di Duccio Facchini
L’epidemia non fa distinzioni ma la precarietà che soffrono le persone straniere in Italia determina “rischi di cui è urgente discutere anche in un’ottica di salute pubblica”. Dagli assembramenti nei grandi centri di accoglienza alle condizioni degli insediamenti informali. Decine di organizzazioni hanno fatto una ricognizione dei buchi del sistema e ora si appellano alle istituzioni proponendo soluzioni immediate.
La diffusione del Covid-19 non fa distinzioni ma la precarietà e le disuguaglianze che soffrono le persone straniere in Italia determinano “rischi specifici e differenti di cui è urgente discutere anche in un’ottica di salute pubblica”. E invece domina ancora il silenzio sugli assembramenti nei grandi centri di accoglienza dove a metà marzo erano presenti ancora oltre 62mila persone, sulle condizioni di vita negli insediamenti informali, sui trattenimenti nei Centri per il rimpatrio o negli Hotspot, sul difficile accesso ai servizi sanitari.
Per smuovere i decisori istituzionali a occuparsene in piena epidemia, decine di associazioni e organizzazioni della società civile -da Asgi ad ActionAID, dal Naga al Gruppo Abele, da Mediterranea a Emergency– hanno sottoscritto un documento per mettere in fila le numerose criticità che riguardano da vicino i richiedenti asilo, le persone senza fissa dimora e i lavoratori ammassati negli insediamenti informali rurali. Persone prive di “effettiva tutela” -anche dei minimi strumenti di contenimento (mascherine e guanti, acqua, servizi igienici)- e “oggettivamente impossibilitate a rispettare le misure previste dal legislatore, vivendo in luoghi che di per sé costituiscono assembramenti”. Oltre alla ricognizione dei gravi buchi del sistema, i promotori propongono “soluzioni concrete ed immediate” per poter “garantire a tutte le persone le medesime tutele previste dai provvedimenti per contenere il contagio da Coronavirus”. “È tempo che emerga la dimensione plurale della nostra società”, spiegano.
Il primo capitolo è dedicato all’accoglienza. Quello che si presenta al cospetto dell’emergenza epidemiologica è un sistema malconcio. Il primo “decreto Salvini” dell’ottobre 2018 (113/2018, Governo Conte I) ne ha guastato forma e sostanza: prima era posta al centro, pur a volte solo a parole, l’accoglienza diffusa, oggi ci si ritrova con “grandi contenitori di persone, con significativa riduzione dei servizi, compresi quelli sanitari”. Nei “centri-parcheggio” dove sono accolte al 15 marzo 2020 62.650 persone è nella pratica impossibile il rispetto delle misure approvate dal governo, a partire dalla distanza tra le persone e al divieto di assembramenti. Di norma infatti nei moduli abitativi (container) stanno almeno 10 persone e gli spazi dedicati ai pasti sono collettivi. Per i firmatari si tratterebbe quindi di “terreno fertile per la diffusione del virus”. Un terreno sprovvisto di personale qualificato a seguito del nuovo capitolato di gestione delle strutture di prima accoglienza (novembre 2018): “È drasticamente diminuita la presenza di figure sanitarie -ricordano le associazioni- con soltanto sei ore settimanali per la reperibilità medica in strutture che accolgono fino a 50 persone e nessuna presenza infermieristica, 12 ore di reperibilità medica per strutture che accolgono fino a 150 persone e 24 ore settimanali per quelle che accolgono fino a 300 persone. Nelle diverse tipologie non è mai prevista una figura di supporto psicologico”.
