Preoccuparsi dei ricchi? Le disuguaglianze estreme nel capitalismo contemporaneo

25 Giugno 2014 /

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Dobbiamo preoccuparci dei ricchi?
Dobbiamo preoccuparci dei ricchi?
di Elena Granaglia, Maurizio Franzini e Michele Raitano
I super ricchi sono in aumento e alcuni redditi hanno raggiunto livelli impressionanti. Quali conseguenze può avere dunque il formarsi di redditi molto elevati e così distanti da quelli della grande maggioranza della popolazione, sul resto della società e sulla sua stessa evoluzione nel corso del tempo?
In questo libro, Dobbiamo preoccuparci dei ricchi? Le disuguaglianze estreme nel capitalismo contemporaneo di di Elena Granaglia, Maurizio Franzini e Michele Raitano (Il Mulino, 2014), ci chiediamo se occorra preoccuparsi dei ricchi. Nessuno, o quasi, metterebbe in discussione che dei poveri (o, meglio, per i poveri) ci si deve preoccupare, soprattutto durante una crisi, per molti aspetti drammatica, come quella che stiamo vivendo. Al contrario, la semplice manifestazione del dubbio che ci si possa preoccupare dei ricchi rischia di essere accolta con sospetto, di essere vista come il segno di un pregiudizio nei loro confronti, una nuova manifestazione di quel terribile sentimento che è l’invidia, il “peggior vizio dell’umanità” secondo la tagliente espressione di Hannah Arendt.
Eppure, in questo libro ci chiediamo proprio se dei ricchi bisogna preoccuparsi e lo facciamo sulla base di motivazioni che, a noi pare, nulla hanno in comune con l’invidia. Proviamo a spiegarci. La preoccupazione, come si legge nei dizionari, è un pensiero che occupa la mente generando dubbi, timori e inquietudini. Chiedendoci se dobbiamo preoccuparci dei ricchi in fondo ci chiediamo se la nostra mente debba essere occupata dal pensiero che, almeno in qualche senso, le ricchezze possono costituire un problema, naturalmente non per i ricchi ma per la società (ecco il dubbio e anche l’inquietudine).

