A Ventimiglia per i migranti le frontiere sono ancora chiuse

di Andre de Georgio /
22 Luglio 2020 /

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Mercoledì 1 luglio 2020

Ore 18, lungomare di Ventimiglia
Sulla lunga passeggiata che dalla foce del fiume Roia porta a quella del torrente Nervia, delle coppiette francesi camminano mano nella mano osservando il sole ancora alto che comincia a calare. Sulle spiagge di Ventimiglia file di sacchi di sabbia indicano il distanziamento sociale di questa atipica estate post covid. Poca gente sul bagnasciuga, ancora meno in acqua. Alcuni bar-ristoranti con terrazze sul lungomare non hanno ancora riaperto dopo il lockdown, molti complessi residenziali per turisti e case vacanza con giardini e balconi vista mare espongono cartelli “vendesi” e “affittasi”. Nonostante il bel tempo e l’inizio della stagione estiva, a Ventimiglia il turismo transfrontaliero non dà ancora segnali della tanto attesa ripresa. “Normalmente a quest’ora è impossibile trovare parcheggio o tavoli liberi per l’aperitivo. Sarà un’estate difficile” si lamenta, dietro la mascherina, un giovane cameriere di un bar semivuoto. Ogni cinque minuti gira una volante delle forze dell’ordine, procedendo a passo d’uomo e scrutando i passanti.

Dove il mare incontra la foce del Roia, l’ultimo lembo di spiaggia è occupato da capannelli di ragazzi e qualche pescatore. Sotto la tettoia del bar ristorante La Sirena, tappezzato di cartelli “chiuso al pubblico”, siedono dei giovani nigeriani che ascoltano musica trap e bevono birra davanti al mare. Poco lontano, sulla sponda sinistra del fiume, un gruppo di adulti e bambini di diversa provenienza improvvisa un rifugio di fortuna con cartoni, tappetini e teli appesi tra le fronde degli arbusti. Qui sono al riparo dal sole inclemente e dallo sguardo di cittadini e turisti che, a neanche cento metri, portano i figli ai giardini pubblici e si scattano foto su un’enorme panchina rossa, principale attrazione del lungomare. Anche la polizia chiude un occhio e lascia “gli stranieri” ripararsi all’ombra degli oleandri lungo la riva del Roia. Quando cala la sera, però, la foce del fiume si riempie di zanzare, spingendo le famiglie migranti a spostare l’accampamento sotto i ponti della strada, più riparati anche dal vento. Altri, invece, la notte si ammassano sotto i piloni della sopraelevata.

Giovedì 2 luglio

Ore 12.30, Campo Roia della Croce rossa
“Non possiamo più accettare tutte queste persone che girano per Ventimiglia senza fissa dimora”: a parlare, davanti ai cancelli del Campo Roia della Croce rossa, è Gaetano Scullino, sindaco della città. L’occasione per reiterare preoccupazioni e richieste alle istituzioni nazionali è la visita del prefetto Michele Di Bari, a capo della delegazione del dipartimento Libertà civili e immigrazione inviata a Ventimiglia dalla ministra dell’interno Luciana Lamorgese. “La Francia continua a respingerli, è risaputo. Devono essere fermati prima, bisogna fare di tutto affinché a Ventimiglia non arrivino”, dichiara il primo cittadino all’entrata della struttura sul cui futuro è previsto, nel pomeriggio, un delicato incontro a porte chiuse alla questura di Imperia.

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Il Campo Roia, gestito dalla Croce rossa, è stato aperto a quattro chilometri dalla città nel luglio 2015 e, da allora, ha sempre oscillato fra le minacce di chiusura e l’indispensabile ruolo di colmare le lacune d’accoglienza delle istituzioni locali, soprattutto durante le cicliche crisi estive. Di fatto questo campo, arrivato nell’estate 2016 a ospitare circa mille persone, non ha mai avuto un’inquadratura giuridica, non potendo per legge diventare un Cara (Centri di accoglienza per richiedenti asilo) in quanto “Ventimiglia è zona di frontiera”, come ripete il sindaco.Lo scorso 16 aprile un caso di covid-19 all’interno della struttura ha causato l’ennesima chiusura ai nuovi arrivi. Oggi il centro della Croce rossa, dove all’entrata campeggia la scritta “Un’Italia che aiuta”, non ha ancora riaperto i battenti e mantiene all’interno 42 “vecchi” ospiti. La maggior parte dei migranti attualmente in città – che si stima siano tra i 300 e i 400 – si ammassa ai cancelli del campo all’ora della consegna del pranzo da asporto oppure usufruisce delle docce, della corrente per ricaricare il telefono e degli sportelli legali e di orientamento lavorativo gestiti dalla Caritas, ma preferisce dormire altrove, in ricoveri di fortuna come i palazzi abbandonati e occupati da un centinaio di persone poco lontano dal campo.

