di Giacomo Russo Spena
“La storia italiana insegna che ogni volta che riduciamo al silenzio le competenze tecniche, condanniamo a morte un pezzo di patrimonio. Quando faremo la conta dei disastri sarà tardi. Sandro Bondi ha dimezzato d’un colpo il finanziamento del patrimonio: una cosa mostruosa. Ma le leggi di Franceschini rischiano di fare infinitamente più danni”. Secondo Tomaso Montanari, illustre storico dell’arte e professore universitario, la situazione è grave. Molto grave. I nostri gioielli artistici sarebbero a rischio.
E il governo Renzi sta peggiorando le cose. Per questo è tra gli organizzatori della mobilitazione del prossimo 7 maggio “È emergenza cultura”. Una manifestazione promossa da un coordinamento composto da varie associazioni, sindacati confederali e poi singoli archeologi, architetti, bibliotecari, archivisti, precari, studenti e semplici cittadini. Tra le adesioni spiccano le personalità di Salvatore Settis e Massimo Bray.
Nel manifesto di lancio della manifestazione si chiede al governo Renzi di sospendere l’attuazione dello Sblocca Italia e della Legge Madia. Ci può spiegare meglio?
Chiediamo di fermare la corsa al consumo del territorio. Di non vedere come un nemico chi difende il paesaggio, il mare, il patrimonio artistico. Di creare vero lavoro, non assunzioni spot una tantum. Il motto dello Sblocca Italia è ‘padroni in casa propria’: noi crediamo invece che dobbiamo essere custodi. La Legge Madia sottopone le soprintendenze ai prefetti, cioè direttamente al governo: ma se in passato ci fossimo regolati così, oggi l’Italia sarebbe un’unica colata di cemento.
La Costituzione pone la tutela al rango sommo di principio fondamentale (articolo 9), ora tutto è invece sottoposto al fare cassa: ma è una politica miope, anzi suicida. Il presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche appena nominato dal governo ha dichiarato candidamente: «Dobbiamo fare andare avanti l’Italia senza pensare a principi etici». Così l’Italia andrà a impantanarsi ancora un po’ nel suo più grande problema: la corruzione.
Qual è il suo giudizio sulla riforma ministeriale, voluta da Dario Franceschini, che «smembra» la soprintendenza archeologica?
L’errore più grave è separare tutela e valorizzazione. La prima è lasciata a soprintendenze miste (dove sta già cominciando a succedere che sia un architetto a seguire il restauro di un ciclo di dipinti, e così via), realizzate senza mezzi, dolosamente private di ogni potere reale. Soprintendenze i cui funzionari vengono scientificamente umiliati: «soprintendente è la parola più noiosa del vocabolario», ha scritto Renzi in un suo libro. La seconda è l’unica missione affidata ai supermusei: una valorizzazione intesa come mercificazione spinta, controllata direttamente dalla politica (pesantissima è stata l’ingerenza di Franceschini nella scelta dei superdirettori), data in gestione agli enti locali (che ora nominano perfino i membri dei consigli scientifici dei musei!) e ai privati for profit. L’idea che i musei debbano produrre cittadini maturi e consapevoli attraverso la ricerca e la redistribuzione della conoscenza non abita più al Ministero per i Beni culturali: Pompei che diventa location per concerti da 350 euro a biglietto, ecco il simbolo della valorizzazione ‘popolare’ nell’età di Renzi.
I nostri siti archeologici, come Pompei, sono a rischio di nuovi crolli?
Nel centro di Napoli ci sono duecento chiese chiuse di cui nessuno si cura: vengono saccheggiate dalla Camorra o crollano. Il patrimonio diffuso (cioè il 90% del territorio) è abbandonato a se stesso, e l’accorpamento dei siti archeologici sotto poli museali misti è un altro grave fattore di rischio. Pompei sta un po’ meglio di prima (la governance l’ha nominata il governo Letta), ma è diventato un palcoscenico per conferenze stampa in cui si dice che ora tutto va bene, nel patrimonio culturale italiano: chiunque viaggia per l’Italia sa che invece tutto va perfino peggio di prima.
Lei ha dichiarato che a causa di queste scelte sbagliate se «il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione» sono oggi in gravissimo pericolo e le generazioni future rischiano di non ricevere in eredità l’Italia che noi abbiamo conosciuto. Ma non le sembra di esagerare?
Vada a vedere il sito dell’Agenzia del Demanio e guardi quanti edifici storici di enorme pregio stiamo svendendo: è un patrimonio secolare che non lasceremo ai nostri figli. Le biblioteche e gli archivi (la memoria del Paese) chiudono, o vanno avanti con volontari, che sono o disoccupati o funzionari pensionati di buona volontà. Nel centro di Pisa (non nel profondo sud!) crollano le chiese medioevali, perché la soprintendenza non ha il personale e i soldi per occuparsene. Una città come Venezia è ormai ridotta ad un enorme resort di lusso, mentre il marketing e le consorterie impongono a Firenze un aeroporto devastante sul piano ambientale. L’attuale presidente della Campania ha sfregiato forse per sempre la sua Salerno con la mole del Crescent. E qualcuno sa dove siano finiti i capolavori trafugati dal Museo di Castelvecchio, vittima dei tagli al bilancio della sicurezza? Vogliamo continuare?
