di Annamaria Rivera
Poco più di un mese fa, a Basilicagoiano, frazione a pochi chilometri da Parma, si consumava uno degli omicidi più feroci che siano mai stati concepiti e attuati, in Italia, da persone ritenute insospettabili e ben integrate nella società. Perfino à la page, si potrebbe dire dei due rei confessi, Alessio Alberici e Luca Del Vasto, benestanti parmigiani ultraquarantenni: il primo è grafico e fumettista di una certa fama locale; il secondo, l’ideatore della spedizione punitiva, è titolare di un ben noto night club, oltre che di un’impresa di pulizie, specializzata in derattizzazione.
Ricordo che i due – soprattutto Del Vasto, come sembra – spalleggiati da quattro operai romeni, reclutati per il raid fatale, hanno sottoposto la loro vittima, Mohamed Habassi, cittadino tunisino sui trent’anni, a un autentico calvario di pestaggi, sevizie, torture, mutilazioni. Tale che è lecito chiedersi se una simile meticolosa ferocia, che ha reso il cadavere quasi irriconoscibile, possa essere solo l’effetto del mélange di cocaina e alcool di cui, si dice, i due s’erano imbottiti. Un modus operandi di questo genere – da squadrone della morte, come lo ho definito, ma solo per analogia – non s’improvvisa d’un tratto. Presuppone, invece, un certo esercizio pregresso: forse compiuto su corpi di animali?
Numerosi sono i nodi che l’inchiesta giudiziaria ha da sciogliere: non da ultimo, quello del lungo supplizio inflitto alla vittima senza che alcuno intervenisse, nonostante le sue laceranti grida di dolore fossero udite da molti, nella notte del borgo fatto di un migliaio di anime. Certo, poi sono arrivati i carabinieri, ma tardivamente, quando la morte per dissanguamento era ormai sopraggiunta dopo una non breve agonia.
Uno dei tanti misteri di questo caso resta il silenzio glaciale dei media nazionali: solo parzialmente spiegabile, come ho già scritto, con lo schema “anomalo” del delitto, che vede “l’extracomunitario” nel ruolo della vittima e due cittadini italiani nel ruolo dei principali carnefici. Eppure l’oggettiva ferocia dell’assassinio avrebbe dovuto farne una notizia degna di qualche attenzione su scala nazionale.
La notizia ha potuto varcare i confini della cronaca locale solo il 25 maggio scorso, allorché il manifesto ha voluto ospitare l’articolo a mia firma, subito ripreso da questa testata. Poi comparso, anche in francese, in vari siti e blog, e ampiamente condiviso dai social network. Poco dopo, a occuparsi del caso sono state Radio 3, con Tutta la città ne parla, e Radio Radicale. Infine, ilfattoquotidiano.it gli ha dedicato l’apertura dell’edizione del 1° giugno scorso, sia pure con ventuno giorni di ritardo.
Sul versante politico-sociale, qualche reazione c’è stata, a Parma, sebbene tardiva e inadeguata alla gravità dell’accaduto. Lo scorso 28 maggio, nel corteo promosso dal Coordinamento antifascista e antirazzista (nato per iniziativa dell’Anpi), un gruppo di cittadini tunisini sfilava con uno striscione che chiedeva giustizia e verità per Mohamed. Nel contempo, il collettivo “Rete Diritti in Casa” pubblicava e diffondeva un comunicato dal titolo “Morire di sfratto: quando il valore di una vita vale meno di un affitto”.
Ricordo che il movente addotto risiederebbe nel fatto che la vittima non pagasse la pigione del piccolo appartamento in cui abitava, di proprietà della compagna di Luca Del Vasto. Che questo sia o non il vero oppure il solo movente (cosa di cui c’è ragione di dubitare), il fatto stesso che i due carnefici lo abbiano pensato come credibile e commisurato a un’esecuzione così feroce rivela la loro miseria morale e una percezione distorta, o perfino delirante, della realtà.
Ma forse i due non sono che gli interpreti, sia pur estremi, di quel senso comune degradato, costituito da razzismo, cinismo, prevaricazione, individualismo proprietario, inconsapevolezza del male, che percorre la nostra società. E che favorisce la negazione dell’umanità dell’altro, ancor più se l’altro è una non-persona per la stessa società. A tal proposito: non potrebbe essere più futile l’obiezione, avanzata da alcuni, per cui il razzismo sarebbe del tutto estraneo a questo delitto poiché a spalleggiare i carnefici v’erano quattro romeni.