Ore 14, bar Hobbit
Come ogni settimana c’è riunione al bar Hobbit. Questo piccolo locale a due passi dalla stazione non è come gli altri bar della città. “Qui la porta è sempre aperta per tutti”. Va subito al punto Delia Buonuomo, battagliera proprietaria di un luogo di vera accoglienza. Dal 2015 questa donna è un’istituzione fra la gente in transito e la galassia di attivisti e associazioni umanitarie che gravitano intorno a Ventimiglia. Cooperanti, operatori e militanti di Caritas, Save the children, Médecins du monde, Weworld, Roja Citoyenne, 20K, mediatori culturali, ricercatori universitari e semplici cittadini solidali si ritrovano nella sala da biliardo sul retro, per discutere di casi particolari, scambiare contatti, opinioni e strategie d’intervento. “Non chiamatela rete!”, sbotta da dietro il bancone Buonuomo mentre prepara panini e caffè per tutti. “È un’unione, una catena umana, una famiglia mondiale”. I ragazzi africani la chiamano Mama Africa, lei si arrabbia quando non sono educati. Se qualcuno le chiede perché lo faccia, nonostante le difficoltà e i continui furti e atti vandalici commessi da concittadini ottusi (l’ultimo ad aprile), lei risponde senza esitare: “Primo perché il mio cuore funziona meglio del mio cervello. Secondo perché sono figlia di migranti del sud e sono stata migrante anch’io, in Australia. A differenza di molti altri italiani, non l’ho scordato. Per questo mi batterò sempre, finché sarò in vita, affinché nessun altro essere umano soffra le discriminazioni che ho dovuto subire io”.

Ore 18, ponte San Luigi, valico di frontiera Italia-Francia
Per la sua posizione Ventimiglia è un imbuto in cui confluiscono i flussi di due distinte direttrici migratorie verso la Francia: la rotta balcanica, da cui provengono i migranti dal Medio Oriente e dall’Asia, e quella del Mediterraneo centrale, che collega Africa ed Europa. In questo imbuto geopolitico si arena il cammino di centinaia di persone che ogni giorno cercano di muoversi liberamente all’interno dei confini europei, per raggiungere parenti e amici o cercare fortuna altrove. Da quando la frontiera italo-francese è stata riaperta (per i cittadini comunitari) il 15 giugno, ogni giorno dalle sei di sera – cioè quando chiudono gli uffici della polizia francese – al valico di frontiera di ponte San Luigi, sulla via Aurelia che costeggia la frastagliata costa ligure si formano colonne di persone in marcia verso Ventimiglia. Ombre col cappuccio in testa, lo zaino in spalla e un sacchetto di plastica con viveri di fortuna stretto in mano. Respinte alla frontiera francese (una media di 50-60 al giorno dalla riapertura delle frontiere, secondo i dati della prefettura delle Alpi Marittime francese), marciano in piccoli gruppi sul ciglio della strada. Difficile non notarli. Cabriolet targate Francia, Svizzera o Germania sfrecciano fra rocce imperlate di buganvillee e strapiombi sul mare con la capotte abbassata, per godersi la brezza e i colori del tramonto. Parallelamente ragazze e ragazzi eritrei, somali, etiopi, afgani, pachistani, marocchini, tunisini, algerini, nigeriani, senegalesi, ivoriani, maliani, burkinabé, gambiani, guineani si trascinano verso l’ennesima notte all’addiaccio, senza cibo, soldi, assistenza, conforto.

