo era certamente di meno), la finanza ed i mercati si preoccupano per la produzione ferma e di un PIL che si abbasserà di molto. In questi giorni la produzione industriale anche di paesi vicini sta fermandosi, il mercato dell’auto coreano per esempio non ha più i semilavorati dalla Cina; le città cinesi, di milioni di abitanti appaiono come Ghost cities; tutte le auto sono ferme. La domanda di petrolio è calata drasticamente e con essa il prezzo.
Tutto ciò avviene a pochi giorni di un accordo commerciale con l’USA di Trump. Ora i presidenti di entrambi gli stati stanno valutando se rivedere l’ultimo accordo, dopo che poco più di un anno fa Trump impose i dazi commerciali ai prodotti cinesi ed di altri paesi come quelli europei ed italiani per migliorare la forte disoccupazione o sotto occupazione di molte ex città industriali americane, quelle per esempio più legate all’industria dell’auto.
Si potrà dire, in termini di sostenibilità ambientale, che con il coronavirus non tutto il male verrà per nuocere? Chissà, però l’alto inquinamento, dovuto alle emissioni di gas nelle città cinesi non c’è dubbio che un po’ si attenuerà: le mascherine saranno utilizzate per evitare la diffusione del virus non per proteggere la respirazione per l’alta concentrazione di CO2! Comunque le persone stanno chiuse in casa.
L’emergenza ambientale, ancora non accettata dalle oligarchie mondiali che determinano le politiche di guerra, può avere un momento, seppur piccolo e comunque con altri pericoli per la salute, di tregua. Il prezzo del petrolio sta diminuendo. Si potrebbero sospendere egemonie di paesi che fomentano guerre, più o meno realmente combattute, che si dicono guerre di religione, civili, umanitarie, ma che hanno un unico comune denominatore: l’annientamento di tanti popoli, Yemen, Palestina, curdi, tribù brasiliane e dei vari paesi africani dove lo sfruttamento delle risorse minerarie è preceduto da vere e proprie pulizie etniche ed ambientali o da schiavismi da parte dei neo-colonizzatori.
In questo momento faccio fatica ad eliminare uno strano pensiero che mi cresce assieme alle notizie del coronavirus: sarà fantapolitica, ma a meno di un anno dalle elezioni americane osservo il gran movimento di Trump. A livello internazionale sta imponendo al mondo i suoi diktat e quelli di Israele e delle multinazionali del petrolio e delle armi, mantenendo per esempio i suoi militari nelle zone di guerra (Palestina, Siria…); sta riproponendo nuovi accordi commerciali alla Cina ora in evidente difficoltà; a livello interno riesce a scamparla, come previsto, in Senato sull’impeachment. Porta a sé queste vittorie per continuare ad imporre la supremazia USA sulle scelte petrolifere ed ambientali: fracking interno e sfruttamento delle miniere di carbone ancora a pieno regime, gli danno notevoli credenziali sui mercati internazionali, ora poi che la Cina è in declino deve sfruttare l’occasione.
La campagna elettorale americana si è avviata per Trump da tempo, per i democratici da poco ed in modo un po’ confuso e faticoso. Il problema principale nel primo stato l’Iowa sembra essere ancora una volta la partecipazione, non tanto i risultati pasticciati. Trump, votato da una legge elettorale che non dà effettivamente peso alla percentuale del numero assoluto di preferenze fra i due candidati ma al peso politico che i voti hanno rispetto ai singoli Stati che li hanno espressi (certamente una legge elettorale che mette in luce risultati per una democrazia forse non troppo completa).
Trump fu eletto con una percentuale di votanti del 27% degli aventi diritto. Questo è il dato che continuo a tener presente; mi preoccupa, perché non si può dire che la sovranità popolare sia realmente espressa. Il non voto, quindi l’abdicazione al ruolo di cittadino è in atto in tanti paesi, ma soprattutto in queste vere e proprie oligarchie. La recente elezione regionale, ma solo in E-R, ha scongiurato questo trend, ma è il tema che si deve tenere più presente oggi e nell’immediato nostro futuro.
Le piazze preoccupate per il futuro sostenibile devono partecipare alle elezioni e scongiurare le oligarchie che pensano solo ad interessi economico-finanziari, all’egemonia propria per continuare a sfruttare la terra e i suoi abitanti che rimangono fuori dai giochi del potere in mano a pochi.
