Bologna, appunti sulla questione Prati di Caprara: qualche domanda all'urbanistica bolognese

9 Novembre 2018 /

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di Piero Cavalcoli
L’assessora Valentina Orioli ci ricorda che il tema in discussione riguarda un’area strategica, che costituisce il cuore di una delle “sette città” su cui il Piano Strutturale di Bologna (PSC) ha costruito il disegno futuro di Bologna, quella che si è voluta chiamare “Città della Ferrovia”. Il cuore strategico, appunto, non solo dell’abitato bolognese, ma dell’intero bacino metropolitano. Quella in cui batte Il cuore delle relazioni tra le persone in movimento (Stazione Ferroviaria e delle autocorriere, Aeroporto), delle relazioni commerciali (Fiera), delle offerte alimentari e ludiche (Fico) e della principale offerta per la cura delle persone (Ospedale Maggiore).
Cosa si propone per questa area strategica il POC, il Piano Operativo che attua il Piano Strutturale? E dunque che idea si ha, di conseguenza, del futuro della città?
Lo dice una disposizione sintetica delle Norme del POC “Un intervento di sostituzione integrale dell’edilizia esistente e la creazione di un nuovo impianto urbano con la realizzazione di residenze, centri direzionali e commerciali, scuole, parcheggi e un parco di 20 ettari” (Norme, art.11, comma2).
Dunque un nuovo quartiere residenziale, ma quanto grande? Anche questo è noto: 181.810 mq di Sul (Superficie Utile Lorda), pari a 1.164 alloggi, di cui 873 “libera” e 291 di “edilizia sociale” (133 pubblica e 158 privata) (art.11, comma 2 delle Norme e Relazione pag.27), più “eventuali ulteriori quote di capacità edificatorie per la realizzazione di attrezzature e spazi collettivi… nella misura massima del 10% della Sul complessiva (Norme, art.11 delle Norme). In definitiva, un nuovo quartiere urbano formato da circa 200.000 mq di Sul, ospitanti un numero di alloggi pari a circa due volte il “Virgolone” del Pilastro.

Ha bisogno Bologna di questo “nuovo impianto urbano” in questa “area strategica”?
No, ma non lo dico io, lo dice la stessa Relazione del POC (pag.12): “Questo approccio si distacca dall’ipotesi di un dimensionamento del POC legato ad un fabbisogno: come si evince dal Documento Programmatico per la Qualità Urbana (documento di base del PSC, ndr), il lieve aumento tendenziale della popolazione nella città non richiede previsioni insediative come quelle che vengono messe in gioco dal POC”
Ma allora?
E qui sta la giustificazione più straordinaria “La ragione per rendere possibili interventi di tale dimensione dipende… dalla volontà di mettere in gioco l’offerta del PSC che ha maggiori possibilità di segnare il futuro della città, incidendo sulla stessa quantità della domanda (inducendo cioè una domanda oggi non presente) oltre che sulla qualità”. Dunque: di un quartiere di queste dimensioni non c’è proprio bisogno, ma se lo facciamo, magari progettato da un Archistar, senza dubbio una domanda oggi inesistente sboccerà di incanto. Si contraddicono in questo modo, oltre a quelle dell’urbanistica, che vorrebbe che si stabilissero le destinazioni dei suoli in base ai fabbisogni, anche le più elementari leggi del mercato e si stabilisce che sarà l’offerta a generare la domanda. Qualcuno dovrà spiegarmi, perciò, per quale ragione la pancia delle banche è piena di alloggi invenduti.
Ma al di là del fatto che non è minimamente necessario, ciò che viene proposto è almeno sostenibile sotto il profilo funzionale?
NO, e di nuovo non lo dico io, lo dice di nuovo lo stesso POC: “Si è verificato e valutato, attraverso gli studi di carattere trasportistico… che hanno preceduto la redazione del POC, che esistono attualmente le condizioni di sostenibilità per circa il 30% dell’intera capacità edificatoria2 (Valsat, pag 21; Relazione, pag.12). Dunque, per rendere sostenibile sotto il profilo funzionale quanto complessivamente proposto sarà indispensabile “…l’adeguamento infrastrutturale necessario, la cui realizzazione potrà determinarsi sia in base all’iniziativa degli operatori interessati alla trasformazione delle aree sia in base all’iniziativa del Comune qualora riuscisse a garantirsi altrimenti le risorse finanziarie”.
