di Silvia Napoli
Alle 20 di mercoledì 22 gennaio, quando ufficialmente il weekend più freddo e a tutti gli effetti “cool” in senso metaforico e in quel di Bologna è ancora di là da venire, quello di ArteFiera, per intenderci, non ci sono neppure più calici,di 530 che ne erano stati predisposti, a disposizione del pubblico che sciama per gli ambienti di Mambo ad un’ora appena dall’apertura ufficiale. Siamo al vernissage di Again, again and again, exhibition di scena, è il caso di dirlo, data la natura profondamente scenografica e performativa di quello che si vede, negli spazi dell’ex Forno del pane, oggi galleria d’arte pubblica del moderno-contemporaneo, a rimarcare una centralità popolare, in modalità tuttavia sofisticata, del management artistico-culturale della nostra città.
Una volta c’era ArteFiera, grande vetrina di mercato, che naturalmente per fortuna c’è ancora e che richiama appassionati, curiosi, collezionisti da ogni dove, per la gioia, immaginiamo, di albergatori ed ora anche delle migliaia di improvvisati locandieri del giro airbnb, discorso su cui varrebbe la pena di fare in altra sede una stima ed una analisi. Ora però, dopo otto anni e più, segnatamente in particolare dai tre che vedono l’intensificarsi e il radicarsi del segno impresso da RobertoGrandi, massmediologo al servizio dell’istituzione già da tempo, Presidente del circuito museale e di Lorenzo Balbi, curator affabile, per nulla incline al piglio esoterico di certe intellighenzie di settore e tuttavia determinato a impostare un discorso efficace sul concettuale,Art city è il grande volano e insieme competitor del tutto.
Che cos’è Art city tecnicamente si fa presto a dirlo:un insieme di avvenimenti ed esposizioni, in perfetta o quasi sussidiarietà pubblico-privata, a corollario della kermesse mercantile e che ha i più vari intenti sperabilmente sinergici tra loro:ma soprattutto, se ufficialmente tra spazi espositivi deputati, mutati di segno o effimeri, agire da facilitatori per il nuovo che avanza, sembra essere la parola d’ordine, quella che maggiormente interessa la public governance del sistema, è offrire una possibilità d’arte, aggiornata, di qualità e di avanguardia a tutti. Arte Fiera mette dei soldi, noi valorizziamo il concept del contemporaneo e fidelizziamo una audience giovane e acculturata su cui scommettiamo, come consapevoli fruitori, attori in prima persona, galleristi, o artisti o esperti o collezionisti o semplici curiosi appassionati di domani ogni vernice che si snoda in una intensissima art week, vede ogni anno sempre più partecipanti, chiosa Roberto Grandi: una ventina di progetti principali fanno da raccordo al tutto, le location sono in tutto un centinaio, al centro il progetto speciale, che è anche il big event ambitissimo di inaugurazione ufficiale di solito un evento performativo di grande respiro e dimensioni dilatate fuori dai recenti disciplinari più ristretti.
Già, perché a questo punto, non si propone tanto un’idea di conventicola o corrente ma neppure sacralità artistica o pedagogia magistralis a tutti i costi come forse in passato,anche se naturalmente tutto si può tenere, ma piuttosto un ‘idea di città in ascolto innovativo e inclusivo, capace di suggerire, selezionare, proporre e in qualche misura ragionevolmente promuovere un’idea di sé. E l’idea, il discorso narrativo, che si viene a configurare è quello di una comunità giovane, erratica, attenta e curiosa senza reverenza che si muove su un esteso set installativo che va da Casalecchio alla stazione dell’alta velocità, transitando naturalmente per i palazzi storici del centro in qualche modo riletti e resi sorprendenti, quasi fiabeschi dal talento espositivo.
Più di settanta location, non necessariamente canoniche e spesso opened air, sono le vere protagoniste, ma il perno sta saldamente nel polo museale che vuole contraddirsi come insieme di luoghi d’eccellenza che non si visitano, ma si abitano. Molto è già stato detto sul fatto che siano rappresentate parecchie donne artiste e che performance e installazioni la facciano da padrone in questa edizione, ma la verità più profonde ce le svelano le parole di Grandi e Balbi in press conference a Mambo in una semplicità senza fronzoli, sostanziata in realtà da riflessioni filosofiche e semiologiche molto complesse che si evincono dai materiali a stampa di corredo. Abitare i musei, si diceva, ma anche ri-semantizzare luoghi altri, rigenerandoli per la comunità anche tramite gli artisti, accettando la sfida che essi ci comunichino in quegli spazi inquietudini, interrogativi pressanti, aporie di senso e non certezze.
