No tav: lotta alla patologia del pensiero unico

22 Febbraio 2017 /

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di Cristina Morini
Quando, all’inizio dell’estate dello scorso anno, il giornale locale La nuova di Venezia pubblicò la notizia della condanna di Roberta Chiroli per i contenuti della sua tesi di laurea sul movimento No Tav discussa all’Università Ca’ Foscari, fu con qualche smarrimento che cominciammo a raccogliere informazioni su quanto era successo.
Nel tempo, abbiamo imparato a conoscere bene i trattamenti che il potere riserva ai dissidenti, a chi ha il coraggio di opporsi ai dogmi e non smette di «dire la verità», a chi non si accontenta di come va il mondo: perseguitati, oltraggiati, messi al margine in ragione di idee e di un agire troppo distante da ciò che viene ufficialmente disposto.
Scomodi, da far sparire oppure da punire per fornire insegnamenti a tutti. Ma, nonostante questa consapevolezza, i due mesi di reclusione comminanti dal tribunale di Torino per una ricerca in antropologia, a partire da una richiesta di sei mesi avanzata dal Pubblico ministero, appaiono un’enormità. Il lavoro universitario di Chiroli viene utilizzato dai Pm come prova autoaccusatoria per «aver fornito un apprezzabile contenuto quanto meno morale» ad alcune pratiche di lotta in Val Susa (presidi e occupazioni dei terreni espropriati e dei cantieri per il passaggio dell’alta velocità).

