Desert Blues. Armi e chitarre dei Tuareg

11 Marzo 2014 /

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di Wu Ming 5
Se si dovesse riassumere in una timeline la cronaca e la storia recente della rivolta in nord Mali restituirebbe già, senza bisogno di analisi approfondite, le dolorose contraddizioni di un processo postcoloniale che sembra aver riconsegnato intere aree del continente agli antichi padroni. La siccità e le carestie che hanno colpito il Sahel dalla fine degli anni ’60 in poi hanno radicalizzato la distanza tra Tuareg e arabi del deserto e popolazioni “nere” del sud. I Tuareg, che hanno una storia di resistenza accanita contro i colonialisti francesi, vedono nello stato del Mali e nei governi che si sono succeduti nei decenni nient’altro che la continuazione di quella dominazione. Riassumiamo un po’ di punti, che servono a riflettere sull’intreccio tra conflitto dispiegato, dimensione simbolica, arte e ideologia planetaria dominante.
I Tuareg del Mali, e i Tuareg in generale (il territorio ancestrale si estende si porzioni di cinque entità statuali: Algeria, Libia, Niger, Mali e Burkina Faso) sono tra le popolazioni più povere del pianeta, con un tasso di analfabetismo altissimo. Tradizionalmente allevatori, le carestie ne hanno decimato gli armenti e ridotto alla fame e alla sete interi clan, intere regioni. A partire dal 1984 (la carestia di Feed The world) Tuareg del Mali e del Niger sono emigrati in gran numero per arruolarsi nell’esercito libico. Per le giovani generazioni, l’unico mestiere è la vita militare e la guerra. Molti Tuareg hanno combattuto fino all’ultimo per il dittatore libico: pare che Gheddafi avesse una visione ideologica e romantica dei nomadi del deserto.
Alla fine della guerra in Libia migliaia di Tuareg sono fuggiti, armi in mano, rientrando nelle aree d’origine, e hanno vissuto sulla loro pelle – per la prima volta – l’incredibile povertà e arretratezza dei propri vecchi, nonni e parenti. Una povertà che appare sempre più inaccettabile, dato che il sottosuolo è tra i più ricchi del pianeta. Petrolio, gas naturale, oro. Ma specialmente uranio.

Sembra una storia già raccontata, quasi un cliché. L’uranio nel sottosuolo del Niger è estratto da una compagnia francese, Areva, multinazionale leader nel nucleare civile. L’area sfruttata è quella abitata dai Tuareg, quelli che erano rimasti a stentare su un territorio dove si muore di fame e quelli che sono tornati dopo le vicende libiche. In Niger, la popolazione accusa Areva di aver seminato polluzione radioattiva e reso definitivamente invivibili le aeree destinate alla magra economia di sussistenza dei Tuareg. Qui nascono bambini segnati da orribili malformazioni, il che aggrava al di là del sopportabile pene che già appaiono di portata biblica.
Per sfuggire alla miseria, alla malattia e alla morte molti capifamiglia sono disposti a ritentare l’avventura libica. Qualsiasi cosa pur di non crepare di fame, in trappola, e di vedere greggi e armenti, anziani, donne e bambini andarsene prima di te.

In Mali i Tuareg del MLNA hanno scatenato una nuova rivolta (ne hanno tentata una per decennio) contro il governo di Bamako e nell’Aprile 2012 hanno proclamato l’indipendenza. Il nuovo stato, che nessun membro della comunità internazionale ha riconosciuto, si chiama Azawad. Anche Al Qaeda, qualsiasi cosa sia, è insorta, e si è impadronita di Timbuktu. Le ragioni del successo stanno nell’estrema povertà delle tribù e dei gruppi sociali che costituiscono la base dei fondamentalisti. La base dei militanti è araba, ma ci sono anche tuareg, specie quelli costretti a vivere in poverissime baraccopoli attorno ai centri abitati. Il governo del Mali è caduto, e i militari si sono impadroniti del potere. Il premier francese Hollande ha dichiarato che l’invio di truppe nell’area non risponde a interessi economici o egemonici della Francia. Si tratta invece di aiuto e sostegno a un paese alleato.

