La crisi e il declino del modello emiliano

4 Dicembre 2013 /

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di Vincenzo Maccarrone
Poveri in aumento e forbice dei redditi più ampia. E i primi a essere colpiti sono – neanche a dirlo – giovani, migranti e operai. I dati dell’indagine ICESmo3, presentati venerdì a Modena dai ricercatori e dalle ricercatrici del Centro Analisi Politiche Pubbliche (CAPP), preoccupano, e sono un campanello d’allarme per l’intera Emilia-Romagna. Modena, infatti, è una delle province più ricche della regione, un simbolo di quello che è stato il modello Emilia dal dopoguerra a oggi. Un modello che, ora, sembra essersi inceppato.
ICESmo3 è stata realizzata sulla falsariga delle due indagini precedenti, datate 2002 e 2006. Basata su un campione di oltre duemila famiglie di Modena e provincia, questa indagine offre dati utilissimi circa il benessere di una delle province più ricche dell’intera Emilia-Romagna. Il confronto fra le varie annate ci offre uno spaccato fondamentale dell’ampiezza e dell’intensità della crisi economica che stiamo ancora vivendo. È davvero un peccato, come ha ricordato Paolo Bosi, uno dei fondatori del CAPP, che la regione non abbia deciso di finanziare ricerche analoghe, che ci avrebbero offerto una prospettiva ancora migliore. Vediamo una carrellata di dati.
Il reddito familiare equivalente (calcolato tenendo conto delle diverse componenti di reddito percepiti dai familiari, al netto delle tasse, e dividendo questo numero per una scala di equivalenza data dal numero dei familiari) è caduto del 9.6% dal 2006 al 2011. Una flessione più accentuata di quella della media nazionale e del Nord Italia, che va a diminuire il differenziale fra la provincia di Modena e il resto del paese.

Se andiamo ad analizzare come sono state colpite le differenti categorie di reddito (da lavoro dipendente, autonomi, da trasferimenti pubblici,etc), ci accorgiamo che tutti i tipi di reddito sono diminuiti, eccetto quelli da trasferimenti pubblici (le pensioni, per intenderci). La categoria senza dubbio più colpita è quella del lavoro autonomo [1].
Se studiamo più profondamente i dati, sono quattro gli elementi che emergono dall’indagine. Primo, le famiglie il cui capofamiglia è un operaio sono fra quelle che hanno subito il calo maggiore. Tengono invece quelle in cui il capofamiglia è impiegato nel settore pubblico o pensionato. Secondo, le famiglie meno colpite sono quelle il cui capofamiglia ha fra i 61 e i 70 anni, mentre le altre hanno sofferto cali notevoli. Terzo, solo le famiglie il cui capofamiglia è laureato hanno limitato i danni. Infine, la caduta è stata molto più forte per le famiglie dei migranti.
Se invece dei redditi familiari consideriamo i redditi individuali scopriamo che, a fronte di un calo redditi da lavoro del 7.3%, le categorie più colpite sono, come prevedibile, i giovani, coloro che hanno un basso livello di istruzione, i migranti e le donne.
I dati sull’occupazione ci restituiscono l’immagine di un mercato del lavoro dove aumenta il lavoro atipico, e viene distribuito in maniera diseguale. Più che gli uomini, sono le donne, alla ricerca di una conciliazione sempre più difficile fra lavoro pagato e lavoro domestico e di cura, ad avere questo tipo di contratto; più che gli anziani, i giovani e, più che gli italiani, i cittadini del sud del mondo.
I dati ICESmo3 ci dicono anche che, come prevedibile, le disuguaglianze sono aumentate durante la crisi. Se Modena, come ricordato nella discussione delle relazioni, rimane comunque una provincia con livelli di disuguaglianze molto più bassi rispetto al resto d’Italia, l’aumento c’è stato, e in maniera maggiore rispetto al resto d’Italia. Se dal 2002 al 2006 la crescita delle disuguaglianze era dovuta al fatto che i redditi più alti crescessero più rapidamente di quelli bassi, dal 2006 al 2011 è invece la caduta più rapida dei secondi a determinare l’esito finale. Sia come sia, il risultato è che un’altra peculiarità del modello emiliano è in pericolo.
Preoccupanti anche i dati sulla povertà. Usando come categoria di analisi la povertà relativa al 40% del reddito mediano, emerge che tra il 2006 e il 2011 la percentuale di poveri è salita dal 5% all’8.2% della popolazione [2]. Ancora una volta, la crisi non ha colpito tutti allo stesso modo: a maggior rischio di povertà sono i giovani, i disoccupati ed i lavoratori parasubordinati, gli operai e gli stranieri. Da segnalare – ancora – che la dinamica è peggiore a Modena che nel resto d’Italia, e che i tassi di povertà della provincia si stanno quindi allineando con quelli del Nord.
Infine, l’indagine ICESmo3 ci offre anche una visione ampia su alcuni altri indicatori di benessere (non è un caso che molti dei ricercatori e delle ricercatrici del CAPP usino l’approccio delle capacità e dei funzionamenti ideato da Amartya Sen). Se si considera, ad esempio, la dimensione della salute, ci si accorge che ancora una volta alcune categorie sono più colpite di altre. Le donne ed i giovani, in particolare, soffrono maggiormente la crisi a questo riguardo. Non stupisce nemmeno il calo della fruizione di mostre e musei, così come di spettacoli teatrali. Il rischio è che queste componenti vengano considerate “lussi inutili” che non ci può più permettere, contribuendo a un impoverimento intellettuale oltre che materiale.
Da sottolineare la dinamica del lavoro non pagato (domestico e di cura). Primo, esso è distribuito in maniera estremamente ineguale fra uomini e donne. Sommando le ore di lavoro retribuito e quelle non pagate, le donne lavorano in media a settimana 14 ore in più del partner (a fronte di un dato nazionale di “sole” 11 ore in più [3]). Secondo, durante la crisi esso aumenta nelle famiglie con redditi più bassi, per cercare di mantenere i livelli di vita il più possibile simili a quelli di prima. Ancora una volta, coloro che sopportano il peso di questo incremento sono soprattutto le donne [4].
Cosa ci dicono, dunque, i dati? Ci raccontano di un modello emiliano profondamente in crisi, tanto da stare progressivamente perdendo il suo “vantaggio competitivo” nei confronti del resto d’Italia, Nord compreso. Ci raccontano (e non siamo sorpresi) di una crisi che colpisce prima di tutto e sopratutto i giovani, i migranti e gli operai (che a quanto pare esistono ancora). E che discrimina ancora di più fra uomini e donne. E ci raccontano che il sistema del lavoro autonomo e delle PMI, da sempre fiore all’occhiello della regione, sembra non funzionare più.
Su questo urge una riflessione seria fra tutti coloro che hanno guardato con interesse alla specificità del modello emiliano, vedendo in esso un esperimento sociale da replicare. Occorre capire se le radici del declino più rapido di questi indicatori non siano di lungo periodo. Occorre capire le dinamiche di classe e di genere che emergono con prepotenza da queste statistiche.
Per capire come uscire dalla crisi, e per capire a chi farla pagare, occorre ripartire da qui.
NOTE

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