di Michele Fumagallo
Sì, è un bene che Matera celebri la rivolta antinazista e antifascista del 21 settembre 1943. Anzi bisognerebbe chiedersi perché non è stato fatto meglio, sia oggi che in passato; perché non è diventata, quella giornata, una ricorrenza fondativa “locale” accanto a quella più generale dell’Italia democratica e antifascista che ha prodotto la nostra Carta Costituzionale. Certo, in quella rivolta di un giorno c’è uno stigma da non dimenticare: il tentativo di non fare i conti col consenso massiccio dato al fascismo nei vent’anni precedenti, quasi a liberarsi di quella colpa ma senza soffermasi troppo su di essa. Quindi la giornata conserva in sé tutte le incongruenze e i “non detti” delle rivolte spontanee, del modo in cui, ovunque ma soprattutto al Sud, si è incistato un modo “subalterno” di intendere la vita e la storia, cioè una rivolta un giorno e poi venti o trent’anni di stasi e obbedienza. Bisogna rompere questo meccanismo, in pratica un’istituzionalizzazione dello status quo, perché la democrazia in tutte le sue varianti politiche (liberali, socialiste, eccetera) si regge su di una “rivoluzione” permanente che naturalmente è il frutto di un’acquisita autonomia e insofferenza verso i meccanismi delle degenerazioni dei poteri.
Tuttavia si parte sempre da una cosa e quella giornata è stata memorabile nella storia della città oltre ad aver aperto il varco a tante altre rivolte mano a mano che l’Italia proseguiva il cammino della sua liberazione dal Sud al Nord. Ne scrisse in modo chiaro Giorgio Bocca nella sua “Storia dell’Italia partigiana” che, quando uscì nel 1966, colmò la lacuna portando alla luce tutte le rivolte partigiane del Sud. Scrisse il giornalista: “La prima ribellione avviene a Matera, città alta della Basilicata, metà sul pianoro, attorno alla torre diroccata, metà nel vallone precipite che ha pareti di tufo, la Matera dei Sassi, tutta abitata però da buona gente, piccola di statura, che prima lavorava per la Chiesa, e ora, dopo il 1860, per i baroni diventati padroni delle terre tolte alla Chiesa, comunque esclusa dalla storia, salvo che in queste poche ore gloriose di ribellione. Matera è la prima insurrezione cittadina dell’Italia occupata dai tedeschi: i legami cittadini, personali vi sostituiscono quelli politici, questa è la ribellione della gente che si conosce per nome in una piccola città”.
Nella capitale europea della cultura segnalo due manifestazioni nella ricorrenza: la riproposizione, domenica 22 settembre negli ipogei Motta di Via Ridola in tre distinte repliche (ore 17, 19 e 21), dello spettacolo teatrale di Ulderico Pesce “La strage di Matera”; e la serata di musica organizzata dalla Fondazione Matera 2019 e dal Lams “Musiche per Matera – Sinfonia di una città”, un concerto diffuso del compositore austriaco Georg Friedrich Haas dalle 18,30 alle 24, in tre parti urbane distinte (Palazzo Lanfranchi, Casa Cava, Chiesa e Ipogei di S. Agostino).
Nei giorni passati è andato invece il convegno del circolo “La Scaletta” sul professore Francesco Paolo Nitti, uno dei protagonisti di quella rivolta che avrebbe poi scritto le cose più lucide e appassionanti, valutato e rivalutato soprattutto da uno storico come Leonardo Sacco. Nel convegno si è parlato soprattutto del libro di Nitti “Le giornate di Matera (settembre 1943)” edito la prima volta nel 1965 dalla fiorentina “La Nuova Italia” e riproposto poi, con altri scritti interessanti sul Mezzogiorno, nel volume “Sud antico e nuovo” edito in città.
Non c’è lo spazio per pubblicare i pezzi più significativi dell’analisi di Nitti su quella rivolta di 76 anni fa che provocò la morte di 26 persone tra cui 18 civili. Ma qui voglio almeno darne due assaggi. Il primo è l’epopea della giornata: “Quella fierezza di Emanuele Manicone che sulla piazza principale gridava ai concittadini ancora attoniti: correte alle armi, muovetevi; quel nostro professore che si faceva spiegare durante la sparatoria come si lanciavano le bombe a mano; quel ragazzo che portava munizioni dal palazzo della prefettura ai popolani che combattevano al rione S. Biagio; quello studente che chiedeva un moschetto al suo professore per stargli vicino; quel contadino che sparava dal tetto della piccola Chiesa di Mater Dei; il nostro vecchio parroco di S. Giovanni che rincuorava e benediceva militari e civile; quei carri agricoli posti dai contadini di traverso sulla via Stigliani; quelle cannonate sparate a bruciapelo dai tedeschi contro case e chiese; quel massacro nella sede della società elettrica”. Il secondo è l’analisi critica che Nitti svolse qualche anno dopo: “Che cosa fu quell’episodio del 21 settembre? Fu semplicemente una spontanea esplosione di rivolta popolare contro i tedeschi? Fu solo un moto improvviso, una lotta provocata accidentalmente, una lotta sia pure audace di gruppi dispersi di militari e di popolani anonimi? Se è vero che forse è un po’ improprio definirlo una insurrezione, perché a rigore di termini l’insurrezione presuppone un piano preordinato e concreto da parte degli insorti e un’accurata preparazione per un’azione diretta da un comando unico, è altrettanto vero che l’episodio non fu soltanto un’esplosione disordinata e spontanea di furore popolare contro l’invasore, ma espresse anche un senso di solidarietà umana, fra gli uomini che vi parteciparono, ad un’aspirazione sia pur vaga e imprecisa alla libertà politica”.
Che conclusione trarne oggi dalla memoria di quella rivolta? Per esempio questa: senza il passato e le sue cose migliori il futuro degno di questo nome non nascerà e anzi si preparano tempi sempre più bui. Il rapporto col passato è la grande incognita di questi nostri anni di crisi della democrazia. E di crisi della sinistra naturalmente. La lezione che si può trarre oggi è che sicuramente senza antifascismo non c’è democrazia possibile in Italia e al Sud; ma altrettanto sicuramente senza una “rivoluzione permanente e giornaliera” non si apre la strada per la fuoriuscita dal meccanismo “rivolta occasionale-obbedienza ventennale”.