È la prima volta, dal Dopoguerra, che una tesi di laurea diventa oggetto di una condanna e molta inquietudine provoca l’idea di magistrati impegnati a esaminare i lavori di ricerca dei laureati del Paese per setacciare la presenza di elementi illeciti, presunti collegamenti delittuosi, la descrizione di comportamenti «fuori norma», da censurare e incarcerare.
Così, la rete e il sito di discussione politica Effimera (Effimera.org) decidono di diffondere un appello («Mai scrivere ‘noi’. Appello per la libertà di ricerca e di pensiero») che in pochi giorni raccoglie migliaia di firme, viene ripreso da molti mezzi di informazione, riceve centinaia di commenti.
Roberta Chiroli pubblica la sua ricerca, Ora e sempre No Tav. Pratiche del movimento valsusino contro l’Alta Velocità (prefazione di Erri De Luca), da domani in libreria per Mimesis, con l’aggiunta di una introduzione nella quale ricostruisce il caso di cui è stata protagonista. Racconta: «Il mio essere là in mezzo agli attivisti No Tav per documentare le pratiche di lotta del movimento ha costituito, per la Procura torinese, un motivo sufficiente per condannarmi in quanto – dalla sentenza – “il fatto stesso che sia rimasta sul posto unitamente ad altri partecipanti ha integrato un contributo apprezzabile perché l’efficacia di azioni di questo tipo è strettamente dipendente dall’effettiva presenza fisica di un numero elevato di persone, numero che la Chiroli ha contribuito a formare”».
Nel consegnarci il suo lavoro, Roberta ricompone i frame work teorici della ricerca antropologica che raccomandano partecipazione e posizionamento, ma, al di là delle categorie pensate dalla cosiddetta produzione scientifica, non c’è bisogno di convincerci che una pratica cosciente e consapevole delle «storie personali» possa illuminare scelte teoriche o che dalle relazioni umane si produca conoscenza, o che il corpo sia un «agente» dotato di consapevolezza sociale e culturale.
Chiroli sottolinea la «grande reazione del mondo accademico» sulla vicenda di fronte alla pubblica opinione. E in effetti vale la pena di rimarcare come le gerarchie universitarie si siano trovate di fronte all’obbligo di dover prendere parola: la pesante ingerenza da parte dei magistrati ha reso indispensabile perimetrare e difendere il proprio campo di azione e il proprio operato. Da un lato, tale reazione è segno di come il mondo della formazione si senta maltrattato e umiliato da un sistema che, nel corso di questi anni, non ha fatto che tagliare risorse e impoverire: lo scopo è applicare alla scuola la ratio dell’inclusione differenziale che risponde alle politiche del mercato del lavoro perorate dall’Europa e con ciò favorire l’introduzione progressiva di sistemi valutativi per misurare le prestazioni di studenti e docenti e differenze salariali tra questi ultimi. Un accumulo di frustrazione e infelicità, tra aggravi di lavoro, perdite oggettive di autonomia, pochi denari.
A ciò si aggiunge il dilagare di una precarietà strutturale che non consente orizzonti né diritti ma impone comunque crescenti carichi di responsabilità e dispositivi di controllo che rafforzano l’organizzazione feudale tipica del mondo accademico.
Dall’altro, siamo consapevoli che il sapere trasmesso dalle istituzioni educative, non è mai un sapere neutrale, oggettivo. Esso è sempre attraversato da flussi di potere, piegato a interessi di parte. Così, il corpo accademico resta comunque un’istituzione, con le sue regole e le sue prescrizioni, i suoi filtri falsamente «meritocratici», i suoi criteri normanti, le sue modalità di «riconoscimento» o di espulsione che si danno all’interno di una griglia interpretativa che agisce tramite gli attori stessi che ne fanno parte. Firmare un appello non è significativo di un movimento, intendendo con questo termine un processo di differenziazione al fine di coordinare il giusto grado di tensione di interventi, segmentari o parziali, per rigettare l’intero impianto. Il caso di Roberta Chiroli, e i tanti altri simili che si sono aggiunti, meriterebbe questo tipo di riflessione e di tensione.
Al contrario, l’aziendalizzazione dell’università, così come della scuola, introduce oggi tra le sue mura elementi basilari del marketing che mettono in moto ulteriori comportamenti di tipo aziendalistico con l’obiettivo di generare la concorrenza tra istituti ed atenei e la divisione del corpo docente. Gli studenti e le loro famiglie, che pagano rette sempre più onerose, si sono trasformati in consumatori di beni e servizi, acquirenti di un prodotto (la formazione).
La recente vicenda dei tornelli della facoltà di Lettere a Bologna, in via Zamboni, ha mostrato bene quali capacità penetrative abbia tale logica, visto che una parte degli studenti ha difeso la regolamentazione degli ingressi e l’intervento violento delle forze dell’ordine, adducendo la necessità di garantirsi migliori condizioni di studio. In realtà, non si combatte per migliorare la propria situazione ma si accettano l’impianto selettivo e la passivizzazione nei confronti del potere «che deve provvedere a farci stare meglio», basata su valori poco definiti che ruotano e insistono intorno ai concetti dell’«efficienza» e dell’«efficacia», contro il «degrado» e contro la «desolazione».
Ecco allora che fa capolino l’altra traccia che la storia di Roberta Chiroli ci ha regalato e che si connette strettamente alla prima. Parlo di come la norma contemporanea, apparentemente libera e senza limite, sia viceversa fondata su di una pervasiva repressione. Seguendo Loic Wacquant, tale transizione è parte integrante della ristrutturazione dello stato, finalizzata a sostenerne la deregolamentazione economica e a sopperire le conseguenze dell’insicurezza sociale. L’effetto complessivo è quello di una straordinaria ambivalenza del dispositivo che produce soggettivazioni autonome e, contemporaneamente, assoggettate. Siamo paradossali co-produttori di forme di vite intrise di passioni concorrenziali. E il paradosso consiste nel fatto che tanto più libero è «il soggetto d’interesse» tanto più governabile risulta.
Tutto ciò ha prodotto, negli anni, un’autocensura del conflitto, già da tempo invisibilizzato, soffocato, marginalizzato, criminalizzato. Tuttavia, da qualche parte sembra esistere la consapevolezza che tale rinuncia alla conflittualità è una malattia. C’è un vuoto di cui sentiamo, con malinconia, la preoccupante ampiezza.
Un’assenza, che non produce altro se non le patologie del pensiero unico che genera l’individuo isolato contro il quale la magistratura pensa di scatenarsi agevolmente, con processi esemplari. In questi anni, la procura di Torino ha setacciato la Valsusa, resistente agli ordini del potere, con retate casa per casa, paese per paese, tra le bancarelle dei mercati, tra i minorenni e gli anziani.
Roberta Chiroli ha dedicato il libro «Alle persone grandi di un luogo speciale che mi hanno insegnato che si parte e si torna insieme». La comunità valsusina, ci affaccia tra le pagine dove prendono vita i volti e i nomi di chi è finito nella macchina della giustizia, mostrando sempre una dinamica coesiva di risposta: «si parte e si torna insieme».
Certamente, tra gli abitanti della valle ha fatto da collante la sensazione di essere tutti oggetto di un unico disegno repressivo che agisce su più fronti contemporaneamente, diventando incarnazione fisica di uno scontro comune contro le logiche del capitale finanziario. Al di là dello specifico dilemma locale, questo scontro continua a parlarci di molteplici aspetti delle nostre vite precarie, obbligate a piegarsi a una povertà materiale e soprattutto di senso.
Questo articolo è stato pubblicato dal quotidiano Il manifesto il 22 febbraio 2017

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