Ottimo, impariamo così altre due cose: primo, che gli Accordi pattuiti con la proprietà non contemplano alcun impegno finanziario relativo al completamento della rete infrastrutturale necessaria per completare l’intero insediamento e, secondo, che, qualora non si manifestasse “l’iniziativa degli operatori interessati, ci penserà il Comune.
Ma almeno, siamo a posto sotto il profilo della sostenibilità ambientale?
Ni, perché sul tema dell’aria e dell’inquinamento atmosferico la Valsat si occupa esclusivamente di tutelare i futuri abitanti del quartiere e non fa cenno al contributo che l’aumento del traffico generato dai nuovi insediamenti scaricherà sulle generali condizioni dell’aria dell’intera area urbana, mentre, sul tema dello smaltimento delle acque superficiali ci si limita alla “necessità di indagare in merito alla effettiva possibilità (volumetrica ed altimetrica) di recapito presso i corpi idrici superficiali (torrente Ravone e canaletta Ghisliera, ndr.) delle portate bianche laminate in uscita dl comparto” (Valsat, pag.27), mancando di sottolineare l’aspetto principale del problema, che riisiede nel contributo alla impermeabilizzazione dei suoli che gli interventi progettati inevitabilmente genereranno. Al proposito ci si limita a prescrivere che l’indice di permeabilità territoriale debba essere almeno pari al 50% della Superficie Territoriale. Ma quale è adesso l’indice di permeabilità dell’area? Aumenterà o diminuirà dopo gli interventi? Non è dato sapere, con buona pace del Piano di Adattamento al Cambiamento Clinatico, adottato dallo stesso Comune proprio mentre adottava il POC e finanziato dall’Europa (Life, “Blue Ap”), che indicava come primo obiettivo dell’amministrazione la scelta di minimizzare la crescita del territorio impermeabilizzato.
Fa un certo effetto certificare queste cadute di attenzione proprio in questi giorni.
In sintesi, e in definitiva, pare ragionevole considerare quanto proposto dal POC scarsamente motivato, contraddittorio, inefficace e infine, lasciatemelo dire, in fondo anche un po’ banale, impropriamente dedicato ad un’area che è a ragione considerata strategica. Scarsamente motivato, come ammette anche il Comune, che nega ogni relazione con il fabbisogno. Contraddittorio, in quanto la Valsat nega la fattibilità del 70% di quanto previsto negli Accordi.
Inefficace, perché contrastato da numerose prescrizioni (per fortuna!) che ne proiettano la realizzazione in tempi difficilmente prevedibili: un impegnativo piano di indagini, da svolgere con Arpa sulla qualità dei suoli, la conseguente “condizione escludente, cioè la possibilità di escludere l’utilizzo delle aree” (Relazione, pagg.11/12) qualora risultassero necessarie bonifiche difficilmente operabili o costose, l’utilizzo solo parziale delle realizzazioni concesse, in attesa del completamento delle opere infrastrutturali necessarie, a carico di non si sa chi.
Debole e banale, infine, perché, in fondo, anche se il progetto fosse firmato da un’Archistar, si tratta comunque di un ordinario intervento di sviluppo urbano che, anche se non collocato in area agricola, mantiene tutte le caratteristiche della passata e criticabile stagione edilizia, a lungo operata a partire dal PRG dell’85 del secolo scorso che, in nome di una riduzione delle occupazioni di suolo in area agricola, ha operato, con le medesime finalità e caratteristiche, in area urbana, nelle famose “aree interstiziali”. Sottraendo, in nome dell’obiettivo della “città compatta”, circa il 50% delle previsioni a verde pubblico.
Che fare allora?
Bisogna avere il coraggio di cambiare strada, correggendo il POC. E’ necessario un progetto forte e condiviso, capace di segnare una distanza con la perdurante debole attenzione alle questioni ambientali, che sappia raccogliere le voci, che pur si sono manifestate nel corso stesso della redazione del POC (penso alle prescrizioni della Valsat e ai risultati di importanti progetti europei, da Blue Ap a Gaia) e soprattutto quelle dei cittadini. Se questi ultimi abbracciano gli alberi e nessuno ha mai abbracciato la Meridiana a Casalecchio o l’Unipol di via Larga una ragione ci sarà.
