di Michele Fumagallo
Prima di inoltrarci, in una prossima puntata, nella questione strutture d’arte a Matera, è forse interessante soffermarci sulla mostra che è stata inaugurata nella città dei Sassi il 6 settembre per andare avanti fino al 6 gennaio dell’anno prossimo. Si intitola “Blind Sensorium. Il Paradosso dell’Antropocene” e ne è autore Armin Linke, fotografo e filmmaker con una già lunga attività alle spalle.
La mostra è una delle 4 grandi performance artistiche attorno a cui ruota l’anno di Matera capitale europea della cultura. Con Linke ho avuto un colloquio prima della mostra che è andato nell’inserto culturale Alias de “Il manifesto” e che riproduco per intero qui sotto. Non prima di aver ricordato che è da poco terminata a Matera, lungo la strada delle cave di tufo, l’orazione funebre “Trenodia” di Vinicio e Mariangela Capossela che ha unificato nel canto di riscatto (dal sottoterra alla luce) vari posti del Sud (Calabria, Alta Irpinia, Matera) e che è terminata con il successo del concerto del cantautore nella Cava del Sole.
E non prima di aver aggiunto che l’arte a sfondo sociale, che molti autori hanno preso o ripreso a fare, è un genere interessante e affascinante (almeno per me; e se è riuscito, naturalmente) ma è soltanto un genere. Meglio ribadirlo, non si sa mai. Ci sono in giro tipacci che vorrebbero sottomettere l’arte a imperativi categorici e ideologici di qualsiasi tipo. Mentre invece la sua bellezza è nel gioco di fantasia che mette in moto e nell’assoluta libertà con cui lo fa. Il resto fa parte dei nostri (liberi) gusti. Ecco l’articolo-intervista ad Armin Linke sulla cecità a cui siamo esposti nel mondo oggi.
Il manifesto – Alias
Il paradosso della rana
di Michele Fumagallo
Matera, 31 agosto 2019
Armin Linke, milanese cinquantatreenne che vive a Berlino, fotografo, film-maker e performer è l’artista scelto per uno degli appuntamenti d’arte più significativi nell’ambito di Matera capitale europea della cultura. La sua mostra “Blind Sensorium, il Paradosso dell’Antropocene” si inaugura il 6 settembre per proseguire fino al 6 gennaio prossimo. E, come capita nelle occasioni più importanti, l’esposizione è anche il coronamento di una ricerca attorno alla natura e alle sue trasformazioni, che data ormai da alcuni anni e che acquista per lui un’importanza spartiacque ai fini di un bilancio che può essere moltiplicatore di altre ricerche.
Linke, già presente in svariate ricerche ed esposizioni internazionali e premiato alla Biennale di Venezia per l’installazione «Alpi» che diverrà in seguito un film, ha documentato i vari periodi di trasformazione della natura e del paesaggio prodotti dall’uomo. Con «piglio» insieme artistico e antropologico ha prodotto finora una ricerca che è un vero e proprio archivio in continua crescita dello stato del pianeta. La mostra materana si tiene nei locali del Museo Archeologico Nazionale Domenico Ridola e nell’ex scuola media Alessandro Volta. Con Armin Linke, che ha collaborato in passato con gruppi teatrali e musicali di avanguardia, abbiamo avuto un colloquio sulla sua mostra. «È un progetto che parte da lontano – spiega l’artista – da questi ultimi anni in cui ho prodotto video e foto, sia sul tema dell’antropocene (se l’uomo è la forza trainante), che su quelli della geologia e dell’atmosfera. Dopo i lavori in Amazzonia e altrove, a Matera, città che ti permette di vedere nel lungo periodo come l’uomo ha adattato la geologia per la sua sopravvivenza, per la prima volta allestiremo, a partire dai progetti di questi ultimi anni, usando un metodo di lavoro collaborativo e coinvolgendo scienziati ed altri soggetti». Linke dà molta importanza a questo appuntamento nella città dei Sassi e cita un apologo di Noam Chomsky sulla rana che cade nell’acqua mentre si riscalda per la bollitura. Dapprima si adatta piacevolmente al tepore dell’acqua tiepida, ma poi non riesce più a liberarsi mano a mano che aumenta il calore fino a morire bollita.
