di Bruno Giorgini e Sofia Nardacchione
Dice Carlo, settantanni bolognese doc, militante del PCI e della sinistra fin da quando era bimbetto, il padre partigiano di vaglia: no qui da noi se qualcuno vede qualcosa che non va solleva il telefono e chiama la polizia, oppure si mette in mezzo di persona, non è come a Palermo dove spesso la gente volta la testa da un’altra parte.
All’angolo tra Piazza Verdi e via Petroni Bruno, anch’egli settantenne – Bologna è una città con molti vecchi o anziani che dir si voglia – cittadino bolognese da cinquanta vede un energumeno prendere a schiaffi un ragazzino, probabilmente per un mancato pagamento di una qualche dose di roba – generico per droga, più o meno pesante. Da buon cittadino Bruno si interpone, l’energumeno ci pensa su, accenna una reazione, poi scuotendo le spalle s’allontana, mentre il ragazzino s’è già eclissato. La via è trafficata e piena di persone ma non fanno la fila a applaudire l’intervento civico, anzi scantonano in fretta facendo finta di non vedere.
Che Piazza Verdi sia un luogo di spaccio non è un mistero per nessuno, nel contempo è la piazza di alcuni collettivi universitari antagonisti cosiddetti. Ma uscendo dall’aneddotico, intanto a Bologna e in Emilia Romagna sono in corso d’opera due processi, il Black Monkey in città, e l’Aemilia che interessa tutta la regione, per fatti di criminalità organizzata in particolare ‘ndranghetista.
Vediamo in specifico il Black Monkey che sta arrivando a sentenza. È l’11 gennaio del 2010 quando Ennaji Et Toumi, ragazzo marocchino residente in Belgio chiama la Polizia perché tre persone hanno tentato di sequestrarlo davanti all’Hotel Molino Rosso, all’uscita del casello autostradale di Imola, a venti minuti da Bologna. Dalla denuncia di Et Toumi parte l’intera inchiesta che ha portato all’avvio, il 28 marzo del 2014, della fase dibattimentale del processo Black Monkey, il primo grande processo di ‘ndrangheta in Emilia Romagna.
Il processo, che si sta svolgendo al Tribunale di Bologna, con 23 imputati di cui 13 accusati di associazione a delinquere di stampo mafioso, vede alla sbarra il “presunto” – avendo infatti recentemente la Cassazione derubricato il reato di associazione mafiosa, ma vedremo cosa dirà il Tribunale – clan ‘ndranghetista con a capo Nicola Femia detto ‘Rocco’. L’uomo trasferitosi nel 2002 dalla Calabria a Conselice, in provincia di Ravenna, avrebbe creato insieme ai familiari un vero e proprio impero del gioco d’azzardo illegale – di cui il Pubblico Ministero ha parlato come del “polmone finanziario dell’organizzazione” – non solo in Emilia Romagna ma anche in Veneto, Lazio, Campania, Calabria, Romania, Slovenia, Gran Bretagna.
Il sistema illegale del gioco intaccava i guadagni dello Stato, tramite sistemi che permettono di staccare le slot machines dai Monopoli di Stato, ma anche quelli degli stessi giocatori: una particolare scheda contraffatta, prodotta da una delle aziende che facevano capo a Femia, permetteva che le vincite venissero contabilizzate ma non erogate e in questo modo il giocatore aveva una ancora minore possibilità di vincita, che passava dal 75% su un ciclo completo di partite, al 30%. Questo modus operandi presuppone una alta capacità tecnologica, siamo cioè in presenza di un gruppo criminale high tech, ma non per questo meno violento.
Il processo non riguarda solo i giocatori o gli appartenenti alla presunta associazione mafiosa: sono imputati anche appartenenti alla cosiddetta “zona grigia”, da ingegneri informatici a gestori di società, da finanzieri a professionisti.
