L'invasione dei cromocosmi: il Gender Bender a Bologna

30 Ottobre 2018 /

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di Silvia Napoli
Non vanno mai deserte le conferenze stampa di Gender Bender, uno dei festival fiore all’occhiello della città, un festival che marca un territorio e fa letteralmente la differenza, nel già affollato mondo bolognese di rassegne filmiche, teatrali, presentazioni librarie o vernici d’arte visiva.
Anzi, assomigliano ad una festa per il clima amichevole che si respira tra operatori e giornalisti e, quest’anno, avvicinandosi la maggiore età per questa programmazione giunta alla sedicesima edizione, più estesa che mai temporalmente, dal 24 ottobre al 3 novembre, era da segnalare la presenza di due assessori alla Cultura, quali Lepore e Mezzetti per la municipalità e la Regione e di tutti i rappresentanti dei main sponsor della manifestazione, che ogni anno crescono in numero e peso.
Gender Bender è naturalmente un grande evento prodotto dal Cassero LGBTQI center sotto la direzione artistica del brillante e attento Daniele Del Pozzo, una figura unica di programmatore culturale di livello internazionale come il numero e l’espansione delle collaborazioni world around nuove e consolidate dimostra. Ma è molto di più, in termini di ricognizione dal punto di vista meno considerato delle congruenze o dei clash tra forma e contenuto artistici.

Si sperimenta molto in questa rassegna sotto il profilo della gamma emotiva, delle sfumature di genere, delle forme espressive, che a dispetto della suddivisione in sezioni per dare più ordine a ben 112 eventi, rimangono il piu delle volte ibridate e di difficile definizione. Non per questo, ovviamente meno fruibili ad un pubblico che si vuole più trasversale ed esteso possibile, tanto da aver programmato una performance alla Coop di Costa per lunedi 29 per esempio, che sarà una sorta di invito al tango tra i carrelli della spesa.
Una rassegna estesa e corposa, è proprio il caso di definirla cosi, rassegna dove ciascun* può trovare il suo percorso, e che ambisce anzitutto a non far sentire inadeguato o intimidito nessuno, invitato forse a trovarsi un microcosmo di rappresentanza e rappresentazione. Perché diciamolo, è vero come recitano le parole dell’autrice nera africana Chimamanda Ngozi Adichie, poste a incipit di brochure, che il genere conta e maschi e femmine vivono il mondo in modo differente, ma sappiamo bene come poi all’interno di queste grandi categorie, ci siano diversi polimondi, ricchi di sfumature e portatori di ambiguità, che chiedono di essere ascoltati e, soprattutto accettati, non semplicemente tollerati.
Sotto l’apparenza di un certo ecumenismo e di rinuncia all’esibizionismo trasgressivo ad ogni costo, evidente dalla sobrietà grafica dei materiali e della mitica badge chè poi oltre a fungere da oggetto di culto è anche un pass per accedere ad una marea di sconti sulle programmazioni e non solo, urge una domanda bruciante che da qual siasi sponda ideologica o di provenienza o di natura biologica, si guardi, è in fondo la domanda delle domande nel nuovo millennio:siamo pronti ad accettare appunto gli altri per quello che sono e non per come li vorremmo, evitando di cadere nel buonismo o in qualche esasperazione di politicamente corretto?
Di quali strumenti ci doteremo per fare questa operazione? Come dialettizzare il più possibile il binomio rappresentazione- autorappresentazione? Siamo pronti ad ammettere che nessuna ricetta parziale è la soluzione? In un mondo dominato dall’acutizzarsi di gap economici, generazionali, collegati anche ad elementi etnico-religiosi, a criticità legate all’uso e abuso di tecnologie e socialmedia invasivi, la risposta non può essere semplicemente praticare il genderfluid o costruirsi una comunità autoreferente o esercitare una severa vigilanza sui comportamenti e le esternazioni particolarmente omofobe, razziste e violente.
Lo sanno bene gli animatori, gli attivisti, i dirigenti del Cassero, che svolgono una intensa attività a 360 gradi per tutto l’anno, che meriterebbe di essere più conosciuta, a contatto con difficoltà e disagi provocati dalla discriminazione e non solo ma anche dall’invecchiamento, dalla povertà, dalla malattia, dalla disabilità, dalla carenza di strutture abitative adeguate per affrontare la solitudine, lo sradicamento, le scarse disponibilità economiche. Attivisti che che lavorano moltissimo anche con le scuole e i piu giovani, li dove esiste una apertura in tal senso.
In questo contesto, Gender Bender che invade con i suoi ultracorpi sensibili tanti luoghi della Città, si legge in filigrana come una festa mobile si, ma acquista anche una diversa valenza dimostrativa e pedagogica. Come si può vedere per esempio nel grande spazio dato al Testoni ragazzi e al Teatro di Casalecchio a programmazioni di teatro cosiddetto Arcobaleno, che non è spettacolo su misura per le famiglie cosi pittorescamente definite, ma è semplicemente, nell’opinione di chi scrive, teatro per l’infanzia e l’adolescenza che è,a sua volta in realtà, un teatro in cui si esprime il massimo di ricerca e sperimentazione di linguaggi di oggi.
Questo desiderio di essere in buona sostanza tutto fuorchè un festival di e per addetti ai lavori,ma nello stesso tempo un festival d’arte si evidenzia nelle piccole novità inserite in cartellone, come ad esempio, la creazione di premi per la sezione cinema, assegnati sia per la sezione fiction che documentaria, da una giuria di giovani cinefili e critici cinematografici selezionati dal dipartimento delle Arti e dalla istituzione di un premio del pubblico per il film più votato.
Non mancano per tutta la durata del festival laboratori molto aperti di danza, espressione corporea rivolti a chi vuole mettere in campo la propria soggettività anche con tecniche molto meticce, come si diceva all’inizio, laboratori a costi decisamente sostenibili e spesso condotti da artisti di caratura internazionale e indubbia originalità. La sfida è quella di affrontare temi complessi, concetti sofisticati, problematiche sociali, linguaggi sperimentali mantenendo ed elevando se possibile il livello di accessibilità. Gender Bender non fa teatro sociale e non si rivolge alle minoranze: semplicemente legge la Società in maniera prismatica e rende le nostre minorità, le nostre irriducibili diversità, le nostre difformità, qualcosa di bello, di molto umano e potenzialmente artistico e scusate se è poco.

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