Rinnovare le narrazioni scommettendo sul fatto che l’input lo possano offrire entità pubbliche in sforzo sinergico tra loro superando diversità di linguaggio, diffidenze e soprattutto logoranti procedure burocratiche :ed è tutta una carineria reciproca, quella che va in scena, tra il polo artistico-museale ed ERT, Emilia Romagna Teatro, presentando la figura che meglio esemplifica questo ponte tra discipline-istituzioni, quel Romeo Castellucci che ieri divideva e oggi viceversa unisce in nome di obiettivi di ricerca in qualche maniera comuni, divenuti accessibili grazie ad una accountability di caratura internazionale.
Caratura che non ha scalfito però il suo senso di appartenenza, evidente nella presenza in sala di un team fedele nei decenni che ha sempre condiviso motivazioni, polemiche, percorsi, nel richiamare la sua formazione, dalla profonda provincia romagnola all’Accademia di Belle Arti di Bologna. Formazione che oggi lo porta a Dumbo, il mega hub di via Casarini a presentare la sola tappa italiana, peraltro già sold out in tutte le repliche gratuite e persino in una non prevista generale aperta, con un lavoro per sei attori di colore celebranti, è il caso di dire, dato il carattere rituale dell’opera.
Un Castellucci rilassato e ammorbidito nell’accogliere, rilievi, interrogazioni, suggestioni dalla platea selezionata che ha di fronte e che in qualche modo lo porta a rivelare molto di più di quanto vorrebbe, abbandonando la cripticità che spesso lo ha connotato nella comunicazione in favore di una adesione forse propiziata, prevista, calcolata, forse sorprendente con quello che invece pare a chi scrive il vero leitmotiv della intera manifestazione:una nuova declinazione della categoria Tempo e una sfida a tutto campo alla Storia, che, proponendoci ricorrenti sconfitte, in qualche modo fa schifo, come recita uno degli artisti di AGAIn an Again and Again nel libretto di approfondimento.
Il Tempo tiranno forse, galantuomo talvolta, ma divenuto non più quantificabile e sistematizzabile sia sulle nostre, quelle si, tiranniche piattaforme digitali, sia nelle filosofie che propongono circolarità ed eterni ritorni. Castellucci risolve, se cosi vogliamo metterla, la nostra pigolante dialettica interiore che soffre un equivoco e un disadattamento in tutto questo, scartando dalla prosaicità di automobili ammassate in quello che diviene una enorme rimessa di ferraglia consumista che ci tiene prigionieri e proletarizzati, al concetto di trasformazione, cosi caro agli alchimisti ed oggi forse praticabile in senso “politico”, parolone, dice quasi con timore, il nostro.
Il loop sempre uguale e sempre diverso, nel mix di linguaggi e nella percezione di chi guarda è protagonista di diverse situazioni di grande impatto all’interno delle sale di Don Minzoni che sono senza dubbio la video installazione di Ed Atkins in primis, che ci strega sulle martellanti note del bolero di Ravel ad osservare con vago raccapriccio un passeggero di linea aerea che si libera sul nastro trasportatore di tanti oggetti proibiti, ma anche di se stesso, delle parti di viso tumefatte come in una azione di Orlan, (ma questo è un fake, in qualche modo, un avatar costruito in 3d,), di arti e di organi e fluidi interni fino a rimpiccilirsi, dissolversi, ricrearsi, un po’ Alice allucinogena, un po’ dio di se stesso, in assoluto spaesamento e autoreferenzialità.
Auto referenziale, nonostante il set accattivante da casa delle bambole è il repetita, come in una eterna generale, delle azioni della coppia che supponiamo francese dalla colonna sonora di Trenet, che inscena nella sala delle ciminiere la più zuccherosa quotidianità di campagna immaginabile ad opera dell’islandese Ragnar Kjartannson, plasmato dal suo passato familiare tra set teatrali e funzioni religiose da chierichetto e nonostante tutto gentile, accattivante, apparentemente nientaffatto tormentato e disponibile al racconto di sé. Questa produzione vede la collaborazione della compagnia Laminarie, che in questo weekend di fuoco si destreggia tra Arte e programmazione civile al quartiere Pilastro dei fatti della Uno bianca, ora anche avvilito dalla tristemente nota notte del citofono salviniano.