Inoltre al processo è evidente la paura di parlare: molti testimoni nel corso di questi due anni sono stati colti da opportune amnesie non ricordando molti fatti, cambiando versione rispetto a quella pronunciata davanti alla Guardia di Finanza durante le indagini preliminari, tanti infine hanno ritirato le denunce. Che siano state esercitate pesanti intimidazioni dietro le quinte del processo appare molto probabile se non certo, e infati un avvocato di parte civile arriva a dire che neppure in Sicilia sarebbe potuto accadere. In Sicilia no, in Emilia sì.
Nel processo non si parla solo di contraffazione delle slot machines, ma anche di pestaggi, tentati sequestri, incendi, lettere minatorie. “Se non la smette, gli sparo in bocca” dice Guido Torello, uomo del clan, riferendosi al giornalista Giovanni Tizian in una telefonata con Femia. Il giovane cronista, reo di avere osato pubblicare sulla Gazzetta di Modena un paio di articolo sugli affari di Femia, dal 2012 vive sotto scorta.
Aemilia, l’altro processo in corso, comincia di fatto il 28 gennaio 2015 quando le forze di polizia arrestano centosessanta (160) persone accusate di una serie di reati a largo spettro, tutti con l’aggravante del favoreggiamento e/o del coinvolgimento in attività mafiose, con particolare riguardo alla ‘ndrangheta. A largo spettro sono anche le persone che finiscono inquisite e in carcere. Si va dai delinquenti in senso stretto ai colletti bianchi, dai liberi professionisti agli imprenditori fino agli uomini politici. A livello territoriale l’asse di presenza ‘ndranghetista si snoda lungo la via Emilia da Parma fino a Modena con epicentro a Reggio Emilia, mentre Bologna gioca un ruolo specifico di snodo del sistema criminale in atto, se si vuole con altro linguaggio, la capitale regionale funziona come una sorta di hub aperto alle reti criminali, oltre alla solita ‘ndrangheta, anche la camorra, lembi di cosa nostra e i vari gruppi di delinquenti costituiti su base etnica che si stendono da Parma a Rimini (albanesi, nigeriani, rumeni, serbi, moldavi, cinesi, russi, ceceni, kossovari ecc..). Reti criminali che trovano in Bologna un luogo di composizione dei rispettivi interessi e campi d’azione – spaccio, estorsioni, prostituzione, appalti, gioco d’azzardo, furti, riciclaggio e quant’altro.
Non ripercorriamo qui in modo analitico lo svolgimento di Aemilia, processo ancora in corso, limitandoci a cercare di cogliere alcuni tratti generali del maleodorante melmoso sottosuolo criminale che i magistrati hanno scoperchiato.
Per l’intanto il fatto che questo sottosuolo non fosse poi così nascosto in profondità. Una serie di indizi convergenti erano già da tempo sotto gli occhi di chi avesse voluto guardare sgombro da pregiudizi (si veda il testo Mosaico di Mafie e Antimafia, dossier 2014/2015 a cura di Libera Informazione). Ma il mito e pregiudizio della regione rossa, faro del riformismo e abitata da persone tanto oneste quanto laboriose nonché interessate al bene comune, ha oscurato un’osservazione altrimenti abbastanza evidente. L’orgoglio riformista emiliano ha, in questo caso, funzionato più o meno come il punto cieco della retina, quel luogo dove l’occhio non percepisce la luce.
Il caso di Reggio Emilia è macroscopico. Da Cutrò, paese del crotonese, comincia una migrazione verso Reggio E. che diventa il vettore della percolazione ‘ndranghetista in città e in tutta la provincia pilotata dalla famiglia Grande Aracri, per altro in stretta intimità con i più noti casalesi. Così il fiore all’occhiello del buon vivere emiliano viene inquinato fino a lambire lo stesso sindaco Graziano Del Rio, oggi ministro di punta nel governo Renzi, interrogato ma non indagato. Oppure basti dire che nel 2013 l’Emilia Romagna (d’ora in poi E-R) ha avuto il primato nel nostro paese per eroina sequestrata e nello stasso anno il più grande numero di persone denunciate per traffico di droghe sintetiche.