I segni del loro quotidiano tentativo di “bucare la frontiera” sono visibili oltre il parapetto che corre a lato della carreggiata. Qui, fra agavi in fiore e reti metalliche divelte, si stende un tappeto di vestiti abbandonati, borsoni, scatolette di tonno, biscotti, latte, biglietti di aerei, treni, navi e autobus. Frammenti di rotte che, ricollegando nomi e date, tratteggiano l’infinito periplo che ha portato fin qui queste persone. Vicino agli effetti personali, ovunque si scorgono fogli di carta strappati in mille pezzi e gettati al vento, come coriandoli di una festa a cui qualcuno non è stato invitato. Si tratta di decine di “rifiuti di entrata” stampati su carta intestata della polizia di frontiera francese (Paf). Tra lo stuolo di rifiuti spuntano piccoli tesori: un peluche, i negativi di alcune foto che ritraggono un matrimonio in Tunisia. Strappi di vite interrotte, da lasciare alle spalle scappando. Preziosi averi fin qui protetti e, proprio qui, abbandonati, lasciati cadere oltre il muretto della strada forse di proposito, o forse no, poco lontano dall’imbocco di un sentiero ripidissimo che apre una breccia fra la vegetazione. Sotto, a poche centinaia di metri, si svela il valico italo-francese di ponte San Ludovico.

Da quassù si gode di una vista mozzafiato. Lo sguardo di Ali (nome di fantasia) indugia sul golfo di Mentone. I suoi occhi riflettono i raggi sulla superficie del mare. Accenna un sorriso. Ha i piedi stanchi, gonfi, sudati, infestati di funghi, spine e ferite. Forse pensa al cammino lungo i Balcani. Forse alla Francia, la sua meta agognata – “Ho dei conoscenti a Parigi… Sogno da sempre di vedere la Tour Eiffel!” – che, dopo tanto camminare, gli ha chiuso la porta in faccia e ora è lì a un passo, mai come ora così irraggiungibile. Allunga una mano, come a volerla toccare. Ali ha 18 anni ed è arrivato fin qui dall’Afghanistan a piedi. Per attraversare l’ultimo tratto di questo lungo viaggio, da Ventimiglia alla Francia, ha tentato come molti di nascondersi nei bagni del treno, senza uno straccio di biglietto né di diritto di mobilità. La Paf l’ha scovato, tirato giù di peso dalla carrozza e rinchiuso alcune ore in un container a picco sul mare per accertamenti, senza né acqua né assistenza. Stessa sorte toccata a Mariam (nome di fantasia), giovane donna partita sei mesi fa dalla Costa d’Avorio con il fratellino di 14 anni e il figlio di 4 “per farli studiare in Francia”. Anche loro, come Ali e tanti migranti in transito da questa frontiera, sono stati intercettati dalla Paf sulla tratta ferroviaria Ventimiglia-Mentone. “Anche se hanno visto che eravamo con un bambino piccolo, quando hanno aperto la porta del bagno in cui ci nascondevamo ci hanno spruzzato dello spray urticante negli occhi” racconta la giovane, che, nonostante quanto subìto, non biasima le forze dell’ordine: “Fanno solo il loro lavoro”.

A questo confine interno della fortezza Europa, oltre che in altri luoghi nevralgici della città, ogni giovedì un’equipe formata da un medico, una farmacista e una volontaria dell’ong francese Médecins du monde (Mdm) attende i respinti per monitorarne la situazione sanitaria e orientarli verso possibili cure. “Durante il lockdown non siamo potuti venire. Appena hanno riaperto le frontiere abbiamo ripreso la sorveglianza medica a Ventimiglia, constatando una situazione davvero preoccupante” confida Anne Rachel Der Horst, volontaria di Mdm. Le difficoltà di operare nell’attuale contesto post covid, fornendo un’adeguata assistenza sanitaria alle persone in transito e rispondendo alle lacune istituzionali, recentemente lamentate da diverse organizzazioni umanitarie attive a Ventimiglia, sono espresse in una lettera scritta a fine giugno da Morgane Dujmovic (Migreurop), Carla Melki (Mdm) e Valentin Payneau (volontaria), pubblicata dal sito Mediapart:

Gli ultimi due mesi sono stati l’occasione per comprendere l’essenza del diritto alla mobilità, in particolare per le persone che hanno potuto restare in quarantena in condizioni dignitose e che da maggio hanno ritrovato il piacere della libertà di movimento. Cosa rimane di questa esperienza collettiva? Il periodo post-confinamento segnala piuttosto il rafforzamento delle disuguaglianze nella mobilità. La ‘crisi sanitaria’ non solo non ha portato a una vera e propria riflessione sulla precarietà delle persone bloccate alle frontiere, ma ha perfino permesso di continuare le mortali attività di controllo lontano dall’attenzione dei media. È il caso della Libia e del Mediterraneo, ma anche del cuore dell’Unione europea, di questo confine franco-italiano.

