Quaranta anni fa, il 1977

15 Marzo 2017 /

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di Bruno Giorgini
Il quarantennale del ’77 non è proprio scansabile. Almeno se si vive a Bologna. Per un verso l’establishment politico istituzionale, o nomenclatura, teme un revival magari sull’onda delle iniziative politiche del cua, il collettivo autonomo universitario che fa parecchio tribolare i poteri costituiti, per l’altro i collettivi universitari e centri sociali comunque definiti che di sriffa o di sraffa in quel movimento pretendono di innestarsi. Mentre coloro che lo agirono da protagonisti moltiplicano gli eventi della memoria dei giorni che furono, cercando di evitare il “reducismo” e/o la retorica da “ex combattenti”.
Avviene così che la mattina dell’11 marzo, quando orsono quarantanni Francesco Lorusso studente già militante di Lotta Continua morì fucilato da un carabiniere, e da allora ogni anno i suoi compagni si ritrovano, il cua minacciando sfracelli, non siano presenti nè rappresentanti delle istituzioni politiche elettive, diciamo il Comune, e neppure dell’Università, diciamo il Rettore e/o qualche suo delegato. Non gli par vero a sindaco e rettore di evitare così l’imbarazzo di una presenza sotto la lapide che ricorda l’omicidio di Francesco : «I compagni di Francesco Lorusso qui assassinato dalla ferocia armata di regime l’11 marzo 1977 sanno che la sua idea di uguaglianza di libertà di amore sopravviverà ad ogni crimine. Francesco è vivo e lotta insieme a noi».

Già, una lapide mai sottoscritta e/o riconosciuta nella sua verità dalle istituzioni politiche tanto quanto accademiche. Sono venuti quando proprio non potevano farne a meno, ma sempre quatti quatti rasente i muri, perchè mai assunsero gli eventi del’77 e l’assassinio di Lorusso nella loro inequivocabile realtà. Ovvero per paradosso l’intransigente volontà militante del cua che dice: Lorusso è nostro, nostra memoria che sindaco e rettore non possono condividere, mette al riparo proprio i poteri costituiti, li conforta nella loro assenza e mancanza, e in un certo qual senso offre giustificazione alla loro vigliaccheria e incapacità di fare i conti con quanto accadde quaranta anni fa. O peggio: offre il dito dietro cui nascondere la loro complicità più o meno dispiegata di allora con i fucilatori in divisa.
Per non dire dell’osceno funerale cileno di Francesco, confinato ai margini della città tra elicotteri e schiere di armati che il sindaco Zangheri accettò, e che purtroppo il movimento subì, funerale che sembra ormai scancellato dalla memoria di questa nostra città rincagnata e ottusa, dimentica della generosità. Nel mentre la vulgata racconta di un movimento del ’77 irremediabilmente violento fin dal suo dna, quasi esplosione di barbarie nella civile e democratica Bologna, che poverina dovette soffrire l’affronto delle sue celebri vetrine frantumate a colpi di pietra. Ma se si rimette sui piedi quel movimento ecco apparire il disegno di una realtà ben diversa. Sul piano generale si può dire che quel movimento era composto di giovani donne e uomini che aspiravano e volevano essere liberi e uguali. Niente di più e niente di meno.
Nonché volevano autogestire ampi spazi culturali, scientifici, materiali all’interno dell’università e in proiezione anche in città. Con diverso linguaggio: tentavano di definire e praticare un diritto di cittadinanaza “comunista” a Bologna. Ma non in modo utopico e/o totalmente anarchico. Anzi il movimento andò costituendosi attorno a strutture organizzate e di pensiero precise. Innanzitutto A/traverso, il giornale animato essenzialmente da Bifo con in parallelo l’invenzione di Radio Alice, la comunicazione via etere libera e libertaria. Per dirla in termini dotti, A/traverso e Radio Alice costruiscono una vera e propria praxis linguistica rivoluzionaria (Gramsci) su cui non mi soffermo, ma che, se si vuole, è significata dalla diffusione nel movimento di un robusto testo psicofilosofico come l’Antiedipo di Deleuze e Guattari nonchè dalle poesie e dalla poetica di Majakovskij, compreso il suo suicidio – si pensi al ’68 quando buona parte dei militanti agitava, se non leggeva, il libretto rosso di Mao, compendio di approssimate massime di derivazione marxista leninista, e si misurerà la differenza.