In attesa che i “centri-parcheggio” vengano chiusi e che sia adottato un nuovo schema di capitolato d’appalto, sono richiesti “specifici protocolli di gestione dei casi positivi”, l’accesso a strutture di accoglienza adeguate per chi è senza fissa dimora -con acqua e servizi igienici-, la piena attuazione alle circolari del ministero della Salute per garantire pieno accesso ai servizi sanitari. Anche per le persone “irregolari”: gli assessorati regionali e le singole Asl dovrebbero dare “indicazioni affinché sia effettivamente garantito l’accesso al sistema sanitario per le persone non in regola con le norme sul soggiorno (anche mediante l’attribuzione preventiva di tesserini STP agli aventi diritto, per facilitare il loro accesso a servizi di prevenzione e cura)”. Mai come oggi, ricordano i firmatari, “l’adozione di politiche sanitarie inclusive della popolazione straniera irregolare è in grado di tutelare non solo la salute dei singoli, ma anche quella della collettività”.
Un’altra proposta significativa è quella che “venga consentito l’accesso al SIPROIMI (il deformato Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, ndr) anche a coloro che ne sono stati esclusi dal decreto sicurezza (titolari di permesso umanitario, richiedenti asilo)”. Oggi sono presenti 22.420 persone. O quella di sospendere la prassi “svuota centri” dei provvedimenti di revoca delle misure di accoglienza. Come ricostruito da Altreconomia, infatti, tra 2016 e 2019 100mila tra richiedenti asilo e beneficiari di protezione, si sono visti revocare le condizioni materiali di accoglienza dagli uffici del Governo. Nessuno, tanto meno il ministero dell’Interno, può sapere con certezza dove siano e in quali condizioni si trovino quelle persone.
Non è secondaria nemmeno la questione della conoscibilità e chiarezza dei messaggi istituzionali giunti in queste settimane. I promotori suggeriscono a proposito la predisposizione di “specifici percorsi di prevenzione e tutela che prevedano la diffusione di materiale informativo multilingue dentro e fuori ai centri di accoglienza, e la promozione di campagne informative adeguate e culturalmente competenti volte a rafforzare la consapevolezza sulla prevenzione, la cura e l’emergenza sanitaria in corso”.
Per quanto riguarda i Centri per il rimpatrio e gli Hotspot, le associazioni evidenziano rispetto ai Cpr la “necessità di impedire nuovi ingressi e per le persone già trattenute di disporre le misure alternative al trattenimento, stante l’impossibilità attuale di eseguire ogni rimpatrio nei Paesi di origine”.
L’attenzione è rivolta anche al Mediterraneo -dove le operazioni di ricerca e soccorso sono congelate- e alle “persone migranti che anche in questo periodo possono arrivare in Italia, per cercare di sottrarsi a morte e torture nei campi in Libia o in fuga da situazioni di grave pericolo”. Rispetto a loro è richiesto alle istituzioni di predisporre “misure che consentano la rapida indicazione di un porto sicuro per lo sbarco e la predisposizioni di protocolli atti ad evitare la diffusione della pandemia in corso”.
Nella parte dedicata alle procedure amministrative e giudiziali si ricorda peraltro la decisione governativa di mantenere operative quelle di espulsione. Una scelta “irragionevole” in quanto l’ordine di allontanamento è di fatto “impossibile da ottemperare e/o da eseguire stante la sostanziale chiusura di tutte le uscite dall’Italia, la cessazione dei voli dall’Italia verso la maggior parte dei Paesi extra Ue, e, laddove si proceda alla misura del trattenimento, si rischia di aggravare ulteriormente la situazione dei Cpr che desta già molta preoccupazione”.
In gioco ci sono il trattamento uguale per tutte le persone e la salvaguardia della salute pubblica. Nel contesto di una crisi che per le realtà della società civile “potrebbe essere anche un’occasione per mettere a fuoco il carattere strutturalmente diseguale del diritto delle persone straniere e invertire la tendenza”. È il motivo per cui il documento non dimentica di esortare il legislatore a non ignorare le riforme ritenute “urgenti”: dalla cittadinanza all’abrogazione dei “decreti sicurezza”, alla “sempre più urgente regolarizzazione”.
Questo articolo è stato pubblicato su Altreconomia il 23 Marzo 2020
la foto di copertina è parte del progetto Oltreconfini, del fotografo Michele Lapini