Ore 20, parcheggio del cimitero, via Tenda
Quando le ragazze e i ragazzi di Kesha Niya (“non c’è problema” in curdo) arrivano a bordo di due macchine, una ventina di afgani, pachistani, somali e tunisini occupa già lo spiazzo del parcheggio che sorge fra i supermercati e il centro commerciale di via Tenda, di fronte al cimitero. In quattro e quattr’otto i giovani del collettivo scaricano lunghi tavoli pieghevoli per il servizio e tre pentoloni fumanti. “Stasera riso allo zafferano con ceci e zucchine per tutti!”, annuncia festante Florian. “cento per cento halal!”, gli fa il verso un ragazzo somalo. Da due anni e mezzo, insieme ad alcuni giovanissimi tedeschi (soprattutto), olandesi, scandinavi, canadesi e statunitensi, Florian è presente alla frontiera italo-francese offrendo tutti i giorni acqua, tè, pasti caldi, indumenti, scarpe, coperte e generi sanitari alle persone in transito. Come le altre realtà che operano sul territorio, anche Kesha Niya ha da poco ripreso (non senza intoppi) le attività dopo lo stop imposto dal lockdown.

Qualche passo più in là, sempre in via Tenda, c’è un bar frequentato da soli “stranieri”. Un senegalese ben vestito conta sotto al tavolino una mazzetta di banconote di piccolo taglio portate da un connazionale. Discutono frettolosamente prima di dileguarsi, uno in auto l’altro a piedi. Le montagne che circondano Ventimiglia raccontano di passeur stranieri – perlopiù africani e asiatici – che vendono passaggi in macchina, in camion (nascosti fra il carico o appesi sotto all’abitacolo), perfino semplici contatti telefonici o indicazioni stradali. I prezzi variano da poche centinaia a diverse migliaia di euro, a seconda del servizio. Chi non può pagare tenta nei bagni dei treni, camminando per ore lungo le rotaie (disseminate di lattine vuote di bibite energetiche e taniche d’acqua lasciate da Kesha Niya) o, ultima spiaggia, dal Passo della morte, storico sentiero di un paio d’ore, tutto in salita fra gole e burroni, pattugliato dalla legione straniera, spesso attraversato la notte, senza luci per non dare nell’occhio, né scarpe adatte. Qualcuno si è perfino gettato in mare poco prima del valico di ponte San Ludovico, cercando di raggiungere la costa di Mentone a nuoto, sempre di notte.

Venerdì 3 luglio

Ore 12, centro città
Il venerdì Ventimiglia cambia faccia. Il mercato settimanale, poco prima del lungomare entrando in città, attira centinaia di francesi che attraversano la frontiera per comprare prodotti italiani e stecche di sigarette (in Francia costano il doppio). Gli “altri” stranieri, quei fantasmi che nessuno vuole vedere in giro a Ventimiglia, lo sanno e il venerdì si nascondono più del solito. L’altro lato della medaglia è che il venerdì è il giorno in cui è più facile passare inosservati sia sui treni, carichi di passeggeri e di sacchi della spesa, sia dall’autostrada. Un balletto in cui ognuno rispetta il ruolo che, in questa storia di frontiera, gli è stato assegnato: il migrante il venerdì si sposta dal centro, per non guastare il decoro cittadino nel giorno di visita dei cugini d’oltreconfine; il poliziotto italiano pattuglia la stazione e le vie principali, senza chiedere i documenti ai “sospetti”; il collega francese allenta la morsa dei controlli, per far sfiatare, almeno in parte, la pressione al confine. Delia offre caffè ai figli di mille paesi diversi, chiedendo in cambio lo stesso rispetto.

Questo articolo è stato pubblicato su Internazionale il 9 luglio 2020

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