Qui la Repubblica in un numero del suo settimanale culturale Robinson, in parte dedicato al movimento del ’77, supera se stessa in quanto a mistificazione, non solo riproponendo il feticcio di un’ala creativa del movimento (gli indiani metropolitani cosidetti) contrapposta a un’ala militante pura e dura, ma riuscendo a parlare di A/traverso senza mai citare Bifo!
Quindi incontriamo il collettivo Jacquerie inventato tra gli altri da Diego Benecchi, il riferimento alle rivolte che precedettero la rivoluzione francese è esplicito e voluto. Jacquerie che si qualifica tra l’altro per la pratica delle autoriduzioni nei ristoranti di lusso, non nelle mense universitarie e/o aziendali. Perchè il diritto non attiene semplicemente la sopravvivenza biologica mangiando un cibo povero per i poveri a poco prezzo, ma invece quello di godersi un pasto ricco e buono, a un prezzo possibile per tasche normali, un prezzo autodefinito e che si ottiene con l’autorganizzazione che diventa autoriduzione. Un terzo nucleo costituente il movimento del ‘77 è il collettivo dei lavoratori precari dell’università, dove si individua il precariato intellettuale non come una patologia transeunte del sistema di studi, insegnamento, formazione e ricerca, ma come un asse portante di lungo periodo della produzione e diffusione del sapere universitario. E dove si pone il problema fondamentale della riappropriazione e uso sociale da parte dei cittadini tutti dell’intelligenza scientifica prodotta nelle aule e nei laboratori, problema ancora aperto; anzi oggi più urgente che mai se si vuole sperare di contrastare in qualche modo efficace il cambiamento climatico globale in corso.
Poi c’erano le assemblee di facoltà, lettere, fisica, giurisprudenza eccetera che discutevano,deliberavano, agivano di giorno e di notte, i cortei notturni essendo un’altra delle caratteristiche di quel fantastico febbraio del 1977 nella zona universitaria “liberata”. Infine gli spezzoni dei vari gruppi extraparlamentari e della cosidetta all’epoca sinistra rivoluzionaria. Lotta Continua si era sciolta nel congresso del settembre 1976, Potere Operaio si stava trasformando nell’Autonomia Operaia, il Manifesto vivacchiava stentatamente, epperò legami politici rimanevano e alcune strutture continuavano più o meno per inerzia a esistere, in particolare i servizi d’ordine. Tutto questo e altro ancora non precisamente definibile, per esempio la partecipazione di giovani proletari provenienti dalle periferie, confluiva nel movimento. Un movimento a ampio spettro che ebbe ben presto anche i suoi cantori, uno su tutti Claudio Lolli con quella splendida ballata che è “Ho visto anche degli zingari felici” scritta nel 1976, anticipando se non annunciando il ’77. Un movimento denso di gioia, empatia dei corpi, intelligenze in sinergia, dove si respiravano libertà, eguaglianza, fantasia. Un movimento tutt’altro che violento, certo occupando l’università dove al massimo echeggiavano i cori di scemo scemo all’indirizzo dei giovin burocrati della SUC, la sezione universitaria del PCI, scesi in campo a difendere il compromesso storico e la politica dei sacrifici.