«Sì, certo, l’apologo di Chomsky condensa bene il nostro percorso qui a Matera. Nella mostra che ho curato, insieme ad Anselm Franke, riprendo i temi sociali che ho sviluppato nel tempo come fotografo. I traumi sociali dell’intervento umano sulla natura sono stati la mia linea già a partire, venti anni fa, dal progetto fotografico sulla diga delle Tre Gole in Cina che ha stravolto il paesaggio e la vita di due milioni di persone; per proseguire con l’impegno sul cambiamento climatico e lo sfruttamento intensivo delle risorse comuni ad opera di precisi gruppi umani. E da qui rivolgermi alla geologia e agli interscambi che essa tiene sia col clima che con l’agricoltura e gli oceani».
Tematiche, queste, che Linke ha già affrontato altrove, mentre per l’intervento qui a Matera c’è un significato specifico che porta avanti: «Non limitarsi alla fotografia, per sviluppare questi grandi temi, ma alle immagini e studi prodotti da altri organismi sul nostro pianeta e che agiscono anche sul territorio materano, come Geodesia, sede locale dell’Agenzia Spaziale Italiana, oppure Agrobios, centro scientifico gestito dalla regione finalizzato all’uso agricolo delle piante, o ancora l’osservazione dei luoghi dell’estrazione petrolifera in Basilicata optando per un’altra visualizzazione, cioè ottenendo dal Ministero i profili dei pozzi geologici sperimentali degli anni sessanta. E altri materiali come le batimetrie geologiche prodotte dai sondaggi sismici sonori dei fondali marini condotti in Basilicata negli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso».
Viene da chiedersi il senso del titolo della mostra, a partire da Blind Sensorium (Sensorio cieco). Cosa voglia dire, che paradossalmente il progresso in cui siamo immersi ci rende ciechi nonostante la molteplicità di canali con cui ci illudiamo di captare le cose del mondo e della vita oggi? «La quantità di materiali che esponiamo – prosegue Linke – è un invito a interrogarsi sul perché, nonostante siamo invasi da meccanismi sensoriali tra i più vari (satelliti, supercomputer che analizzano dati per proiettarli nel futuro, sensori dispersi negli oceani, trivellazioni geologiche), persistiamo in una sorta di cecità. Naturalmente intendiamo anche riflettere sulle forme della raffigurazione. Il paradosso è che la fotografia in senso classico non è in grado di raccontare la complessità e quindi va affiancata a diverse forme di rappresentazione creando sequenze in cui ogni oggetto-immagine entra in risonanza simbolica con gli altri. Il senso, secondo la lezione del montaggio ejzenstejniano, nasce dall’accostamento di due unità che per attrito producono un terzo significato affidato all’occhio di chi guarda. Ecco perché nei locali della scuola Volta e del Museo Ridola i reperti archeologici, ricollocati e ridisegnati in funzione del nostro percorso espositivo (un atteggiamento, va detto, coraggioso e generoso della direzione del Museo), si ritrovano accanto alle loro successive riproduzioni fotografiche, ma anche a disegni, dipinti, cartografie satellitari e geologiche. Secondo un ordine che sposa la messa in scena, il continuum filmico.
Non a caso, al centro del locale di venti metri al primo piano abbiamo creato una sala cinematografica a mo’ di simbolica piazza in cui verrà proiettato un film di 103 minuti il cui storyboard sarà esposto in forma sculturale». In conclusione Armin guarda oltre il suo lavoro: «Insomma l’ambizione è quella di una mostra che entra in dialogo diretto con scienza, arte, politica, tecnologia. E che faccia interagire anche filosofi e storici con il pubblico creando un’atmosfera di scambio di saperi e un giusto linguaggio che eviti la trappola del pedagogismo. Un po’, scusa la presunzione, come cercare di rappresentare il mondo e decidere il destino collettivo».