Gli esegeti individuano l’origine, il big bang da cui ha origine l’espansione della criminalità organizzata, nell’arrivo al soggiorno obbligato in quel di Quattro Castella, paese nella provincia reggiana, di Antonio Dragone, già bidello della scuola elementare di Cutrò e boss della locale ‘ndrina. Dragone manco a dirlo organizza un traffico di stupefacenti, così cominciando le fortune della ‘ndrangheta. Fortune che in modo quasi impercettibile, almeno secondo l’opinione comune, per un verso estendono l’arco degli affari propriamente criminali ampliando passo a passo il territorio di influenza, per l’altro operano talché i fenomeni criminali diventino un modello imprenditoriale, senza rinunciare come abbiamo visto a intimidazioni, violenze, ricatti, oppressioni. Evidentemente il denaro facilmente fruibile frutto delle azioni criminali diventa, nella crisi che da anni attenaglia il paese e da cui l’E-R è tutt’altro che indenne, un potente strumento di corruzione e di diffusione delle iniziative economiche a matrice ‘ndranghetista intrecciate col più normale tessuto produttivo che, in quanto costituito essenzialmente da piccole e piccolissime aziende, è particolarmente permeabile, anche in seguito alla stretta dei crediti bancari. Negli appalti poi si estrinseca al massimo livello la capacità delle ‘ndrine di operare con amplissimi profitti.
Vediamo un esempio. “È caduto un capannone a Mirandola”, dice Blasco. “E allora lavoriamo là!”, risponde ridendo Valerio. Parlano così due boss della ‘ndrina locale intercettati il 29 maggio 2012, poco dopo la scossa di terremoto che ha squassato la regione. La ‘ndrina si infiltra subito nella ricostruzione post-terremoto, grazie a funzionari comunali corrotti e tramite Augusto Bianchini, titolare della Bianchini Costruzioni di San Felice sul Panaro. L’azienda, secondo l’accusa, avrebbe ottenuto la maggior parte degli appalti, utilizzando materiali contenenti amianto (MCA), nella ricostruzione della zona antistante il cimitero di San Felice sul Panaro, dei campi di accoglienza di San Biagio e Massa Finalese, oltre che delle scuole di Concordia sulla Secchia, Mirandola e Finale. Inoltre imponendo condizioni di lavoro al di fuori di ogni legge e regola contrattuale, per non dire dei diritti del tutto inesistenti, meglio: calpestati.
Siamo quindi di fronte a un sistema complesso, subdolo e invasivo che cresce fino a definirsi come un vero e proprio potere criminale che dialoga, si misura, si scontra con altri poteri istituzionali, giudiziari, economici. Per esempio i criminali mafiosi hanno aperto un nuovo comparto nell’agroalimentare, in E-R importantissimo, praticando dalla contraffazione alla sofisticazione fino all’abigeato e alla macellazione clandestina, nonché il controllo e l’imposizione delle linee di trasporto e delle filiere per la commercializzazione. E sul fronte economico va detto che non fioccano le denunce da parte di commercianti e imprenditori sottoposti a racket, usura e altre vessazioni. Il radicamento di questo potere è così esteso e profondo che qualcuno è arrivato a parlare di una “occupazione delle menti” da parte delle mafie in E-R, cosa forse più inquietante dello stesso controllo del territorio. Sarà forse per questa “occupazione della mente” se nelle recenti elezioni comunali a Bologna, l’argomento del potere criminale che agisce in città non è quasi stato sfiorato. Da cui se Bologna non è ancora una città della ‘ndrangheta poco ci manca, e un sussulto di cittadini e cittadine sarebbe non sappiamo se necessario, ma certamente benvenuto.
Questo articolo è stato pubblicato su Inchiesta online l’11 giugno 2016