Finchè non arrivò la repressione brutale dello stato sub specie di una colonna di carabinieri che aprì il fuoco contro un piccolo gruppo di manifestanti praticamente a freddo, uccidendo Francesco. Il primo morto in manifestazioni di piazza che si ebbe a Bologna, ovvero un evento eccezionale. Un atto congruente con la strategia della tensione ben nota messa in campo dalle forze più reazionarie del nostro paese. Col concorso di Comunione e Liberazione che stava tenendo una sua riunione all’università da cui furono cacciati in malo modo alcuni compagni del movimento, e tutto ebbe inizio: azione e reazione con l’arrivo delle forze di polizia, che fin qui non avevano trovato pretesti per attaccare il movimento. Forze di polizia che subito apparvero indipendenti da qualunque possibile mediazione – Gori allora capo della Digos, in seguito morto per un incidente stradale da alcuni giudicato non limpido, lo disse in modo esplicito a alcuni manifestanti: tira una brutta aria, fate attenzione, facendo capire che ormai loro, i poliziotti del dialogo, erano esautorati dalla gestione della piazza. Stando al Resto del Carlino di qualche anno fa il capo di Gladio Cossiga avrebbe dichiarato: “Bisogna infiltrare gli studenti con agenti provocatori pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine, mettano a ferro e fuoco la città (…). Dopodiche forti del consenso popolare (…) le forze dell’ordine (sic! Ndr) non dovrebbero avere pietà e mandarli tutti in ospedale. Non arrestarli, che tanto poi i magistrati li rimetterebbero subito in libertà, ma picchiarli e picchiare a sangue anche quei docenti che li fomentano”. Sembra la descrizione di ciò che successe al G8 di Genova nel 2001, di cui le repressioni del movimento del ’77 furono in un certo qual senso i prolegomeni quando Kossiga era soltanto (?!) ministro degli interni.
Comunque sia la morte di Lorusso fu seguita da un corteo con migliaia di persone che aveva di mira la DC individuata come mandante politico morale dell’omicidio, corteo che si scontrò più volte con la polizia, fracassando soprattutto le famose vetrine dello scandalo, vuoi mai che avessero a soffrirne il sacro commercio e mercato. Il giorno dopo poi gli studenti difesero la zona universitaria dall’assalto delle forze di polizia, mentre la notte del 13 marzo verso le quattro intervenivano i blindati dei carabinieri a occupare il quartiere universitario ormai vuoto. Il movimento è sconfitto, la fase dei liberi e uguali chiusa, l’ordine regna di nuovo a Berlino, pardon a Bologna. Un ordine plumbeo ma si sa, non si può avere tutto dalla vita. Soprattutto i carri armati scancellano i colori e calpestano la gioia di vivere e di conoscere.
Fu eccessiva la violenza dei cortei del movimento? Intanto nessuno praticò o propose il precetto biblico che prescrive occhio per occhio e dente per dente. Quindi furono distrutte cose e colpiti dei simboli, ma non ci furono attacchi nè tantomeno attentati contro le persone, neppure gli “sbirri”. Poi ciascuno può dare il suo giudizio, ma per favore senza scandalo e alti lai contro “i violenti”, e senza dimenticarsi en passant dell’omicidio brutale di Francesco, omicidio cui la città nel suo insieme e le sue istituzioni non risposero, anzi il PCI inventò di sana pianta la teoria del complotto ordito da Radio Alice succursale della CIA, un delirio in senso proprio. Certamente qualcuno fu indotto da ciò che accadde in quei giorni a pensare fosse giunto il momento di costruire in Italia un partito armato di massa, e qualcun altro invece credette fosse l’ora di un partito armato d’avanguardia, ma a Bologna molto pochi, e non per merito dei partiti o del Comune.
In fine perchè quaranta anni dopo alcune centinaia di persone ormai coi capelli bianchi ancora si incontrano in via Mascarella laddove Francesco fu ucciso. Non sono reduci e nemmeno ex combattenti. Soltanto donne e uomini che così affermano la loro esistenza e appartenenza a quel movimento del ’77, certificando con la loro presenza e amicizia l’ingiustizia della morte di Lorusso, che pesa sull’intera città ieri come oggi. Molte cose sono cambiate anche drasticamente ma quella morte, quell’omicidio impunito sta lì, inamovibile, piantato nel cuore stesso di questa città che da allora non fu più la stessa perchè vive con un cadavere al suo interno.
Questo articolo è stato pubblicato da Inchiesta online il 13 marzo 2017

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