Forte vuol dire anche simbolico ed evocativo, questo sì capace di segnare il futuro. Che contrasti la tentazione di costruire muri, ostacoli, fratture, che richiami la nostra tradizione di attenzione al nuovo e di rispetto del passato. A questo si pensa quando si parla di un bosco urbano, un progetto che sappia trovare continuità con la tradizione di questa città, che non ha mai semplicemente nascosto le rovine e le testimonianze di ciò che è stato seppellendolo sotto pezzi anonimi di “sviluppo urbano”, ma ha saputo conservare la memoria del passato reinterpretandolo con il senso del presente. Penso alla Montagnola, ai Giardini Margherita, al Guasto, alla Manifattura Tabacchi. E, in fondo, penso a tutto il centro storico e alla collina.
Un bosco per la pace, ad esempio, in un luogo adibito così a lungo alle armi. E un bosco evocativo della necessità dell’accoglienza e delle relazioni tra gli uomini, in un luogo che connette stazioni, ferrovie e aeroporti e che ha anche visto cosa può determinare l’indifferenza e l’incuria, dimostrando quanto ancora siamo incapaci di accogliere e integrare i più deboli.
Si può fare?
Si dice che su questa strada si incontrerebbero sostanzialmente due ostacoli: da un lato gli Accordi sottoscritti con l’agenzia del Demanio e con l’INVIMIT, proprietari delle aree in questione, accordi che sarebbe opportuno rispettare sia per correttezza istituzionale che per evitare qualsiasi possibile richiesta di risarcimento; dall’altro le disposizioni della recente nuova legge urbanistica regionale che, nel previsto periodo transitorio di avvio dell’applicazione delle disposizioni, impedirebbe ogni diversa determinazione o variante dei vigenti strumenti urbanistici.
Per quanto attiene l’inopportunità dell’eventuale denuncia degli Accordi, non credo che essa possa essere presa in alcun modo a pretesto per evitare di mettere mano ad una sollecita modificazione del POC e delle scelte descritte. Si tratta semplicemente di mettere in atto quanto previsto all’art.5 dell’ultimo Accordo, sottoscritto il 2 marzo 2015, contenente l’impegno del Comune ad elaborare il POC fino a qui commentato.
L’articolo recita: “La durata del presente Accordo è stabilita in due anni, decorrenti dalla data della sua sottoscrizione, rinnovabili su accordo delle parti. Nell’ipotesi in cui le previsioni del presente Accordo non potessero trovare integrale attuazione, le parti potranno sciogliersi dagli impegni assunti, mediante comunicazione scritta per raccomandata con avviso di ricevimento. In tal caso, le Parti si impegnano a verificare la possibilità di rimodulare obiettivi e finalità dell’Accordo, ai fini della sua attuazione, anche parziale, ovvero a regolarizzare le situazioni medio tempore verificatesi”. Dunque nulla osta, se c’è volontà politica, a denunciare o riformulare l’Accordo, stante il fatto che, per quanto so non ci sono situazioni “medio tempore” da regolarizzare.
Per quanto poi riguarda il presunto impedimento che nascerebbe da una corretta applicazione delle disposizioni contenute nella nuova legge urbanistica, va richiamato quanto enunciato nel capitolo IV° della lettera che il legislatore regionale ha inviato ai Comuni nel marzo di quest’anno: “Nel corso della prima fase triennale del periodo transitorio, i Comuni possono avviare e approvare i procedimenti indicati all’art.4, comma 4, ossia i procedimenti relativi a: a)varianti specifiche agli strumenti urbanistici vigenti…. ma anche varianti ai POC vigenti… Ovvero POC “tematici” diretti alla pianificazione di specifiche tipologie di insediamenti”. Inteso che le suggestioni appena abbozzate in precedenza possono in pieno riconoscersi in “varianti tematiche al POC”, assieme a quanto è puntualmente proposto dal citato Piano di adattamento al cambiamento Climatico, pare dunque non sussistere alcun impedimento amministrativo a quanto invocato.

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