di Annamaria Rivera
La vicenda degli ostaggi sequestrati sulla nave “U. Diciotti” della Guardia costiera italiana, l’incontro ufficiale, a Milano, tra Salvini e Orbán (che lo ha definito “il mio eroe”), il tono sprezzante verso la magistratura col quale il primo ha commentato la notizia della sua incriminazione per sequestro di persona a scopo di coazione e per altri reati affini: tutto ciò configura in maniera esemplare la vocazione eversiva che caratterizza il governo fascio-stellato, in primis il suo ministro dell’Interno. Diciamo eversiva in senso proprio, cioè tendente a violare e stravolgere elementi basilari della Costituzione e del diritto internazionale.
Che questo disegno eversivo assuma caratteri rozzi, sguaiati, farseschi non deve trarre in inganno: in non pochi casi storici le svolte autoritarie, fino ai totalitarismi, sono state sottovalutate anche perché si manifestavano con stile di tal genere, quello che, in realtà, ne permise l’adesione di massa.
Della vicenda della “U. Diciotti”, ampiamente descritta e analizzata da altr*, mi soffermerò su un solo “dettaglio”, emblematico e rivelatore. La decisione di deportare verso l’Albania venti dei centosettantasette profughi sequestrati, oltre che violare, anch’essa, la Costituzione e il diritto internazionale, non ha altro senso se non quello squisitamente e grottescamente propagandistico.
È solo per tale scopo che si compiono gravi violazioni quali il respingimento collettivo e la denegazione del diritto a veder esaminata la propria domanda d’asilo dalle autorità del Paese d’approdo o da un’altra autorità europea.
Quale peso, infatti, nell’economia dell’invasione – per usare il loro lessico – avrebbero potuto avere venti persone, in un Paese che conta quasi sessanta milioni e mezzo di abitanti? In realtà, persone esse non sono, secondo Salvini e seguaci, bensì pura merce: la reificazione degli altri è, lo sappiamo, una delle tendenze più tipiche e ricorrenti del razzismo.
Un tale processo di reificazione induce, tra l’altro, a sottovalutare o a ignorare del tutto a quale apice di orrore sia giunta quella che da molti anni chiamiamo ecatombe mediterranea. Anch’essa è il frutto di politiche eversive, di atti del tutto intenzionali, quali la guerra contro le Ong che praticano ricerca e soccorso in mare. Sicché potremmo azzardarci a definire genocidio quella strage.
Il più recente rapporto, Viaggi disperati, dell’Unhcr, l’agenzia Onu per i rifugiati, documenta che, se il numero di arrivi è nettamente calato, il tasso di mortalità durante le traversate del Mediterraneo è cresciuto vertiginosamente rispetto al 2017, al punto da essere oggi giunto a 1 ogni 18 arrivi (1.095 vittime). Si consideri che nell’anno passato esso era stato di una persona ogni 42. Tutto ciò mentre in Libia – il “Paese sicuro”, col quale l’Italia ha sottoscritto stringenti accordi di cooperazione “per il contrasto dell’immigrazione clandestina”- furoreggia la guerra civile.
Ben lungi da suscitare pietas, la sorte delle persone costrette a emigrare a rischio della vita – i sommersi e i salvati, per parafrasare Primo Levi – è perlopiù motivo d’incremento del razzismo, grazie alla propaganda, verbale e fattuale, del governo in carica, soprattutto del suo vociante ministro dell’Interno. Sicché, dal momento dell’insediamento del nuovo governo, le aggressioni razziste, fino agli omicidi, vanno susseguendosi con cadenza costante, quasi quotidiana.
En passant ricordo quanto “classico” e ben strutturato sia il razzismo salviniano, se è vero che – per fare un solo esempio ben noto – il 9 aprile del 2008, da capogruppo leghista del consiglio comunale di Milano, osò affermare in pubblico “I topi sono più facili da debellare degli zingari, perché sono più piccoli”, usando una delle metafore zoologiche più tipiche dell’antisemitismo, più in generale del razzismo nazista.
