di Tomaso Montanari
“Il razzismo nostro deve essere quello del sangue, che scorre nelle mie vene, che io sento rifluire in me, e posso vedere, analizzare e confrontare col sangue degli altri … Non c’è che un attestato col quale si possa imporre l’altolà al meticciato e all’ebraismo: l’attestato del sangue”. È all’autore di queste righe – Giorgio Almirante, segretario di redazione della Difesa della razza, su cui furono pubblicate nel maggio 1942 – che il Comune di Verona ha appena deciso di intitolare una via. Sempre nel 1942 quella stessa esecrabile rivista aveva riesumato e propalato una antica e terribile storia di violento antisemitismo: la redazione guidata da Almirante (evidentemente ossessionata dal tema del sangue, in tutti i suoi risvolti) aveva addirittura deciso di mettere in copertina il dettaglio di una tavola di uno dei più famosi testi a stampa del Quattrocento, le Cronache di Norimberga di Hartmann Schedel (1493).
Vi si vedeva un bambino che veniva orribilmente torturato e mutilato da sette ebrei, che ne raccoglievano il sangue: era il piccolo Simonino da Trento, da secoli venerato come santo martirizzato dai perfidi giudei. La verità, però, era un’altra: e una magnifica mostra che dovrebbe essere visitata da tutte le scuole della Repubblica (L’invenzione del colpevole. Il ‘caso’ di Simonino da Trento dalla propaganda alla storia, visibile fino al 13 aprile a Trento, al Museo Diocesano Tridentino, guidato con sapienza da Domenica Primerano) permette agli italiani di oggi di conoscerla fino in fondo.
Il 26 marzo del 1475, giorno della Pasqua, fu trovato in un canale che lambiva la cantina di Samuele l’ebreo il cadavere di un bambino cristiano, Simone, sparito da casa la sera del giovedì santo. Poteva essersi trattato di una morte accidentale, ma i segni sul corpo potevano anche far pensare ad un omicidio a sfondo sessuale, e al tentativo dell’assassino di addossare la colpa agli ebrei. Qualunque cosa fosse successo al povero Simone (trasformato, suo malgrado, in una macchina di morte e di soldi), è esattamente così che finì. Si mise in moto una infernale macchina giudiziaria: il podestà ordinò l’arresto di Samuele, di sua moglie Brunetta e degli altri ebrei presenti in sinagoga per i riti della Pasqua ebraica (quell’anno coincideva con quella cattolica). Dopo aver raccolto voci popolari e la deposizione di un ebreo convertito, si formulò il capo di accusa che da almeno tre secoli era un triste classico della persecuzione degli ebrei: Simonino sarebbe stato dissanguato per mescolare il suo sangue all’impasto del pane azzimo da consumare per la Pasqua, in un rovesciamento sacrilego e cannibalesco dell’eucarestia cristiana.
A questo punto ci fu l’intervento decisivo di Johannes Hinderbach, il principe vescovo di Trento, che intravide tutti gli ingredienti di una straordinaria storia di successo mediatico: questa parola non è abusiva, giacché il nuovissimo strumento della stampa a caratteri mobili fu subito impiegato intensivamente, facendo di Simonino il primo santo “tipografico”. Da una parte Hinderbach manipolava l’opinione pubblica con una martellante campagna stampa, dall’altra usava la leva del governo temporale usando, in modo straordinariamente crudele anche per gli efferati standard del tempo, lo strumento della tortura e delle ordalie. Sottoposti a sofferenze indicibili, gli ebrei finirono per confessare ciò che non avevano fatto (terribile la supplica di uno di loro ai torturatori: Quid debeo dicere?, “che devo dire perché smettiate?”), morendo in parte in mano agli aguzzini e in parte sul rogo, o decapitati (alcuni si convertirono in extremis pur di non essere bruciati vivi, come sarebbe loro toccato in quanto giudei).
Nulla e nessuno poté opporsi al potere del principe-vescovo e alla sua macchina da assassinio giudiziario: nemmeno il messo papale, il dotto vescovo domenicano Battista de’ Giudici, che fiutò immediatamente il falso, ma fu messo in minoranza anche nella curia romana, dove Hinderbach contava su molti alleati (e sulla superstiziosa devozione diffusa anche tra i prelati umanisti e nell’animo dello stesso papa Sisto IV, che pare si votasse al Simonino per un dolore alla gamba). Il culto così decollò in tutta Europa, e nel 1588 arrivò infine la beatificazione ufficiale: che produsse una lunghissima tradizione iconografica, un maniacale culto delle reliquie e una tradizione di processioni e riti pubblici che a Trento sono ininterrottamente durati fino al 28 ottobre 1965.
In quella data, una Chiesa ormai impegnata dal Concilio Vaticano II al dialogo con quelli che da “perfidi giudei” sarebbero divenuti (nelle successive parole di Giovanni Paolo II in visita alla Sinagoga di Roma) “fratelli maggiori”, abolì il culto di Simonino da Trento. Il merito era dell’onestà intellettuale di monsignor Iginio Rogger, prete di Trento e storico di grande qualità: accertata la verità storica, egli smontò, letteralmente, il culto del povero bambino, seppellendone finalmente la mummia fino ad allora conservata in una teca. Nelle parole limpide e coraggiose dell’arcivescovo di Trento che aprono il catalogo della mostra si legge che “la verità come approdo condiviso sembra essere oggi più che mai una meta lontana, anche dentro la Chiesa”: proprio per questo è importante svelare agli italiani di oggi la cruenta e antica storia dell’antisemitismo. Perché la mano che nel 2020 scrive “Juden Hier” su una porta di Mondovì è mossa ancora dal principe vescovo Hibderbach e da Almirante: ricordarlo è l’unico modo per combatterla.
Questo articolo è stato pubblicato dal Fatto Quotidiano il 10 febbraio 2020