Quei volontari che fanno l'Italia

12 Febbraio 2020 /

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di Chiara Saraceno
I promotori della mobilitazione delle Sardine hanno l’indubbio merito di essere riusciti – in un contesto politico apparentemente segnato da rassegnazione – a portare in piazza (e a votare, almeno in Emilia-Romagna) migliaia di persone in nome di una politica non fondata sull’odio e l’esclusione del diverso. Ma non va ignorato che parte del successo è dovuto al fatto che hanno trovato un terreno fertile, cittadini che non attendevano le sardine per prendersi la responsabilità di agire in nome di una società più solidale e più giusta.
Molti di coloro che sono scesi in piazza lo hanno fatto perché già nella loro vita quotidiana sono mobilitati in azioni di costruzione di pezzi di società inclusive e più giuste. Al di là, e prima, delle Sardine c’è un ricco mondo di associazioni piccole e grandi, e di singoli cittadini che ritengono che la cultura civica non sia fatta solo di comportamenti corretti, ma di partecipazione alla costruzione del benessere comune. Ne fanno parte i sei milioni di volontari impegnati in settori diversi, cui il presidente Mattarella proprio in questi giorni ha riconosciuto la preziosa funzione di “rammendo” di una società che altrimenti rischia di frantumarsi sotto i colpi, non tanto dell’individualismo, quanto dell’esclusione e della mancanza di riconoscimento.
Ne fanno parte le centinaia di associazioni culturali, gruppi, cooperative sociali che innervano il territorio, costruendo spazi e modalità non solo di aiuto, ma di riconoscimento e valorizzazione delle competenze, in un’ottica non tanto o solo di altruismo, ma di corresponsabilità civica. L’individuazione e l’attivazione delle risorse e delle capacità è, in effetti, un elemento chiave di queste iniziative. In queste esperienze si costruisce e sedimenta una conoscenza condivisa dei problemi, ma anche delle risorse. Si sperimentano modalità di intervento e di collaborazione tra soggetti diversi. Conoscenze ed esperienze che sarebbero importanti anche per chi ha responsabilità politica e che invece rimangono spesso disperse, isolate. La molteplicità delle esperienze fatica a diventare sapere collettivo diffuso e ancor più ad essere conosciuta e valorizzata da chi detiene il potere decisionale.
La discesa in piazza di migliaia di persone raccoglie l’attenzione più del lavoro quotidiano di chi opera sul territorio, entra nella sua complessità, costruisce saperi, alleanze e forme di cittadinanza attiva non occasionali. Certo, queste associazioni spesso faticano a cooperare, a fare rete, con una gelosa autodifesa dei propri spazi e metodi, per altro oggi accentuata dalle modalità di finanziamento per bandi adottata da ogni ente finanziatore, pubblico o privato che sia. Non è un caso che le associazioni, gruppi e cooperative più consapevoli del rischio di frammentazione oggi cerchino di costruire reti collaborative, non di semplice rappresentanza, in modo che la loro azione sia più incisiva, le conoscenze più condivise, i metodi confrontati e verificati, la capacità di interlocuzione con il soggetto pubblico più efficace e meno divisiva.
In ogni caso, un partito che si voglia radicato nei territori, un governo che voglia fare politiche efficaci dovrebbe considerare un interlocutore imprescindibile questo ricco mondo insieme di conoscenza della società in cui viviamo e della sua complessità e di esperienze di cittadinanza attiva, non fermandosi alle Sardine. Quanto a queste ultime, hanno deciso o di intraprendere un lungo viaggio da Nord a Sud per “raccogliere le istanze che vengono dai territori”, per poi presentarle al governo. Ma, prima di candidare il movimento ad essere “ponte tra il governo e la società”, forse è bene che prendano atto che più che di ponti, c’è bisogno di una classe politica disposta ad attraversarli, a non considerare i soggetti della società civile né solo “rammendatori” di ultima istanza, né solo serbatoi di voti o di possibili candidature di facciata.
Questo articolo è stato pubblicato dal quotidiano La Repubblica il 9 febbraio 2020

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