Il coronavirus potrebbe cominciare ad invertire una rotta: diminuire l’emissioni di combustibili fossili, bloccare o comunque diminuire la produzione industriale. Dare più voce alla ricerca scientifica pubblica, non vincolata alle case farmaceutiche. Tenere l’auspicabile, spero imminente, brevetto del nuovo vaccino in mani pubbliche (OMS?), a disposizione gratuita di tutta l’umanità, non farlo brevettare da alcuna casa farmaceutica, come mi sembra avvenga in India da anni, potrebbe essere una risposta politica nuova per questa emergenza. Intanto i mercati finanziari soffrono per lo stallo industriale cinese. Ma sarebbe così nefasto per tutta l’umanità? Credo di no.
Darebbe solo la possibilità alle comunità di ritrovarsi, come è sempre stato, per riprendere buone pratiche di austerità da noi ri-applicate nel 1973, nel momento di crisi del petrolio. Allora la politica non fece nulla per opporsi allo sviluppo consumistico americano sempre alla ricerca di nuovi mercati e di nuovi territori da sfruttare; dopo la paura di rimanere senza combustibili ed foto energetiche si sviluppò il massimo consumismo e sfruttamento di lavoro e di risorse.
Chissà se oggi le piazze mondiali, i popoli, i cittadini del mondo sapranno sfruttare il momento e costringere la politica a ricercare soluzioni di sostenibilità, austerità, sobrietà (di pensiero ed azione mi viene da dire) partendo proprio da questi momenti di blocco industriale per quarantena dovuto a questo neo virus spingendo sulla ricerca pubblica e soluzioni pubbliche di antivirus.
A corollario di ciò ci piace ricordare il discorso fatto da Berlinguer nel 1977, rispetto alla politica dell’austerità.

“Per noi l’austerità è il mezzo per contrastare alle radici e porre le basi del superamento di un sistema che è entrato in una crisi strutturale e di fondo, non congiunturale, di quel sistema i cui caratteri distintivi sono lo spreco e lo sperpero, l’esaltazione di particolarismi e dell’individualismo più sfrenati, del consumismo più dissennato. L’austerità significa rigore, efficienza, serietà, e significa giustizia; cioè il contrario di tutto ciò che abbiamo conosciuto e pagato finora, e che ci ha portato alla crisi gravissima i cui guasti si accumulano da anni e che oggi sì manifesta in Italia in tutta la sua drammatica portata.
Ecco, in base a quale giudizio il movimento operaio può far sua la bandiera dell’austerità?
L’austerità è per i comunisti lotta effettiva contro il dato esistente, contro l’andamento spontaneo delle cose, ed è, al tempo stesso, premessa, condizione materiale per avviare il cambiamento. Cosi concepita l’austerità diventa arma di lotta moderna e aggiornata sia contro i difensori dell’ordine economico e sociale esistente, sia contro coloro che la considerano come l’unica sistemazione possibile di una società destinata organicamente a rimanere arretrata, sottosviluppata e, per giunta, sempre più squilibrata, sempre più carica di ingiustizie, di contraddizioni, di disuguaglianze.
Lungi dall’essere, dunque, una concessione agli interessi dei gruppi dominanti o alle esigenze di sopravvivenza del capitalismo, l’austerità può essere una scelta che ha un avanzato, concreto contenuto di classe, può e deve essere uno dei modi attraverso cui il movimento operaio si fa portatore di un modo diverso del vivere sociale, attraverso cui lotta per affermare, nelle condizioni di oggi, i suoi antichi e sempre validi ideali di liberazione. E infatti, io credo che nelle condizioni di oggi è impensabile lottare realmente ed efficacemente per una società superiore senza muovere dalla necessità imprescindibile dell’austerità.
Ma l’austerità, a seconda dei contenuti che ha e delle forze che ne governano l’attuazione, può essere adoperata o come strumento di depressione economica, di repressione politica, di perpetuazione delle ingiustizie sociali, oppure come occasione per uno sviluppo economico e solidale nuovo, per un rigoroso risanamento dello Stato, per una profonda trasformazione dell’assetto della società, per la difesa ed espansione della democrazia: in una parola, come mezzo di giustizia e di liberazione dell’uomo e di tutte le sue energie oggi mortificate, disperse, sprecate.