Ci sono temi ricorrenti dicevamo, come lo spaesamento del non luogo, della ripartenza, le ali del volo e dell’aereo, i bulbi oculari stressati e divelti, scagliati nell’iperuranio come meteoriti, porte della percezione sempre aperte che si ritrovano per esempio nella imperdibile installazione multisensoriale al binario 17 della stazione dell’alta velocità, livello meno 4. Anche qui domina una fascinosa sequenza ipercolorata di proiezioni su una tenda di perline in materiale plastico, transitabile dal pubblico, su cui leggere anche una sorta di lungo sermone in inglese che mescola considerazioni sulla memoria personale, dato che esistere significa ricordare e l’uso, la manipolazione dei nostri dati personali biografici da parte dei grandi network social che ci controllano.
Dalla morestalgia che ci propone questa installazione, ci sentiamo pronti per fare il salto verso la pittura, la nostra storia identitaria in tal senso, rappresentata dalle articolazioni del progetto Pozzati, fortemente voluto dai figli dell’artista, già ricco di tappe in avvicinamento nei mesi passati e adesso riproposto in due nuove accezioni guidate dalla sapiente mano registica di Angela Malfitano. Un assolo dunque, di attore in chiusura domenica presso CUBO Unipol, che ospita le installazioni luminescenti esterne e altre opere interne dell’artista Lupi, in dialogo perfetto con l’ambiente e il pubblico per un progetto ben articolato e sempre centrato sulla relazione spazio temporale a cura dell’ottima Federica Patti e soprattutto, un viaggio dolente, intimo, nello studio in Zamboni del Maestro, dove in punta di piedi e, via dalla pazza folla, come osserva la ispirata curator Di Gioia, si entra nel vivo di una esistenza attraverso i diari, gli oggetti, ancora disposti in ordine sentimentale, gli spezzoni di una temperie artistica magica, irripetibile, che ha segnato gli immaginari di più generazioni, tra arte, fumetto, advertising.
Come chi legge può capire, i livelli di questa polifonica Art city sono diversificati tra mostre e situazioni destinate a permanere nelle settimane a venire (e talvolta nei mesi fino prima dell’estate), o quantomeno fino all’art week tra fine marzo e inizio aprile e situazioni temporary, ma non certo effimere in contenuti e progettualità, talvolta necessariamente contingentate, su prenotazione, talvolta fruibili in maniera indifferenziata. Bisogna qui ricordare anche le varie vetrine commerciali ma anche innovative ed esplorative di Set Up e degli spazi della vivace via Zago e naturalmente non si dà Art City, senza la ormai tradizionale trasmigrazione d’anime affamate di Grande Bellezza e mondanità che costituisce la notte bianca, dove ce ne sarà fino a mezzanotte per tutti i quartieri, perché non possiamo dimenticare Mast e la sua nuova mostra fotografica sulle divise da lavoro, che va a sostituire la pluricelebrata Anthropocene e che è il pezzo forte della zona Ovest, in questa ideale mappatura di punti di interesse.
Siamo tuttavia pronti a scommettere che la maggior concentrazione si avrà tra Accademia e musei del centro, senza dimenticare le performance scrittorie interattive con il pubblico alla Biblioteca nazionale delle Donne. Il tempo sarà forse dalla nostra parte, ma sempre troppo esiguo. Vivamente consigliato studiarsi un proprio approccio modulato sulle personali traiettorie e inclinazioni:se il nostro tempo è anche quello della battaglia civile, oggi più che mai, non resta che segnalare la novità di una mostra fotografica all women alla camera del Lavoro, che compirà lo sforzo titanico di seguire la vague nottambula di artisti e turisti e appassionati: se le Camere del Lavoro, diventassero luoghi di socialità, scambio, anche aggregazione diffusa, un po’ a tutte le ore, sarebbe un gran bel salto culturale verso il futuro. Ma questa forse, è un’altra storia e una piccola utopia.