Ma recentemente il Cipe ha dato il via libera ad un piano di 3,5 miliardi per ricerca e cultura. Non è una buona notizia?
È propaganda, e propaganda a orologeria. I 2,5 miliardi per la ricerca sono il fondo di funzionamento ordinario del prossimo triennio: dunque normale amministrazione. Tra un po’ Renzi farà le conferenze stampa per dirci quanti soldi dà all’illuminazione pubblica. Il miliardo per «la cultura», al contrario, è un fondo straordinario una tantum, incanalato tutto verso siti spettacolari o progetti targatissimi: sono soldi benvenuti, ovviamente. Ma che non servono a far vivere un patrimonio diffuso, che ha bisogno come dell’acqua di fondi ordinari per la tutela: anche con questo miliardo le chiese continueranno a crollare, le soprintendenze continueranno a non avere la benzina per le macchine di servizio. È assai significativo che nel suo tweet il ministro Franceschini non abbia digitato la parola “tutela”, ma valorizzazione e restauro.
Accusa il governo di aver regalato il Paese alle lobby del cemento e del petrolio. Ma come si spiega la cocente sconfitta al referendum contro le trivellazioni? I cittadini stanno con le scelte di Renzi?
I cittadini sono delusi, disincantati, stanchi. È una spirale perversa: chi predica l’astensione soffia sul fuoco del disimpegno politico. È questa la vera antipolitica: ed è uno degli inconfessabili fini della revisione costituzionale, dopo la quale i cittadini conterebbero ancora di meno. E poi c’è un enorme problema culturale. L’Italia del 2016 ha un analfabetismo funzionale del 47% (in Messico al 43,2%, negli Stati Uniti è al 20%, in Svizzera al 15,9%…): se alle ultime elezioni (le Regionali del 2015) l’astensione ha raggiunto il 47,8% ci sarà un nesso? Metà del Paese non partecipa: non sa o non vuole più farlo. Concepire la cultura come puro intrattenimento decerebrante (modello: rifacciamo l’arena al Colosseo) significa costruire e ammannire quella che don Milani chiamava la ‘ricreazione dei padroni’. Se a questo sommiamo lo storytelling martellante di Renzi, il fatto che un italiano su 3 sia andato comunque a votare non è un brutto punto di ripartenza.
Ultimamente, il premier ha rispolverato l’ipotesi del Ponte sullo Stretto. Non crede che nella modernizzazione del Paese debbano entrare anche le grandi Opere, ormai ferme da anni?
Il Ponte sullo Stretto è archeologia della corruzione, non modernità. L’unica grande opera utile è la messa in sicurezza idrica e geologica del nostro territorio. La sua de-cementificazione e l’approvazione di una legge (vera) sul consumo di suolo. Le Grandi Opere dello Sblocca Italia (pensate alla Orte Mestre) servono solo a chi le fa: un circuito criminogeno che non crea lavoro dignitoso, massacra il territorio, genera corruzione.
Il governo ha promesso di terminare i cantieri della Salerno-Reggio Calabria. Propaganda o realtà?
Lo vedremo: mi auguro proprio che sia vero. I gufi che godono delle sconfitte del Paese esistono solo nella retorica del premier. Farlo sarebbe normale: la verità è che è pazzesco che stiamo ancora qua a discutere se l’annuncio sia o meno credibile.
Difendere il patrimonio culturale significa difendere la nostra Costituzione?
Sì. Significa difendere la nostra sovranità di cittadini, perché in Italia lo spazio pubblico è il luogo dove la comunità costruisce se stessa, nell’eguaglianza. La politica è costruire la polis, la città: e da noi la città è bella perché è di tutti. Una bellezza non astratta, ma storicamente concreta: sorella della giustizia e alleata dell’inclusione. Un patrimonio ridotto a location a pagamento, invece, vìola non solo l’articolo 9, ma anche l’articolo 3: perché distrugge l’uguaglianza. Secondo la Carta lo sviluppo della cultura serve al pieno sviluppo della persona umana: un museo che si trasforma «in macchina da soldi» (come auspicò Renzi degli Uffizi, quando era sindaco di Firenze) trasforma i cittadini in consumatori, pubblico pagante, clienti. Li aliena ancora un po’.
La cancellazione dell’insegnamento della storia dell’arte dai licei, non è l’emblema della nostra decadenza culturale?
Sì, lo è. Franceschini aveva promesso che si sarebbe rimediato allo scempio perpetrato dalla Gelmini, ma invece la ministra Giannini ha candidamente ammesso, all’ultima Leopolda (una tipica sede istituzionale!), che la storia dell’arte non tornerà da dove era stata espulsa. La Buona Scuola è devastante: perché al posto della storia dell’arte prevede un avviamento al marketing del brand Italia. Siamo alla berlusconiana scuola delle tre i tradotte in dialetto renzese. Nel 1944 Roberto Longhi scrisse che «ogni italiano dovrebbe imparare la storia dell’arte come una lingua viva fin da bambino se vuole avere coscienza intera della propria nazione». Ecco, scendiamo in piazza per dire che vogliamo avere ancora questa coscienza: vogliamo fare ricerca, poter entrare da cittadini nei monumenti, poter lavorare nel patrimonio, salvare l’ambiente, studiare la storia dell’arte a scuola. In questo Paese la rivoluzione si fa con la cultura.
Questo articolo è stato pubblicato da Micromega online il 5 maggio 2016