Questa preoccupazione è largamente indipendente tanto dal fatto che i ricchi, in molti paesi, siano in aumento, quanto dal livello, spesso impressionante, che possono raggiungere i loro redditi. In fondo, come ci ricorda Milanovic [2011] i ricchi sono sempre esistiti. Secondo i suoi calcoli, in verità piuttosto coraggiosi, Marco Licinio Crasso, il generale romano che sconfisse Spartaco e che discendeva da una nobile e ricca famiglia, non sfigurerebbe al cospetto di molti paperoni dei nostri giorni, anche se i più paperoni tra di essi, come Carlos Slim (il messicano considerato oggi l’uomo più ricco del mondo) e come Bill Gates, lo guarderebbero dall’alto in basso.
Preoccuparsi dei ricchi per noi vuol dire, soprattutto, chiedersi se i meccanismi che portano all’arricchimento siano compatibili con quello che, secondo requisiti largamente condivisi, può essere considerato un buon funzionamento dei mercati e delle più complessive istituzioni, e se quei meccanismi siano coerenti con alcuni consolidati valori di giustizia liberale. Vuole anche dire interrogarsi sulle conseguenze che il formarsi di redditi così elevati e così distanti da quelli della grande maggioranza della popolazione, può avere sul resto della società e sulla sua stessa evoluzione nel corso del tempo.
In realtà, queste domande – o, almeno, alcune di esse – ricevono risposta quasi quotidianamente. A ben guardare, però, quasi sempre si tratta non di articolate risposte ma di affermazioni prive di adeguato supporto empirico o di solide basi teoriche.
Rientrano in questa categoria, ad esempio, le tesi secondo cui, grazie a meccanismi raramente verificati con cura, la presenza dei ricchi si risolverebbe in un vantaggio per l’intera società, in particolare attraverso l’innalzamento del reddito di tutti. O anche l’assunto, che è divenuto quasi un assioma, secondo cui ogni reddito, purché guadagnato in un mercato – del quale, però, non si specificano adeguatamente le caratteristiche -, sarebbe meritato, indipendentemente dalla sua altezza; anzi, proprio la sua altezza sarebbe garanzia di abilità fuori dal comune, oltre che di uno straordinario impegno.
Al fondo di tutto c’è, probabilmente, l’idea, all’apparenza solidissima, secondo cui i ricchi non fanno male a nessuno e, quindi, non si vede perché considerarli un problema degno di attenzione. L’espressione forse più chiara di questo punto di vista è quella di Blair il quale, in occasione della campagna elettorale del 2001, ebbe ad affermare: “La giustizia per me consiste nel far crescere i redditi di coloro che non dispongono di un reddito dignitoso. Non rientra tra le mie ambizioni fare in modo che David Beckham guadagni di meno”. Far guadagnare meno Beckham o chiunque altro non è certo un’ambizione da coltivare di per sé. Ma riservare uno scrutinio più severo al meccanismo che permette a Beckham e ad altri di arricchirsi piuttosto smisuratamente è, forse, doveroso, oltre che utile per meglio articolare il proprio concetto di giustizia.
Sul versante opposto si collocano quanti considerano, sempre e sistematicamente, i redditi elevati un attentato alla giustizia oltre che una minaccia all’economia, mostrando, talvolta, di essere pervasi proprio da quel sentimento di invidia ricordato in precedenza.
Il nostro discorso si svilupperà cercando di tenersi a debita distanza da questi opposti pregiudizi e prenderà le mosse, nel capitolo primo, con il tentativo di colmare una lacuna: la mancanza di un criterio di definizione e individuazione dei ricchi. Si è molto dibattuto su come tracciare la soglia della povertà e si è formato un vasto consenso sui criteri per misurare i poveri. Nulla di simile esiste per i ricchi, forse per effetto della convinzione che di essi non ci si deve preoccupare. Peraltro, la nostra lingua non permette di distinguere chi ha un ingente patrimonio da chi guadagna molto, anche grazie soltanto al proprio lavoro. Si è, in entrambi i casi, ricchi, ma si tratta di “ricchezze” ben diverse. Il nostro interesse è rivolto ai ricchi di reddito, non di patrimonio. Inoltre, per i motivi di cui diremo, ci concentreremo soprattutto su chi è ricco grazie al proprio lavoro – che, naturalmente, deve avere caratteristiche particolari per permettere redditi così elevati. Sempre nel capitolo primo, dopo avere proposto il nostro criterio per individuare i ricchi (che distingueremo dai benestanti e dai super-ricchi) forniremo una stima di quanti sono i ricchi in Italia, esamineremo la loro prevalente attività economica e confronteremo la situazione dell’Italia con quella di altri paesi avanzati.
Il secondo capitolo affronterà principalmente la questione di come si possano ottenere, grazie al proprio lavoro, redditi elevatissimi, tali da poter considerare chi li percepisce non soltanto ricco ma perfino super-ricco. In particolare, ci chiederemo se quei redditi, anche quando si formano nei mercati, siano davvero l’esito del successo conseguito in una vera gara concorrenziale oppure il frutto di altri vantaggi che rimandano, in un modo o nell’altro, al potere. Per rispondere, sottoporremo ad analisi critica le più solide spiegazioni teoriche del formarsi di redditi molto elevati nei mercati, preciseremo cosa debba intendersi per mercati concorrenziali e enunceremo alcune condizioni di compatibilità tra i mercati concorrenziali così intesi e i super-redditi. I risultati a cui giungeremo getteranno più di qualche ombra sul diffuso convincimento che i super-redditi, se si formano nei mercati, hanno sempre, alla loro base, il successo conseguito in una competizione che, peraltro, si presume molto dura.
Nel terzo capitolo, ci occuperemo della compatibilità tra i super-redditi da lavoro, così come essi si formano in prevalenza nella realtà contemporanea, e alcuni consolidati principi di giustizia liberale. In particolare, dopo avere precisato in cosa consiste il criterio meritocratico formale e quello sostanziale, ci chiederemo se i super-redditi siano, ed eventualmente in che senso, da considerare meritocratici. Mostreremo, inoltre, anche alcuni problemi che possono sorgere quando si adotta il merito come unico metro di valutazione.
Il capitolo quarto è, invece, dedicato ad analizzare sia le possibili conseguenze economiche e sociali dei super-redditi, sia i problemi che possono conseguire a interventi diretti a contenerli o a prevenirli. Esamineremo, in particolare, la possibilità che altri segmenti della società migliorino il proprio reddito e il proprio benessere grazie ai redditi dei più ricchi (è il presunto effetto di trickle-down), le conseguenze sulla libertà di eventuali misure di contrasto dei redditi più elevati e gli effetti che questi super-redditi (e il loro eventuale contenimento) possono avere sulla crescita economica.
Nelle conclusioni, infine, sintetizzeremo i principali risultati raggiunti e spiegheremo perché occorre preoccuparsi (almeno selettivamente) dei super-redditi, abbandonando l’idea che i redditi che si formano nel mercato, quale che sia la loro altezza, sono certamente meritati e porteranno benefici all’intera società. Per far fronte a queste preoccupazioni sono necessari interventi accurati e innovativi, liberi da ogni intento punitivo, e non diretti soltanto a redistribuire il reddito. Il loro scopo ultimo dovrebbe essere quello di assicurare che, diversamente, da quanto accade oggi, alla base dei super-redditi vi siano sempre processi rispettosi, almeno, della “buona” concorrenza e del merito.
Questo articolo è l’introduzione del libro Dobbiamo preoccuparci dei ricchi? Le disuguaglianze estreme nel capitalismo contemporaneo di di Elena Granaglia, Maurizio Franzini e Michele Raitano (Il Mulino, 2014) ed è stato pubblicato su Sbilanciamoci.info il 21 giugno 2014

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