La terra produce anche altre cose, oltre le risorse per le quali le società francesi indagano e sventrano il sottosuolo. Produce generazioni spossessate, destinate a un modo di vita arcaico e durissimo, preistorico, e queste generazioni producono azioni e parole, pensiero e musica. Una soluzione simbolica del conflitto, che si intreccia inevitabilmente con il conflitto reale, dispiegato. Musica di chitarre e amplificatori, il che suona paradossale in luoghi privi di energia elettrica. L’approccio e lo stile di artisti come Tinariwen (una band di tuareg del Mali) o Bombino (chitarrista del Niger) è radicato nella tradizione ma si muove in avanti, ambisce a una dimensione planetaria. Di cose da raccontare, attraverso il loro blues, i Tuareg ne hanno. (Il documentario di Martin Scorsese, Dal Mississippi al Mali, aveva esplorato la filiazione diretta che lega il blues del Delta alle musiche del Sahel già nel 2001).
Ma la musica di questi artisti, scale, modi e stilemi a parte, ha più a che fare con il rock ‘n roll che con le dodici battute del blues, perché esprime una tensione generazionale, disagio, lontananza, distacco. La musica è ipnotica ma attraversa mood diversi, raga-surf psichedelico nato in una delle terre più dure, povere e sfruttate del pianeta.

In tempi privi, in senso proprio, di un mainstream, non ci si può aspettare che il cosiddetto desert blues diventi una forza culturale tale da attrarre l’attenzione del grande pubblico mondiale, anche se i musicisti si stanno facendo conoscere all’estero e il tour di Bombino ha toccato pure l’Italia. Ma guardandolo esibirsi con la sua band alimentatata da generatori, sotto la moschea di Agadez, ci si accorge della forza che la musica può esprimere in tempo di conflitto.
È una prospettiva eurocentrica, biancocentrica, a vedere nelle popolazioni – le così dette etnie – segnate da crisi profonde e conflitti solo vittime di un male astorico che avrebbe a che fare con un’essenza dell’uomo, invece che come attori in campo, o portatori di un possibile bene futuro. È questa concezione drammatica, patetica dell’uomo a giustificare le “missioni di pace”, cioè l’invio di truppe, a nascondere la realtà quotidiana della rapina e dello sfruttamento e a fornire il sostrato ideale a politiche mondiali che negano la possibilità del riscatto. La musica dei Tuareg di oggi, il desert blues, è parte consapevole e attiva di un processo di affrancamento, è il presentimento di una liberazione possibile.

C’è una vicinanza tra una chitarra e un arma. La chitarra elettrica è uno strumento che conferisce potenza: attraverso l’amplificazione porta la tua energia molto lontano, e a volume molto alto. È un potenziale che può essere volto al riscatto o all’oppressione, al risveglio o all’inebetimento. Già il punk aveva presentito questa vicinanza, il “combat rock” dei Clash ne è un esempio così come lo stile, l’attitudine e i testi di molti altri gruppi punk politicizzati degli anni ’80. È interessante vedere come, decenni dopo quella fase “classica” della civiltà del consumo, quella vicinanza tra chitarra, armi e parole di riscatto si ripresenti in un’area del Africa vitale per gli interessi di antichi padroni europei e di nuovi potenziali padroni. Il governo del Niger ha negli infatti aperto negli ultimi anni a compagnie di estrazione cinesi, canadesi, sudafricane.
Ogni conflitto, evidentemente, è lo stesso conflitto. È ricchi, e clienti dei ricchi, contro poveri. E ancora una volta le chitarre ne sono la colonna sonora.
Questo articolo è stato pubblicato sul sito della Wu Ming Foundation il 5 marzo 2014

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