Abbiamo richiamato in altre occasioni e anche di recente le profonde ragioni storiche, certamente non solo italiane, che rendono obbligata, e non congiunturale, una politica di austerità. Sono ragioni varie, ma occorre ricordare sempre che l’evento più importante i cui effetti non sono più reversibili, è stato e rimarrà l’ingresso sulla scena mondiale di popoli e paesi ex coloniali che si vengono liberando dalla soggezione e dal sottosviluppo a cui erano condannati dalla dominazione imperialistica. Si tratta di due terzi dell’umanità, che non tollerano più di vivere in condizioni di fame, di miseria, di emarginazione, di inferiorità rispetto ai popoli e paesi che hanno finora dominato la vita mondiale.
Assai vario e complesso è, certo, questo moto. Grandi sono le differenze storiche, economiche, sociali, culturali, politiche, che esistono tanto all’interno di quel che suole chiamarsi il Terzo mondo, quanto nei suoi rapporti esterni. In particolare, negli ultimi tempi si è venuta precisando una tendenza verso alleanze tra i gruppi dominanti dei paesi capitalisticamente più sviluppati e quelli di certi paesi in via di sviluppo, alleanze che operano a danno di altri paesi più poveri e più deboli, e contro ogni movimento popolare e progressista. Non sono stati e non sono solo i Kissinger, ma anche gli Yamani (avrete visto le recenti dichiarazioni) che hanno perseguito e perseguono una politica di ostilità contro gli Stati e contro le forze politiche che si battono per il rinnovamento del proprio paese, comprese le forze avanzate del movimento operaio dell’occidente.
Ma mentre dobbiamo saper cogliere queste differenze all’interno del Terzo mondo, e tenerne conto, non dobbiamo mai perdere di vista il significato generale del moto grandioso di cui sono stati e sono protagonisti quei popoli: un moto che cambia la rotta della storia mondiale, che sconvolge via via tutti gli equilibri esistiti ed esistenti, e non soltanto quelli relativi ai rapporti di forza su scala mondiale, ma anche gli equilibri all’interno dei singoli paesi capitalistici. È questo moto, o almeno è principalmente questo moto, che, operando nel profondo, fa esplodere le contraddizioni di una intera fase dello sviluppo capitalistico post-bellico, e determina in singoli paesi condizioni di crisi di gravità mai raggiunta. E se può accadere, come ci è dato di constatare, che all’interno del mondo capitalistico alcune economie più forti possono trarre profitto dalla crisi e consolidare la propria posizione di dominio, per altri paesi economicamente più deboli, come l’Italia, la crisi diventa ormai un rotolare più o meno lento verso il precipizio.
Sullo sfondo di questa acuita conflittualità tra i paesi e i gruppi capitalistici, mal celata da fragili solidarietà, avanzano processi di disgregazione e di decadenza che, mentre rendono sempre più insopportabili le condizioni di esistenza di grandi masse popolari, minacciano le basi stesse, non solo dell’economia, ma della nostra stessa civiltà e del suo sviluppo.
Non è necessario descrivere i mille segni in cui si manifesta questa tendenza che ferisce e mortifica così profondamente anche la vita della cultura. Quel che deve essere chiaro a chiunque voglia intendere le ragioni ed i fini della nostra politica, sia all’interno del nostro paese, sia nei rapporti con forze progressiste di altri paesi, è che essa si può tutta ricondurre allo sforzo di mobilitazione e di ricerca per bloccare questa tendenza e per rovesciarla.
Viviamo, io credo, in uno di quei momenti nei quali – come afferma il Manifesto dei comunisti – per alcuni paesi, e in ogni caso per il nostro, o si avvia «una trasformazione rivoluzionaria della società» o si può andare incontro «alla rovina comune delle classi in lotta»; e cioè alla decadenza di una civiltà, alla rovina di un paese.
Ma una trasformazione rivoluzionaria può essere avviata nelle condizioni attuali solo se sa affrontare i problemi nuovi posti all’occidente dal moto di liberazione dei popoli del Terzo mondo. E ciò, secondo noi comunisti, comporta per l’occidente, e soprattutto per il nostro paese, due conseguenze fondamentali: aprirsi ad una piena comprensione delle ragioni di sviluppo e di giustizia di questi paesi e instaurare con essi una politica di cooperazione su basi di uguaglianza; abbandonare l’illusione che sia possibile perpetuare un tipo di sviluppo fondato su quella artificiosa espansione dei consumi individuali che è fonte di sprechi, di parassitismi, di privilegi, di dissipazione delle risorse, di dissesto finanziario”.

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