Di fronte a tutto questo vi sono degli intellettuali, illustri o quasi, più o meno di sinistra, che denegano il peso che una tale propaganda martellante possa avere sugli orientamenti e i comportamenti di massa. Qualcuno di loro è arrivato a sostenere che l’attuale intensificazione del razzismo, verbale e fattuale, non configurerebbe altro che “una fase congiunturale, falsata dalla sensazione”.
Altri si dichiarano insofferenti verso le accuse di razzismo rivolte a Salvini e ai suoi accoliti, poiché non sarebbero accompagnate da alcun tentativo di analizzare il consenso di cui essi godono tra le “masse” (come si diceva un tempo), perfino tra la classe operaia.
Per soddisfare questi ultimi, si potrebbe proporre qualche analogia storica, non priva di pertinenza, traendola da Le origini del totalitarismo di Hanna Arendt (1948/1999), opera della quale – conviene precisare – non tutto è condivisibile. Nondimeno, per spiegarci come mai la propaganda salviniana abbia fatto breccia anche tra i meno privilegiati, si potrebbe far ricorso alla teoria che Arendt propone riguardo alla dissoluzione delle classi, propriamente intese, in favore della plebe, che, per causa soprattutto della crisi economica, si era formata mediante i declassati provenienti dai più vari strati sociali. Come sostiene ancora Arendt, fu questa plebe “disorganizzata e amorfa” (436), ormai slegata dai partiti tradizionali, costituita da individui colmi di risentimento nonché attratti “dall’uomo forte’, dal ‘grande capo’” (148), a costituire uditorio e massa di manovra della propaganda nazista.
Quanto alla propaganda razzista odierna, essa rischia d’essere rafforzata dalla “pornografia dei circuiti e delle reti”, come la definì quasi profeticamente Jean Baudrillard nel lontano 1987 (L’altro visto da sé, 1987/1997:14), la quale riduce tutti gli eventi, gli spazi, le memorie a una sola dimensione, quella della comunicazione immediata, incrementando così alienazione e individualismo, e indebolendo senso critico e partecipazione.
Dal canto suo, lo storico Walter Laqueur, autore de La Repubblica di Weimar (1974/1977), sottolinea fino a qual punto il demagogismo nazionalistico (323) – com’egli lo definisce – dei nazisti esercitasse un forte richiamo sulle masse. Ciò accadeva in un contesto rispetto al quale l’attuale situazione italiana presenta analogie inquietanti: “la paura della proletarizzazione nutrita dai ceti medi”, la presenza di ben sei milioni di disoccupati, il calo dei salari e dei sussidi di disoccupazione, il fatto che “la stragrande maggioranza di laureati” non avesse “alcuna prospettiva di trovare un’occupazione entro un futuro prevedibile” (315-318).
Si potrebbe obiettare che questi nostri frammenti di analisi manchino del riferimento al passato più recente, se non aggiungessimo che, certo, la situazione attuale è anche il retaggio – o il frutto marcio, si potrebbe dire – di ciò che i governi precedenti hanno seminato in abbondanza. Esemplificative delle loro politiche sono le due leggi dell’aprile 2017: la 46, detta Minniti-Orlando (“Disposizioni urgenti per l’accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale, nonché per il contrasto dell’immigrazione illegale”) e la 48, detta Minniti (“Disposizioni urgenti in materia di sicurezza delle città”), accomunate dalla medesima, miope ideologia disciplinare, sicuritaria e repressiva.
Ciò per non dire dell’abbandono delle periferie e dei quartieri popolari da parte delle formazioni di sinistra, con qualche eccezione, cioè della rinuncia a compiere quel “lavoro di massa”, fatto anche di partecipazione e convivialità, che un tempo la contraddistingueva. Oggi essa, ridotta a uno stato frammentario e di estrema debolezza, fatica perfino a immaginare la possibilità di organizzare una manifestazione nazionale contro il governo fascio-stellato. È dunque del tutto opportuno e benemerito l’appello, lanciato dal manifesto, in favore di una tale iniziativa.
Questo articolo è stato pubblicato da Micromega Online il 4 settembre 2018