Come se il razzismo non fosse un fenomeno a geometria variabile, che dunque può essere introiettato e/o agito anche da chi, a sua volta, sia stato oggetto di discriminazione. Il senso comune di cui ho detto è lo stesso che trapela, sia pur su scala minore e virtuale, dalla gran mole di commenti al pezzo citato de ilfattoquotidiano.it: qui il tema largamente dominante – per fortuna, non l’unico – è “la latitanza delle istituzioni” che non tutelano “il diritto dei cittadini alla proprietà privata” (qui, come in seguito, cito letteralmente).
“La proprietà è sacra, eccome”, chiosa qualcuno senza un filo d’ironia. Un tale, che si nasconde dietro uno pseudonimo macabro, si dice dispiaciuto per la morte della compagna italiana di Habassi, “ma non per quella di quest’individuo che non pagava l’affitto”. Un altro si chiede: “Cosa ci faceva in Italia uno spacciatore di droga tunisino, che occupava abusivamente una casa senza versare un centesimo al proprietario?”. Una commentatrice ne trae la morale: “Non conviene affittare, non sai mai chi ti metti dentro”, signora mia. C’è perfino chi si spinge fino al classico: “La vittima se l’è cercata”. E chi conclude in modo che vorrebbe essere icastico: “Nessun innocente, nessuno stinco di santo, nessuna vittima, manco il morto”.
Come si vede, l’universo culturale e morale dei due rei confessi (e forse anche dei quattro operai romeni) è in sintonia col senso comune che si esprime in questi commenti a dir poco cinici. Che neppure l’efferatezza estrema dell’omicidio – il quale, ricordiamo, ha reso doppiamente orfano un bambino – valga a suscitare emozione, pietas, orrore, sgomento o almeno inquietudine è indizio di quanto il male si sia banalizzato.
Non c’è bisogno di scomodare Hannah Arendt per dedurre che, in fondo, la “normalità” dei commenti indignati per le rate di affitto non pagate dalla vittima (anzi, dalla non-persona divenuta perciò non-vittima) è in qualche misura simmetrica all'”anormalità” del feroce assassinio.
Nel comunicato-volantino della “Rete Diritti in Casa” si stigmatizza la “mancanza di pudore di chi prova a giustificare, di chi cerca attenuanti, di chi getta fango su chi ormai non si potrà più difendere”. Ed è vero che, anche tra i solerti giornalisti cui indubbiamente spetta il merito di aver garantito almeno l’informazione su scala locale, è prevalsa e prevale, con alcune eccezioni, la tendenza a mettere in cattiva luce la vittima, piuttosto che a indagare sul lato oscuro dei due principali attori dell’orrendo supplizio.
Per dirne una, sebbene qualificati, subito dopo la scoperta del delitto, come del tutto insospettabili, Alessio Alberici e Luca Del Vasto avrebbero “piccoli precedenti per spaccio”, secondo parmapress24.it e qualche altra fonte minore.
Inoltre, da una rapida ricerca in rete emerge che i due amici inseparabili, anche nell’orrore, nel 2004 parteciparono, insieme, a un corso di “esplosivistica di base”, ottenendone la licenza di “fochino”, cioè maneggiatore di esplosivi.
Si ammetterà che non è molto consueto che a specializzarsi in esplosivi siano due individui non destinati a fare i minatori né i vigili o i pompieri. Certo, quest’ultimo è solo un dettaglio stravagante, che mal si concilia con la loro rappresentazione pubblica. Eppure, insieme ad altri, ci fa pensare che su questo delitto estremo aleggi un’Ombra, per dirla in termini junghiani, rimossa e perciò non sublimata: il lato oscuro della Parma borghese, ma in fondo della nostra intera società, riflettendosi sul piano degli umori e delle condotte individuali, può far sì che l’altro divenga il bersaglio della proiezione del rimosso. Delle volte, come in questo caso, fino al martirio.
Questo articolo è stato pubblicato su Micromega online il 13 giugno 2016